di Andrea Bernardini
Tutti i bambini nati vivi devono essere rianimati. Il soccorso deve essere immediato (sono sufficienti pochi secondi di incertezza per mettere a rischio la loro sopravvivenza). Solo più tardi, a bocce ferme, i medici valuteranno se è il caso o meno di proseguire le cure. È, in vulgata, quanto hanno affermato in un documento ginecologi, ostetrici e neonatologi delle quattro università romane: Sapienza, Tor Vergata, Cattolica e Campus Biomedico. Secondo i medici romani il soccorso iniziale è dovuto indipendentemente dalla volontà dei genitori.
Secondo fonti ufficiose la bozza elaborata dal Comitato sosterrebbe più o meno questo: la valutazione dei parametri vitali fatta alla nascita non può assumere il valore rigoroso di una prognosi, né giustificare la desistenza terapeutica; anzi, anche in caso di bambini nati dopo la 22ª e 23ª settimana di gestazione (la cosiddetta zona grigia, dove la possibilità di sopravvivenza è limitata e c’è il rischio di handicap) le cure sono dovute.
Insomma, per parafrasare un motto latino in dubio, pro vita né, sul destino del proprio figlio, può essere vincolante il parere dei genitori; naturalmente, l’attività dei medici non dovrà mai sfociare in «accanimento terapeutico».
Il documento dei ginecologi e neonatologi romani non è piaciuto al ministro della Sanità Livia Turco che, pur riconoscendo il dovere di rianimare i feti ritiene che «sia una crudeltà insensata (…) farlo contro la volontà della madre».
Il dibattito sul destino dei bambini nati pre-termine tiene banco da due anni. Ed è partito proprio dalla Toscana, dal documento noto come Carta di Firenze sottoscritto da rappresentanti di alcune società scientifiche nel febbraio 2006 al termine di un convegno svoltosi all’Istituto degli Innocenti di Firenze.
Il documento, utilizzando come fonte per la valutazione della speranza di vita e degli esiti dei bambini fortemente prematuri uno studio inglese pubblicato nel 2000 su dati del 1995, definì «di incerta vitalità» i nati prematuri a 22-25 settimane e «straordinarie» le cure loro eventualmente prestate, suggerendo ai medici di non rianimare mai i neonati di 22 e 23 settimane e di rianimare quelli di 24 settimane solamente nel caso di segni obiettivi di ripresa, agendo comunque «in armonia» coi genitori.
Ai firmatari della Carta di Firenze rispose con una lettera aperta sottoscritta da 200 neonatologi l’associazione di operatori sanitari «Medicina & Persona» secondo cui in quel documento si trovavano «errori statistici ed epidemiologici», oltre a omissioni bibliografiche. Secondo Medicina & Persona «non è accettabile infatti astenersi preventivamente dalla cura per motivi medico-legali e/o economici. […] Compito della medicina è “prendersi cura sempre” (guarire quando possibile), cercando di superare il limite rappresentato dalla malattia».
Un mese dopo fu stilata a Siena la Carta dei diritti del neonato che stabiliva anche per il neonato a prognosi gravemente patologica il diritto «a non vedersi sospendere le cure, ma a ricevere tutta l’assistenza adeguata al caso», oltre che a non essere sottoposto ad accanimento terapeutico in caso di stato terminale.
Al termine di un convegno svoltosi a Roma nel 2006 i neonatologi stilarono delle linee-guida basate non più su un criterio probabilistico rivisto al ribasso, basato sulle settimane di gestazione, ma una valutazione da effettuare «caso per caso» e capace di rispettare la persona, la sacralità della vita e la morte.
Più o meno alle stesse conclusioni arrivarono, nel dicembre 2006, gli esperti riunitisi in un convegno a Bologna: di fronte a neonati altamente prematuri occorre attivare un percorso terapeutico individuale; né può incidere sulla scelta del medico di andar avanti o meno con le cure ogni tipo di previsione sulla qualità della vita che il futuro riserverà al bambino (e alla sua famiglia chiamato ad accudirlo).
Nel febbraio 2007 è giunto poi come un terremoto il caso del piccolo Tommaso, ai cui genitori era stata comunicata la diagnosi prenatale di possibile atresia esofagea, una malformazione correggibile chirurgicamente dopo la nascita. Il piccolo è stato abortito all’ospedale di Careggi alla 23° settimana, ma è nato vivo, sano, senza la malformazione temuta; per carenza di posti è stato trasferito al Meyer, dove è morto dopo sei giorni.
Le polemiche suscitate dal caso hanno indotto il ministro della salute Turco a istituire un gruppo di lavoro di esperti per redigere delle raccomandazioni «rivolte agli operatori sanitari coinvolti nell’assistenza alla gravidanza, al parto e al neonato estremamente pretermine». Tale organismo, presieduto dal presidente del Consiglio Superiore di Sanità, professor Cuccurullo, internista, e dalla dottoressa Maura Cossutta, ematologa (ed ex parlamentare dei Comunisti italiani, ndr) ha presentato il proprio documento il 22 gennaio di quest’anno.
In esso si afferma che ai neonati nati alla 22° settimana «devono essere offerte solo le cure compassionevoli, salvo in quei casi, del tutto eccezionali, che mostrassero capacità vitali»; alla 23° settimana «quando sussistano condizioni di vitalità, il neonatologo, coinvolgendo i genitori nel processo decisionale, deve attuare adeguata assistenza, che sarà proseguita solo se efficace»; alla 25° settimana «il trattamento intensivo è sempre indicato e va proseguito in relazione alla sua efficacia».
Le conclusioni del gruppo di lavoro, che devono essere approvate dal Consiglio Superiore di Sanità, pur mostrandosi tiepidamente favorevoli a dare una chance ai bambini fortemente prematuri di 22 e 23 settimane, tornano dunque a sposare la stessa logica probabilistica della carta di Firenze.
IL DOCUMENTO
Questo il testo sottoscritto a Roma il 2 febbraio scorso da direttori e professori delle cliniche di ostetricia e ginecologia di quattro Università romane (Tor Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico.): Domenico Arduini, Emilio Piccione, Giovanni Scambia, Massimo Moscarini, Giuseppe Benagiano, Pierluigi Benedetti, Giuseppe Angioli.
Con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all’assistenza sanitaria. Pertanto un neonato vitale va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente.
L’attività rianimatoria esercitata alla nascita dà quindi il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e della possibilità di sopravvivenza e permette di discutere il caso con il personale dell’Unità ed i genitori. Se ci si rendesse conto dell’inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico».
COSI’ NEL MONDO
Da una recente (Pediatrics 2008) revisione della linee-guida adottate in diversi paesi emerge come ci sia un generale accordo nel considerare adeguate le cure intensive dopo le 25 settimane. Al di sotto di questa soglia ci sono grosse differenze: in Canada è prevista la rianimazione anche a 22 settimane (solo su richiesta dei genitori), negli Stati Uniti si consigliano solo cure compassionevoli quando il neonato ha meno di 23 settimane o un peso inferiore a 400 grammi, anche se l’American College of Ostetricians and Gynecologists raccomanda di scegliere caso per caso.
In Germania le cure intensive sono consigliate solo dopo la 24 settimana.
In Olanda il limite per l’assistenza neonatale è fissato a 25 settimane. In questo Paese esiste un protocollo che regolamenta l’attuazione dell’eutanasia neonatale applicabile anche a quei neonati che indipendentemente dall’età gestazionale, potrebbero sopravivere grazie alle cure intensive ma con incerta «qualità della vita» per i quali allora «genitori e medici possono essere d’accordo sul fatto che la morte sia nel miglior interesse del bambino stesso».
In Svizzera si pone come limite per la rianimazione neonatale quello della 25° settimana e nelle Raccomandazioni pubblicate nel 2002 si sottolinea che questo ha lo scopo di «prevenire una sopravvivenza con handicaps».
Anche in Belgio l’assistenza ai prematuri è prevista solo dopo la 25° settimana e anche in questo paese le morti dei neonati e dei bambini nel primo anno di vita è comunemente preceduta da una «decisione di fine vita».
In Gran Bretagna il Nuffield Council of Bioethics (prestigioso Istituto di bioetica inglese) ha reso pubblico un rapporto con il quale suggerisce ai medici di non rianimare i neonati nati sotto le 22 settimane di età gestazionale, di non prestare cure intensive a quelli nati tra 22 e 23 settimane (a meno che non lo chiedano i genitori ed i medici siano d’accordo), di prestare le cure intensive a quelli di 24 e 25 settimane a meno che i genitori e medici concordino sul fatto che non vi sono speranze di sopravvivenza, mentre è obbligatorio prestare le cure intensive ai neonati nati dopo la 25 settimana di gestazione.
Da una revisione pubblicata recentemente relativa alla sopravvivenza dei prematuri in Gran Bretagna si parla di un significativo aumento della stessa tra 22 e 25 settimane senza, tra l’altro, un aumento della presenza di handicap.
In Francia si ritiene che il limite di vitalità sia tra 22 e 24 settimane e che tra 24 e 26 la sopravvivenza dipenda da molti fattori, ma soprattutto si pensa che i medici debbano valutare quale sia il miglior interesse del neonato in base alla sua «qualità della vita». È allora possibile la sospensione delle cure, dopo avere parlato con i genitori, ma comunque da intendersi come «decisione medica» e non stupiscono allora le parole del collega francese (in parte già ricordate) che afferma addirittura che è «molto più rischioso per una famiglia vivere con un bambino gravemente handicappato che… si preferisce la morte ad un handicap profondo».
SCIENZA E VITA
Oggi le possibilità di sopravvivenza vanno dal 5 al 60% Perché non provarci? Ogni cento bambini nati dopo 22 settimane e 6 giorni di gestazione, cinque sopravvivono grazie a cure intensive: perché, dunque, abbandonarli a priori? Se lo chiede il dottor Renzo Puccetti, 42 anni, pisano, medico internista, segretario dell’associazione Scienza & Vita di Pisa e Livorno.
Dottor Puccetti, cosa dice la letteratura internazionale a proposito dei bambini nati fortemente prematuri?
«Secondo i dati provenienti da 600 cliniche nel mondo raccolti nel Vermont Oxford Network, la sopravvivenza a 22 settimane è del 5%, sale al 30% nei nati a 23 settimane e arriva al 60% nei bambini nati a 24 settimane di gestazione. In una casistica condotta analizzando 19.507 neonati ammessi in 17 reparti di cure intensive neonatali in Canada sono sopravvissuti e sono stati dimessi dal reparto il 14% dei neonati a 22 settimane, il 40% a 23 settimane e quasi il 60% a 24 settimane».
Dunque: perché non provarci?
«Sapete quant’è la probabilità di sopravvivenza di un adulto sottoposto a rianimazione cardio-polmonare? È pari al 6,5- 15%. Ma quale medico degno di questo nome si sognerebbe di proporre di abbandonare il paziente perché le probabilità di successo della rianimazione sono scarse? Chi non effettuerebbe il massaggio cardiaco per evitare che all’eventuale successo della manovra facesse seguito, comunque, un deficit neurologico?».
L’altra faccia della medaglia… i bambini non voluti. Ha suscitato molto clamore il caso del piccolo Tommaso, ai cui genitori era stata comunicata la diagnosi prenatale di una possibile atresia esofagea. Il piccolo, abortito all’ospedale di Careggi alla 23ª settimana, nato vivo, sano, senza la malformazione temuta, trasferito al Meyer e qui morto dopo sei giorni…
«Purtroppo il caso del piccolo Tommaso non è un evento eccezionale. In Inghilterra è stato da poco pubblicato un rapporto ufficiale che indica in 66 i bambini nati vivi e deceduti dopo un aborto volontario, di cui 50 prima delle 22 settimane».
La legge 194 stabilisce che «quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna»…
«La regione Lombardia ha preso atto delle nuove acquisizioni, stilando una direttiva che stabilisce, in ossequio alla legge 194, che non si possano effettuare interruzioni di gravidanza oltre le 22 settimane e 3 giorni di gestazione, tranne, appunto, i casi d’imminente pericolo per la vita della madre. Si tratta di un primo passo, ma ancora insufficiente se consideriamo che in alcune casistiche giapponesi vi sono sopravvivenze del 5% anche per epoche gestazionali di 20 settimane ed errori nella valutazione dell’età gestazionale sono tutt’altro che eccezionali, da cui la necessità scientifica di un maggiore abbassamento di garanzia del limite di aborto. Nella sola Italia se si fosse abbassato a non oltre 21 settimane il limite post-quem l’aborto non è più possibile (salvo pericolo per la vita della mamma) sarebbero stati salvati in un anno 869 bambini».
Una valutazione, questa, su cui la comunità scientifica (e anche quella politica) è però divisa…
«Posso avanzare un sospetto? L’ecografia morfologica, una procedura per lo studio delle strutture anatomiche fetali che consente lo screening e la diagnosi di eventuali malformazioni del feto, viene comunemente eseguita alla 20-22° settimana. È evidente che avvicinare a questo periodo della gravidanza il momento in cui, per la possibile vitalità del feto, l’aborto non è più consentito, rappresenta per alcuni un’intollerabile minaccia, da scongiurare in ogni modo».
PARLA LA NEONATOLOGA
Neonatologia è un luogo in cui il filo che separa la vita dalla morte è così sottile da apparire quasi… inesistente. Ne è consapevole Laura Guerrini, neonatologa, ogni giorno impegnata nel reparto di terapia intensiva al «Santa Chiara» a Pisa.
Dottoressa Guerrini: chi può decidere se ad un neonato gravemente pretermine debbono essere praticate o meno cure intensive?
«Il neonatologo. È lui che ha le competenze per capire se quel bambino che ha di fronte mostra dei segni di vitalità: allora non potrà fare altro che iniziare le manovre di rianimazione riservandosi poi di valutare la risposta successiva del piccolo paziente, pronto a fermarsi qualora si rendesse conto che gli sforzi terapeutici risultino inutili per quel bambino. Vi assicuro, e vorrei con questo rassicurare tutti, che nelle Terapie intensive neonatali non ci sono dei “mostri” che si accaniscono o sperimentano su questi bambini, ma dei medici che con la massima professionalità possibile si prodigano nella speranza di aiutare queste vite, vite delle quali sentiamo la responsabilità».
Alcuni asseriscono che ci vorrebbero incontri collegiali per decidere cosa fare…
«Io credo che non dovremo dimenticare che, per le caratteristiche dei nostri pazienti, le condizioni cliniche possono variare in modo estremamente repentino e, di conseguenza, quello che era giusto, ad esempio, ad inizio turno può non esserlo più dopo poche ore. È allora fondamentale la formazione personale (umana e professionale) del personale sanitario per essere capaci di “reagire bene” di fronte all’urgenza, senza cadere nei due eccessi dell’accanimento o dell’abbandono. Certo alcuni strumenti potrebbero essere utili (come lo sviluppo dei Comitati di bioetica all’interno degli ospedali) ma dovrà essere sempre il medico a decidere in coscienza la cosa giusta da fare per quel singolo paziente».
E i genitori? Sono sufficientemente lucidi per decidere in pochi secondi per il sì o per il no alla vita?
«Chi afferma di sì commette una grande ipocrisia: i genitori sono assolutamente impreparati ad affrontare una situazione così drammatica (siano essi stessi… dei medici), vivono una situazione di grande stress psicofisico e spesso anche dopo il primo colloquio, con il bambino già nato, si rendono conto solo in parte di cosa sta succedendo. In queste condizioni sono facile preda del messaggio che noi medici siamo in grado di mandare: con onestà dovremmo ammettere che il modo con cui comunichiamo con loro, il tono della nostra voce, lo sguardo … insomma tutto di noi può mandare dei messaggi che possono incidere in modo decisivo. Certo, i genitori hanno il diritto di essere informati in modo esaustivo sulle condizioni cliniche del loro bambino ma dovremo ricordare che anche il Codice deontologico (art. 33) parla di “prudenza” nella comunicazione di “prognosi gravi o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza” aggiungendo anche che non devono essere esclusi “elementi di speranza”».
Si dice: no a cure intensive perché il bambino soffre… ma il piccolo può soffrire?
«Contrariamente a quanto si riteneva alcuni anni fa, oggi sappiamo che il neonato, anche un piccolo prematuro, prova dolore. Nei nostri reparti, però, ci siamo dotati di vari strumenti analgesici (farmacologici e no) per evitarlo. Più complicato è il discorso della “sofferenza” che implica la conoscenza del proprio stato e della prognosi e che quindi non è una categoria applicabile al neonato. Penso allora che la sofferenza possa essere di noi medici e sicuramente sarà dei genitori.
In questi anni di lavoro in Terapia intensiva neonatale devo riconoscere che difficilmente i genitori ci chiedono di sospendere le cure anzi è molto probabile che non accettino il fatto che per il loro bambino non ci sia più niente da fare e se è vero che si assicurano che il piccolo non provi dolore è soprattutto vero che quello che vogliono è potersi sentire genitori anche se la vita del figlio è destinata ad esaurirsi presto».
La dottoressa Guerrini prende nel cassetto la lettera di una mamma indirizzata ad una figlia che non c’è più. Siamo autorizzati a pubblicarla. È il ricordo di Gloria Maria, tornata fra gli angeli. «Gloria Maria – scrive sua madre – ci ha lasciato dopo soli dodici giorni di vita… spero di averle fatto sentire che l’amavo, di un amore profondo che mi portava a coprire di baci il suo esile corpicino sofferente, nella consapevolezza che il giorno seguente, forse, non sarei stata più in tempo per stringere quella manina e sentire quel cuoricino battere forte».
LA TESTIMONIANZA
Mario e Marta sono gemelli. Nessuno dei due sa chi è più fortunato dell’altro. Marta per la sua vita normale… gli studi, le amicizie, la sua gioia di vivere, e forse anche per il fratello, sensibile e affettuoso, sentimenti che esprime a modo suo, ma che in casa hanno imparato a leggere, eccome.
Dario, cui una sofferenza neonatale ha procurato la tetraparesi spastica, per l’affetto che, giorno dopo giorno, le mostrano la sorella, i genitori, e molte altre persone. Papà Orlando, dipendente della Asl (dunque, come si dice in questi casi… un addetto ai lavori) da alcuni anni ha cominciato a scrivere su un quaderno aneddoti, emozioni, ricordi, momenti vissuti con Dario e nella società. Ne è nato il libro Oltre le barriere della mente (edizioni Del Cerro), un piccolo contributo per «accogliere e lasciarsi provocare dalla disabilità».
Siamo in casa Quaglierini. Una famiglia serena. Orlando stringe a sé la moglie Maria Gloria. «Se venti anni fa – dice – i medici ci avessero prospettato se tenere o meno nostro figlio, non so cosa avremmo riposto. Sappiamo però come avremmo risposto oggi: Dario è per noi un ragazzo meraviglioso. Dobbiamo a lui se siamo cresciuti come genitori, in maturità e sensibilità».
Certo, venti anni a fianco di un portatore di handicap grave non sono uno scherzo. «Abbiamo avuto momenti di sconforto – ammette il padre di Dario – ci è stata molto di aiuto, in questo senso, la sorella. Prima inconsapevolmente: il suo sorriso solare, la sua vivacità, esigevano una risposta e, dunque, anche una reazione; col tempo, poi, consapevolmente, Marta si è inserita perfettamente nelle dinamiche familiari in qualche modo da modificate la presenza del fratello».
Nel libro, Orlando Quaglierini ragiona sulla reazione delle istituzioni (enti locali, scuole) di fronte ad un diversamente abile: interventi tangibili come la fornitura di carrozzine, indennità economiche, trattamenti riabilitativi, cure specialistiche, persino ascensori per l’abbattimento di barriere architettoniche… «interventi che necessitano di una buona legge e della sua copertura finanziaria»; ma il diversamente abile ha anche necessità di un altro tipo di interventi – dice Orlando – le relazioni umane, la qualità dei rapporti: «e questo, non c’è nessuna legge che può garantirli».
Ne ha beneficiato Dario fino ad oggi? «In alcuni momenti ci siamo sentiti soli. Ma in venti anni abbiamo anche incontrato persone meravigliose: insegnanti, bidelle, logopediste, fisioterapiste, obiettori di coscienza: giovani e medici straordinari, insieme a persone meno straordinarie. Ma, credetemi, in fondo all’espressione il risultato è nettamente positivo».
Orlando cita il libro «Nati due volte»: «I figli diversamente abili nascono due volte: la prima volta è come li fa la natura; la seconda è come li plasma l’amore». Sarà per questo che Dario oggi è «un gran ruffiano. Sereno». «A volte – dice Orlano Quaglierini – ci ritroviamo insieme a famiglie che vivono la nostra stessa situazione. Ci dicono: “ecco i nostri compagni di sventura”. Beh, noi non ci sentiamo puniti dalla vita, né in disgrazia. Ma semplici “compagni di viaggio”».
(A.C. Valdera)