Si può rendere “etica” la globalizzazione? Sì, non facendone una questione solo economica. Parla Crocker, discepolo di Amartya Kunar Sen
di Massimo Giuliani
Quando si parla di globalizzazione si è soliti sentirne o un gran bene o un gran male. Frontiera del futuro benessere o causa di ogni nuova catastrofe economica, perdita d’identità, sfruttamento planetario. Ma cosa sta dentro questa parola sulla quale da tempo discettano, come a un tavolo anatomico, filosofi ed economisti, ingegneri ed esperti di comunicazione, ed ora anche teologi e leader religiosi? E perché da un po’ di tempo in qua chi dice “globalizzazione” si sente rispondere “etica”? Ne parliamo con David Crocker, che domani in Vaticano terrà la relazione d’apertura ad un convegno promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze sociali. Crocker è docente presso la scuola di Affari Internazionali dell’Università del Maryland, negli Usa, e fondatore-presidente dell’International Development Ethics Association.
Qual è l’idea che ispira l'”Associazione internazionale per l’etica dello sviluppo” che lei presiede?
«Nel 1984, durante un incontro di filosofi ed economisti in Costa Rica, sentimmo il bisogno di confrontare le più recenti teorie dello sviluppo, soprattutto quelle applicate nel cosiddetto terzo mondo, da un punto di vista critico. L’idea era ed è quella di contestare quei modelli di sviluppo che si concentrano esclusivamente sulla crescita economica e che puntano ad aiutare i poveri solo attraverso interventi di assistenza. Il nostro scopo è di favorire la dimensione etica dello sviluppo a tutti i livelli, da quello locale a quello sovranazionale».
Il termine-chiave del vostro lavoro è “una nuova etica delle capacità umane”. Cosa significa?
«Preferisco parlare di un approccio ispirato alle capacità umane. Secondo quest’approccio, che include un’etica, lo sviluppo dev’essere pensato come valorizzazione, garanzia e cura di alcune capacità, o se si vuole, libertà fondamentali come la possibilità di vivere una vita lunga e sana, di godere la qualità del cibo e dell’acqua, di partecipare alla vita sociale e politica della propria comunità, di decidere sui valori cui ispirare la vita, e via elencando. Questi sono fini in se stessi, mentre i beni e i servizi economici (quelli studiati dagli economisti) sono mezzi per ottenere questi fini. Compito del dibattito pubblico e morale è difendere tali fini, senza metterli sul conto di un mero modello economico basato sulla domanda e sull’offerta, o su cause ed effetti. L’economia dov’essere disegnata per gli esseri umani, e non il contrario. L’ispiratore di tale nuovo approccio è Amartya Sen, Nobel per l’economia e filosofo a Cambridge».
Ma è davvero possibile guidare eticamente l’economia?
«Sì, per quanto difficile è possibile. I dogmi della scientificità, della neutralità ai valori e del determinismo tecnologico ostacolano gli sforzi tesi ad umanizzare le teorie e la pratica dello sviluppo dei Paesi più poveri. Il modo migliore per l’etica di guidare la sfera economica è quello d’intensificare e ampliare il dibattito pubblico circa i fini e i mezzi delle istituzioni nazionali e internazionali che lavorano in questo settore».
La globalizzazione sembra oggi più un destino che una scelta. Quali sono i costi e le implicazioni a cui dobbiamo o dovremo in futuro far fronte?
«È vero, è un destino perché non possiamo semplicemente ordinare che si fermino il commercio internazionale o le interazioni mondiali. Tuttavia c’è ampio margine di manovra affinché regioni e nazioni civilizzino e umanizzino le nuove forme di interconnessione globale. È un destino, ma non è un fato. È piuttosto un processo contingente e aperto, che ad un tempo stringe e allarga le opportunità per il benessere umano. Per questo dobbiamo studiarne i modelli e le teorie: per valutarne l’impatto sulle nostre vite. In sé, la globalizzazione non è né buona né cattiva. A volte potrà venirne una minaccia alla nostra dignità, e altre volte una valorizzazione. Un’etica della globalizzazione serve a distinguere l’un caso dall’altro. L’atteggiamento giusto è quello analitico, che sa discernere tra rischi e opportunità».
Come evitare che, con le opportunità, si globalizzi anche l’ingiustizia? È sufficiente quel che dice Amartya Sen, che la povertà è una questione in “incapacitazione”?
«Il nostro scopo dovrebbe essere non quello di prevenire ma di ridurre l’ingiustizia. Se povertà non è solo scarso reddito ma privazione di abilità (intesa come “saper-poter fare”), e se la prima abilità è quella di saper prendere decisioni (anche politiche), allora per ridurre la povertà occorre concentrarsi sui modi in cui i cittadini possono far ascoltare la loro voce dentro la propria comunità. Il concetto di povertà elaborato da Sen è necessario ma non sufficiente. C’è bisogno anche di una corresponsabilità etica e di un’efficace azione per ridurre la miseria e promuovere le libertà umane. Non gli esperti in economia ma i poveri devono essere gli agenti promotori del proprio sviluppo».
Come le donne, così spesso penalizzate, possono essere attivate in questo processo di auto-sviluppo ed emancipazione?
«Purtroppo in molte nazioni le donne e le minoranze etniche sono escluse dalle decisioni economiche e politiche. Il movimento denominato “Donne e sviluppo” ha cercato di sanare le ingiustizie legate alla sessualità, sostenendo la parità di diritti e doveri delle donne rispetto agli uomini. Sen ha calcolato che tali ingiustizie tolgono dal mondo circa 100 milioni di donne, che “esistono” come se non ci fossero. Sarebbe utile cominciare col garantire alle ragazze un accesso al diritto alla salute e all’educazione pari a quello che godono i ragazzi. Ma molte culture tradizionali continuano a pensare che non valga la pena, perché le donne sono di valore inferiore rispetto agli uomini».
Quale contributo possono offrire le religioni (se possono)?
«Le religioni possono ispirare comportamenti tradizionali e perpetuare ingiustizie, ma possono anche contribuire con linfa vitale a un’etica universale dei diritti umani e dello sviluppo. Il cristianesimo ha molto da offrire, soprattutto seguendo l’idea che uomini e donne sono tutti fratelli e sorelle. Il Papa, con le sue encicliche, ha dato un grande contributo di idee. Tuttavia esistono profonde differenze tra, e dentro, le religioni. Un’etica dello sviluppo ha bisogno non solo di tolleranza verso il pluralismo ma anche di processi democratici, attraverso i quali persone con diverse fedi possono convergere su alcuni valori accettabili e accettati da tutti»
La sua nuova etica sembra implicare una nuova politica. Forse che in futuro avremo bisogno di altre istituzioni politiche internazionali create per “governare la globalizzazione”?
«Lei ha ragione. Una nuova etica dello sviluppo ha precise implicazioni politiche. Per ora è importante migliorare i forum democratici già esistenti, e crearne di nuovi a tutti i livelli. Invece di organismi internazionali che rappresentano solo Stati-nazione ed élites governative, occorre inventare modi attraverso i quali le società civili possano giocare un ruolo al tavolo della globalizzazione. A qualcosa di simile si rifà lo statuto del Tribunale contro i crimini internazionali, istituito a Roma nel 1998. Fare i conti con i reati politici del tipo di quelli avvenuti in Argentina, Sudafrica, Cambogia, Guatemala o nell’ex Yugoslavia, è un modo per “far buona” la globalizzazione orientandola verso il rispetto della legge, dei diritti umani e dei valori democratici”.