Nel 1960 il 90% dei bambini di peso inferiore al chilo moriva. Fortuna che nessuno ha pensato di etichettare la cura di questi piccolissimi come “accanimento terapeutico”, altrimenti non saremmo arrivati al risultato di oggi: il 90% dei bambini sotto il chilo di peso sopravvive.
di Carlo Bellieni
Ma proviamo a capire meglio: se vediamo un vicino di casa che cade dal quinto piano di un caseggiato c’è un’alta possibilità che muoia o che resti gravemente ferito, ma non per questo non ci affanniamo per chiamare un’ambulanza. Se è fortunatissimo se la caverà con qualche graffio, ma potrebbe anche poter restare costretto a muoversi su una sedia a rotelle. Non lo sappiamo, ma un vicino è in pericolo, e chiamiamo l’ambulanza.
Per il neonato la situazione è analoga: tranne pochissimi casi, se nasce piccolissimo non abbiamo nessuno strumento per sapere se sopravviverà, se avrà danni gravi o lievi. Sappiamo che i rischi che muoia sono altissimi, e i rischi che resti con qualche forma di disabilità lo sono altrettanto: cosa facciamo? Lo lasciamo morire?
Nel febbraio 2006 Repubblica titolava «Fermiamo le cure intensive per i neonati troppo prematuri», commentando un documento presentato da un gruppo di medici in quei giorni a Firenze. «Niente cure intensive per il neonato di 22-23 settimane, ma solo un accompagnamento dolce alla morte – si leggeva nella sintesi giornalistica –; trattamento intensivo per quello di 24 solo se la rianimazione produce «sforzi respiratori spontanei, frequenza cardiaca, ripresa del colorito; rianimazione e cure intensive obbligatorie, invece, per i nati dalle 25 settimane in poi».
Ma cos’ha di diverso un neonato da un adulto, che invece cureremmo senza alcuna esitazione? Forse due cose: la possibilità di esprimersi e farsi valere e il fatto che ancora non ha avuto il tempo di farsi amare.
Riguardo la scelta se curarlo sulla base della sua impossibilità di esprimersi, crediamo che in uno Stato civile questo non possa essere mai un criterio per prendere una decisione: chi è debole, proprio per questo dev’essere più tutelato. Riguardo la seconda ipotesi – cioè curare solo chi è chiaramente voluto e amato – solo un pregiudizio porta a credere che la scomparsa di un bambino dia meno dolore di quella di un adulto. Ma se anche così non fosse, dovremmo curare – o astenerci dal farlo – solo nell’interesse del paziente (il bambino) e non di altri (i tutori).
Perché allora – come si chiedeva Fabio Mosca, direttore della Clinica Mangiagalli di Milano al recente Congresso nazionale di neonatologia di Rimini – non concedere una chance a chi nasce, seppur a rischio di morte o di danni? Si potrà rispondere: «Perché è interesse del bambino gravemente disabile non vivere».
Siamo sicuri? È stato forse chiesto a lui cosa preferisce? L’abbiamo semmai chiesto ai genitori, che sono impegnati col trauma di una nascita prematura, destinatari della comunicazione frettolosa dell’unica verità che un medico può dire in quel momento, che cioè non sappiamo quali saranno le conseguenze.
Può nascere da questo una decisione cosciente e ben informata? Si sente dire anche che si deve far prevalere la “qualità” della vita prevedibile per il bambino: ma come si può decidere della qualità della vita se alla nascita non abbiamo strumenti per conoscerla e se, oltretutto, il diretto interessato non può darci il suo parere? Giuseppe Buonocore, ex presidente della European Society of Pediatric Research, sostiene che invece di pensare a scegliere chi deve vivere, la società dovrebbe impegnarsi per una distribuzione solidale, seria, utile di fondi, di cultura, di integrazione a chi è più malato.
Certo, attenti a non cadere nell’accanimento terapeutico; se un bambino dopo aver iniziato le manovre curative non risponde entro un ragionevole periodo di tempo non abbiamo motivi per insistere; così come non si devono usare mezzi straordinari per rianimare bambini con patologie mortali.
E, infine, attenti a tenere i genitori sempre al centro del programma curativo che può comprendere le cure intensive come le cure palliative di fin di vita: i genitori sono i primi alleati del bambino, bisogna fare in modo che mai nessuno possa dire che il dolore di un bambino è insopportabile, in un’epoca che ha gli strumenti per vincerlo. Ma non è accanimento terapeutico trattare il neonato come tratteremmo l’adulto che avesse un grave incidente stradale: prima di dire che le cure sono inutili in un adulto verificheremmo diagnosi e prognosi, mentre qui… abbiamo solo il breve tempo di uno sguardo sul lettino in sala parto.
Dunque perché non agire con questi piccoli come si agisce con gli altri? Perché, sostiene il presidente dei neonatologi toscani, Franco Bagnoli, non usare il solito tubo per l’ossigeno, vedere se risponde ed eventualmente sospendere le cure se la risposta non arriva? Attenti: sospendendo le cure sotto una certa età, anche dei bambini che sarebbero sopravvissuti e avrebbero avuto pochi danni saranno lasciati senza cure.
Ma forse l’handicap ci fa così paura che preferiamo dare un taglio alle zone grigie dove non è tanto incerto il sopravvivere, ma è quasi certo l’handicap. Oltre 300 operatori della sanità neonatale scrissero nel 2006 una lettera aperta ai giornali prendendo le distanze da una mentalità che vede la vita umana come qualcosa che si può sezionare con barriere e confini, e un congresso di oltre 500 medici e infermieri neonatologi tenutosi a Bologna nel dicembre dello stesso anno ribadiva lo stesso concetto, pur concordando che c’è un limite all’intervento medico, ma che questo va visto caso per caso e verificato con attenzione prima di dire che non è il caso di intervenire.
In questi giorni il Ministro Turco e il Comitato Nazionale di Bioetica prendono visione del problema e si domanderanno se è giusto rianimare chi è a rischio di morte, pretendendo, speriamo, che si abbia una sicura diagnosi – quasi sempre impossibile alla nascita – prima di sospendere le cure.
Si domanderanno anche se vale la pena di rianimare un piccolissimo a rischio di disabilità… e su questo speriamo che si facciano consigliare anche da coloro che vivono concretamente la disabilità, troppo spesso lasciati nel silenzio e che, contrariamente alle visioni fobiche della malattia che ci attorniano, raramente, davvero raramente chiedono di morire. La disabilità fa paura; ma che mai più facciano paura i disabili: loro si aspettano non un’etichetta di indesiderati ma un maggior impegno dalla società dei “sani”.
(A.C. Valdera)