Prima li hanno eliminati. Poi li hanno trasformati in buoni eroi. Ma l’America ha sempre un debito aperto con gli indiani…
di Antonio Socci
ANDREW Jackson fu presidente degli Usa dal 1829 al 1837. Nato nel Tennessee diventò famoso nel 1812 per il massacro di indiani nella «guerra dei Creek». Si guadagnò così un soprannome, «coltello affilato», e la presidenza degli Usa. Ma, per la sua versatilità, si distinse pure come proprietario di schiavi negri e speculatore terriero. Jackson era massone e durante la sua presidenza fu tale il dominio delle Logge imposto sul Nuovo Mondo che nel 1832 nacque addirittura, per contrapporglisi, un Antimasonic party, guidato da William Wirt, che naturalmente alle presidenziali fu sconfitto.
Jackson aveva poche idee, ma molto chiare: la deportazione di tutti gli indiani e la riduzione in semi-schiavitù (appena sopra i negri) di quelle tribù che non l’avessero accettata. Per una ragione: la supremazia della razza bianca.
«Che queste tribù non possano sopravvivere circondate dai nostri insediamenti e in continuo contatto con i nostri cittadini» argomentava il filantropo «è cosa certa. Esse non hanno l’intelligenza, l’industriosità, le consuetudini morali o il desiderio di migliorare che sarebbero essenziali per qualsiasi progresso della loro condizione. Costrette a vivere in mezzo a una razza diversa e superiore, senza comprendere le cause, della propria inferiorità e senza la capacità di controllarle, debbono necessariamente soccombere alla forza delle circostanze e in breve tempo estinguersi». Forte di tali idee nel 1830 fece approvare al Congresso l’«Indian removal act». Era la «soluzione finale». Per gli indiani cominciavano «i sentieri delle lacrime», ovvero uno dei più misconosciuti stermini della storia.
CENT’ANNI DA WOUNDED KNEE
Degli indiani si torna a parlare oggi non per il centenario, appena suonato, del massacro finale, quello di Wounded Knee. Lo ricordarono il 3 marzo 1973 duecento Sioux, gli ultimi superstiti, denunciando anche i 371 trattati stipulati dagli americani e mai rispettati. La Casa Bianca pensò di inviare a parlarne l’esercito che li tenne in stato d’assedio per settanta giorni e fece alla fine due morti e decine di feriti.
No. Tornano sui giornali di oggi gli indiani per l’ennesimo film dei bianchi sui pellerossa. Balla coi lupi di Kevin Costner ha sbancato in incassi e in Oscar. Hollywood – dopo decenni di diffamazione, con centinaia di film spediti per tutto il mondo a rappresentare quella razza selvaggia, vile e sanguinaria – oggi fa cassetta con un film dalla parte degli indiani (ma l’eroe è sempre un bianco), tanto gli indiani sono ormai «estinti»,
Ma di indiani si torna pure a parlare nel caso della regina Isabella di Castiglia «la troppo cattolica» (come la chiama Le Monde). Apprendiamo da un servizio dell’Espresso che la regina, pur morta nel 1504, avrebbe dato il via al genocidio degli indiani, cominciato in realtà un po’ in differita due secoli dopo.
II massacro su scala industriale infatti comincia nel 1637. Per mano di coloni inglesi, puritani (e ferocemente anticattolici) accolti amichevolmente dalla tribù Pequot, che ricambiano massacrandoli in una notte: «Nel buio, sotto un forte vento» come riferisce James Truslow Adams «i due ingressi dello steccato furono sorvegliati per impedire che qualcuno scappasse, e poi fu avvicinata una torcia. Cinquecento indiani, uomini, donne e bambini, morirono bruciati, e il condottiero puritano si limitò ad osservare che, grazie alla provvidenza divina, quella notte erano in casa 150 indiani più del solito»
CON GLI OCCHI DI TOCQUEVILLE
Comincia così la festa yankee. Nel 1840 Tocqueville annota: «Non si è mai vista una distruzione così rapida». Un capolavoro, al quale i cattolici non hanno preso parte (per questo non resta che riesumare, in qualità di correa, Isabella, vissuta quattro secoli prima). Il Nordamerica infatti, è off limits per ì «romano cattolici». Al momento dell’indipendenza Usa ce n’erano appena 20mila su 3 milioni e mezzo di abitanti (lo 0.5 per cento). Oltretutto emarginati e perseguitati dalla «dispotica supremazia protestante». (Placucci) I documenti di Propaganda Fide attestano che perfino il numero di missionari, nel 1786, è minimo: «Diciannove Preti nel Maryland e cinque in Pennsylvania».
Gran parte della minoranza cattolica infatti era raccolta proprio in Maryland, dov’era arrivata per prima. Ma anche lì le persecuzioni cominciarono presto perché la Chiesa anglicana, già nel Seicento, ottenne di essere proclamata «Chiesa ufficiale del Maryland» e nel 1704 cominciarono le leggi persecutorie «per prevenire la crescita del papismo entro questa provincia» (perfino la celebrazione della messa era punita con una multa di 50 sterline e sei mesi di carcere).
A quel tempo ai cattolici sono interdetti i diritti politici, anche nelle città fondate in nome della libertà religiosa, come Rhode Island, uno dei cinque distretti che formano la città di New York. La formula suonava generalmente così: diritto di voto «Roman catholics only excepted» (eccettuati solo i cattolici romani). Gli Stati Uniti così nascono su «una concezione fondamentalmente deista» corredata di tutto il simbolismo massonico voluto dai padri fondatori e con una pretesa: «Abbiamo fondato una nazione in nome della ragione e non del potere, da cui sboccerà la nuova vita» (Joseph Campbell).
A LORO IL DESERTO
I 500mila pellerossa che popolavano il Nordamerica al momento dell’arrivo dei coloni bianchi non seppero mai di essere stati sterminati dalla ragione e non dal potere. Conobbero tuttavia di persona Andrew Jackson che del genocidio fu uno dei campioni. Nei primi decenni delI’ Ottocento sono centinaia i massacri, i trattati firmati dai bianchi e mai rispettati, le truffe, le vendite forzate di enormi terre per due soldi. Gran parte delle tribù pellerossa è costretta a emigrare al di là del Mississippi.
Gli esploratori del governo Usa infatti – grazie all’amichevole e ingenua collaborazione degli indiani stessi – avevano potuto appurare che all’Ovest c’era solo deserto inospitale, quindi «molto adatto» per gli indiani. Invece le terre che avevano abitato per secoli erano chiaramente destinate ai bianchi: «Possibile» si chiedeva il governatore dell’Indiana. Harrison «che una delle regioni più ridenti del globo debba restare allo stato di natura, covo di pochi miserabili selvaggi, quando sembra destinata dal Creatore a fornire il sostentamento a una numerosa popolazione e a divenire sede della civiltà, della scienza e della vera religione?».
Cinque grandi tribù (Chcrokee, Creek, Chicasaw, Choctaw-Seminole) decisero di assimilarsi ai nuovi padroni. Si trasformarono in contadini e allevatori, costruirono sui propri territori fattorie, scuole, villaggi e anche chiese. Si trattava di 45mila pellerossa circa che si dettero anche ordinamenti costituzionali simili a quelli degli Usa associandosi al governo di Washington. Gli Stati dove si trovavano i loro insediamenti continuarono a considerarli «una via di mezzo fra il negro e il bianco» (Gilmer, governatore della Georgia), ma quando sulle loro terre furono scoperti giacimenti d’oro diventarono solo tribù da deportare o massacrare.
GLI SCHIAVI DEL MISSISSIPPI
Quando nel maggio 1830 Jackson fa approvare l’Indian removal act i pellerossa possono liberamente scegliere di essere deportati al di là del Mississippi o ridotti in schiavitù. I Cherokee si appellano al Senato. Intanto «la legge marziale è imposta ovunque: le terre dei Cherokee frazionate e vendute all’asta: membri della tribù condannati a morte da una giuria dello Stato della Georgia e impiccati da boia dello Stato» (da Il Secolo del disonore).
Gli indiani nel 1832 si appellano anche alla Corte suprema degli Stati Uniti grazie all’azione di due missionari. Il presidente della Corte John Marshall riconobbe il loro diritto. Ma il presidente Jackson, beffardo, commentò: «Marshall ha preso la sua decisione: bene, e adesso la applichi».
Comincia così questa tremenda deportazione per quelli che si chiameranno «i sentieri delle lacrime». Perfino le spese dell’esodo saranno dallo Stato addebitate alle tribù. Un esodo che avviene in condizioni bestiali. «Un delitto che sconcerta la nostra immaginazione» commenta Ralph W. Emerson.
Tocqueville che vide di persona questa deportazione ha scritto: «Alla fine del 1831 mi trovavo sulla riva sinistra del Mississippi in un luogo chiamato dagli europei Memphis… Vi giunse una torma numerosa di Choctaws… Eravamo nel cuore dell’inverno, il freddo si faceva sentire in quell’anno con insolito rigore: la neve si era indurita per terra e il fiume trascinava degli enormi ghiacci. Gli indiani conducevano con sé le famiglie; si tiravano dietro feriti, malati, bambini appena nati e vecchi morenti. Non avevano tende, né carri, ma solo poche provviste e poche armi. Li vidi imbarcarsi per traversare il gran fiume e non dimenticherò mai questo spettacolo solenne. Non si udivano fra questa folla né lamenti né pianti: essi tacevano».
E i loro diritti, e i trattati firmati dal governo americano? «I trattati» rispondeva il governatore della Georgia «sono espedienti mediante i quali genti ignoranti e selvagge sono state indotte a cedere senza spargimenti di sangue ciò che i popoli civili hanno il diritto di possedere in virtù di ciò che il Signore ordinò agli uomini dopo averli creati».
LE UOVA DEI PIDOCCHI
I più riottosi sono stati convinti ad andarsene con le catene. Perciò nel 1838 il presidente Van Buren (uomo di Jackson) potè riferire: «Le misure del Congresso hanno avuto felici risultati. I Cherokee sono emigrati senza apparente disapprovazione».
Negli anni successivi neanche nei deserti dell’Ovest gli indiani poterono vivere in pace. Attorno al 1850 il governo americano si annette tutto l’Ovest fino alla California. Gli indiani, a cui non è concessa neanche una rappresentanza politica, si rassegnano a cedere tutto per 700mila dollari, con le garanzie di 140 trattati. Il Congresso, che non ratificherà mai i trattati, gliene concederà solo 50mila. Nel 1850 in California vi erano 100mila indiani. Nel 1903 saranno 4mila. Non si contano le atrocità, come quelle dei tanti colonnelli Chevington, nei confronti di donne e bambini in base al principio che «le uova di pidocchio, fanno i pidocchi». «Trattati come cani, mentre la nostra vita e la nostra libertà divenivano trastullo dell’uomo bianco» commentò il capo Cherokee John Ross, noi 1834, durante la deportazione.
Oggi agli ultimi pellerossa scampati non resta che supplicare il governo perché vengano restituite loro almeno le ossa dei loro avi che i bianchi espongono per «loro trastullo» in musei e come cimeli. Per gli indiani è una umiliante profanazione. Ma anche il presidente Bush non ha orecchi per questa umanissima supplica. Non a caso farebbe parte di un circolo per il trastullo dei bianchi, fondato da suo padre Prescott. l’Ordine del teschio e delle ossa, che secondo i pronipoti del capo indiano Geronimo, esporrebbe illegalmente nel suo tempio il teschio di Geronimo. La vittima trasformata in trofeo dall’invasore.