Le parole che usiamo influiscono sul modo di pensare, sulla realtà e sui comportamenti. Lo sanno bene le ideologie. E chi non ha le parole non ha le cose
di Giacomo Samek Lodovici
Anzitutto (cosa ovvia), quando con le parole avanziamo delle richieste che vengono esaudite, quando formuliamo dei comandi che vengono eseguiti, cioè. Ma, inoltre, influiscono anche quando esse pregiudicano la nostra capacità di pensare, di reclamare certe cose e di spiegarne altre, di promuovere certi valori e ideali, ecc.
Il linguaggio ideologico
Infatti (come ho già scritto in Ma come parla, «il Timone», 101 [2011], reperibile su www.iltimone.org: è un articolo che è complementare a questo), il linguaggio delle ideologie si prefigge non già di dire la verità sul mondo e sulla vita, bensì di persuadere chi lo ascolti. Anche quando gli capiti di dire qualcosa di vero, non è questo il suo scopo, bensì quello di ottenere degli effetti nell’ascoltatore (emblematica la celeberrima Xl tesi di Marx su Feuerbach: «i filosofi fino ad ora sì sono variamente sforzati di interpretare il mondo [cioè si sono sforzati di conoscere la verità], ma si tratta piuttosto di cambiarlo»). Insomma, esso ha un triplice scopo pragmatico:
– esprimere le idee dell’ideologia e diffonderle;
– impedire di pensare in modo diverso;
– trasformare la realtà e i comportamenti.
In concreto, come spiega George Orwell (nel suo grande romanzo intitolato 1984), l’ideologia modifica il linguaggio corrente in modo a sé congeniale sia coniando nuove parole, sia modificando il significato di quelle vecchie.
Diventare padroni delle parole è un obiettivo fondamentale delle ideologie (come dice, notoriamente, anche un personaggio di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, di Lewis Carroll), da cui dipende una consistente parte del loro attecchimento nel mondo (per i esempio, il successo del marxismo dipende anche dalla notevole abilità linguistica di Marx, di Stalin e di Gramsci).
Parole talismano/avvelenate
Inoltre, come dice Lopez Quintas (un filosofo spagnolo), le ideologie utilizzano alcune “parole talismano”, cioè delle parole che suscitano una forte reazione emotiva e hanno un effetto (per così dire) magico. Sono termini circondati «da un’aura di prestigio per cui quasi nessuno osa discuterli».
Ad esempio, parole talismano (come dice J. Trillo-Figueroa Martinez-Conde, cfr. bibliografia) sono state nel XVI e XVII secolo la parola «ordine», nel XVIII secolo la parola «ragione» (e potremmo aggiungere anche «progresso»), nel XIX secolo la parola «rivoluzione», nel XX secolo la parola «libertà». Per l’epoca contemporanea menzionerei (come minimo) nuovamente la parola «libertà», nonché le parole «diritto» e «tolleranza».
Similmente, potremmo dire che esistono “parole avvelenate”, che cioè lanciano immediatamente all’avversario un interdetto ed imprimono un marchio di infamia su chi ne diventa bersaglio: pensiamo, per esempio, all’epiteto «fascista» che (soprattutto negli anni settanta) veniva rivolto anche a chi non era fascista per squalificarlo, per indicarlo come nemico, come male assoluto. Oggi una parola simile è «intollerante» (e la parola «omofobo», che le è imparentata).
Manipolazioni linguistiche
Ma dicevamo all’inizio che il linguaggio determina il pensare, l’agire e i comportamenti. Per esempio, filosofi come Alisdair Maclntyre e Iris Murdoch hanno davvero ragione quando segnalano l’impoverimento del nostro linguaggio morale, specialmente per quel che concerne il lessico relativo alle virtù.
In tal senso, come scriveva Emanuele Samek Lodovici, in un orizzonte culturale scientista il linguaggio «si impegna a descrivere soltanto i fatti, le cose, i dati controllabili della realtà. Così accade che le grandi parole della tradizione filosofica dell’occidente siano intese soltanto al loro livello più basso, quello quantitativo.
Per esempio: la parola virtù, dal suo senso originario che è quello di habitus, ovvero un particolare modo con cui si possiede (habere) se stessi, si corrompe al punto da significare l’efficacia. […] La fortezza, una delle parole pilastro della tradizione greco-cristiana, e che sta ad indicare la capacità di sopportare il dolore e in ultima analisi il dolore più grande, quello del nostro finire [cioè la nostra morte], si trasforma in forza». Molti esempi di manipolazioni linguistiche si rilevano in ambito bioetico, e alcuni sono quelli menzionati all’esordio di questo articolo.
La parola «aborto», che di per sé evoca (anche in molti abortisti) qualcosa di sgradevole (anche qualora lo si consideri un diritto: per motivi erronei, come ho argomentato in Aborto: una valutazione filosofica, «il Timone», 72 [2008], pp. 30-31, reperibile su www.iltimone.org), viene rimossa e sostituita dall’asettico acronimo «ivg» (interruzione volontaria di gravidanza); similmente, il bambino che potrebbe nascere diventa «prodotto del concepimento» oppure «pre-embrione»; la pillola abortiva diventa «contraccezione di emergenza»; anche l’espressione «procreazione medicalmente assistita» è già una manipolazione linguistica, perché (per le ragioni che ho spiegato in Referendum e astensione, «il Timone», 43 [2005], pp. 10-12, reperibile su www.iltimone.org) la fecondazione artificiale non è una cooperazione alla creazione (dunque non è prò-creazione), non è una mera assistenza medica alla fecondazione, bensì è un ben diverso procedimento di fabbricazione di uomini, in cui il medico è il principale protagonista; similmente, l’espressione «fare un figlio» (invece che «avere un figlio», «concepire un figlio», «generare un figlio») esprime già, in qualche modo, un modo di pensare all’essere umano come cosa, come prodotto, è già una certa qual piattaforma di reificazione dell’uomo; ancora, l’espressione «stato vegetativo» già influenza il modo di pensare al soggetto che non è responsivo, inducendoci a pensare che egli sia un vegetale.
Ma potremmo continuare a lungo con altri esempi di manipolazioni linguistiche, attingendoli dalle strategie culturali e politiche di ridefinizione della famiglia: per fare solo un esempio, in certe leggi il padre e la madre sono diventati «genitore A e genitore B», per poter propiziare anche con il linguaggio l’adozione di bambini da parte di omosessuali (altri utili esempi nel bel libro di Pier Giorgio Liverani citato in bibliografia).
Chi non ha le parole non ha le cose
A questo punto potremmo aggiungere (come ripeteva spesso E. Samek Lodovici) che «chi non ha le parole non ha le cose». Facciamo un esempio semplice: se vado in gioielleria e voglio una certa pietra preziosa (per es. uno smeraldo), ma non ne conosco nome e non ho nemmeno le parole per descriverla, posso comprarla solo se la posso indicare con un dito, e solo se essa è in esposizione, invece che riposta in uno scrigno.
Ma quando certe cose non si possono indicare con un dito, e/o se non abbiamo le parole per designarle precisamente, e/o se queste parole hanno subito una distorsione semantica, risulta molto difficile reclamare queste cose e/o farle accadere. Ad esempio, se per designare l’essere umano che cresce nel grembo materno possiedo solo l’espressione «prodotto del concepimento», mi sarà ben difficile tutelarne il diritto alla vita, perché solamente una persona può avere diritti, non un prodotto.
E, se uso l’espressione «procreazione medicalmente assistita», mi risulterà difficile spiegare perché essa sia un’inaccettabile fabbricazione di uomini.
E se «buono» è divenuto sinonimo di «utile» o di «gratificante» («mi fa sentire bene, dunque è buono»: lo dice sempre più spesso l’uomo contemporaneo), risulta molto difficile combattere contro una pratica che è utile o ritenuta tale (per esempio, uccidere gli embrioni umani per scopi scientifici, o eliminare i soggetti non responsivi per ridurre le spese sanitarie), o contro una pratica che è piacevole (come l’uso di droghe o la sessualità nomade: che poi queste prassi, alla lunga, lascino più insoddisfazione che gratificazione è vero, ma qui non è rilevante), ma è malvagia perché lede la dignità della persona.
Per saperne di più…
Emanuele Samek Ludovici, Metamortosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, 1979 (nuova ristampa 1991), pp. 105-121.
George Orwell, 1984, Mondadori, 1950, parte II, capitolo 9 ed appendice finale.
Pier Giorgio Liverani, Società multicaotica. Con il Dizionario dell’Antilingua, Ares, 2005.
Jesùs Trillo-Figueroa Martinez-Conde, Le ideologie non sono morte, lo dimostra il linguaggio, “Vita e Pensiero”, 5 (2009), pp. 72-82, reperibile on line.