di Olga Adamova Sliozberg
Il nostro atteggiamento verso il lavoro era sempre oggetto di discussione, specialmente da parte degli uomini che ci deridevano perché cercavamo di svolgere bene il nostro compito. – Credete che se lavorate onestamente questo vi aprirà le porte del lager? – ci prendevano in giro. Va da sé che il lavoro non portava nessun vantaggio, che ci imbrogliavano, che i capireparto segnavano quello che avevamo fatto noi alle loro amichette, che il salario per le prigioniere politiche era stato abolito, e che una giornata di lavoro di un delinquente comune valeva una volta e mezzo le nostre, se non due.
A noi assegnavano gli strumenti di lavoro meno adatti e gli appezzamenti più scomodi.Era difficile opporsi a queste disposizioni, giacché il nostro lavoro andava tutto a vantaggio del vile sistema penitenziario e i capetti ricevevano onorificenze e premi a spese della nostra fatica e della nostra salute. D’altro canto il lavoro era l’ultima risorsa che avevamo per distinguerci dalla massa abbrutita e corrotta, che aveva col lavoro un rapporto orrendo. Ricordo una volta che dirigevo una brigata addetta alla coltivazione dei cavoli. In quelle condizioni il cavolo rappresentava per i prigionieri la salvezza dalla dissenteria.
Malgrado le condizioni di lavoro, accudivamo il cavolo come fosse un bambino piccolo: d’estate gli davamo più volte concime e fertilizzanti, lo riparavamo dai primi freddi, lo annaffiavamo di continuo. Con quanta gioia vedevamo spuntare nel nostro appezzamento i piccoli capi bianchi, malgrado la siccità, il fango, le nevicate della tarda primavera. Avevamo sempre fame, ma non ci saremmo mai permesse di mangiare i prodotti prima che fossero completamente maturi. Coglievamo solo le foglie esterne e ci facevamo delle grigie zuppette.
Un giorno, passando vicino al campo, mi accorsi che il cuore dei cavoli non c’era più. In un primo momento detti la colpa a qualche parassita e decisi che bisognava subito eliminarlo; ma poi vidi una donna della nostra brigata, Valja, una detenuta comune, che tranquillamente strappava il cuore dei cavoli e se lo sgranocchiava.
– Perché fai questo? Vuoi rovinare tutto il raccolto?
Sorrise ottusa e rispose:
– E a noi che serve? Andrà ugualmente sul piatto delle protette del capo.
Per poco non mi misi a picchiarla, la furia mi aveva annebbiato la vista, e lei sorrise con aria innocente:
– Ma che ti prende?
Il lavoro era l’unica attività umana che ci era rimasta. Non avevamo più nulla, né famiglia, né libri, vivevamo nella sporcizia, nel tanfo, nell’oscurità sopportavamo umiliazioni da parte dei sorveglianti, che di notte potevano entrare nella baracca, ordinare alle donne semisvestite di mettersi in fila e col pretesto di una perquisizione, andare a frugare nei nostri letti, tra la nostra biancheria, leggere le nostre lettere. Per una qualche ragione gli addetti ai bagni erano uomini e, quando noi protestammo, i capi si misero a ridere e risposero: “Se ti tagliano la testa non rimpiangerai i capelli…”.
Solo il lavoro era degno dell’uomo. Facevamo le contadine, come prima di noi avevano fatto milioni di donne. Eravamo felici di ciò che riuscivamo a fare con le nostre mani e volevamo essere non meno brave delle contadine espropriate, le quali da principio ci guardavano con una certa malevolenza “Eh!, voi, donne istruite. Stavate a leggere i vostri libri e campavate alle nostre spalle. Provate ora il rastrello e la falce…”.
Naturalmente le contadine lavoravano meglio, ma i caporali ex kulak prendevano le parti di noi “politiche” anche contro le “comuni”, malgrado con queste fosse più facile intendersi e benché con noi dovessero badare a non bestemmiare troppo.
Sapevano che lavoravamo in maniera sistematica e con coscienza mentre le prigioniere comuni facevano tutto molto più in fretta di noi, ma appena i caporali si allontanavano si mettevano a dormire, senza curarsi se il seminato andava a male o se il gelo stroncava le piantine più giovani. Il duro lavoro da contadina lontano dalla scorta, dalla gente estranea e dai malvagi è uno dei pochi ricordi luminosi che le tenebre del lager mi hanno lasciato. A volte ce ne andavamo in sei, il nostro gruppo, a lavorare in un campo lontano. Tre a falciare e tre a rastrellare l’erba falciata.
Te ne vai con la falce in spalla e davanti hai la pallida distesa della povera terra della Kolyma; con le narici aspiri il profumo dell’erba che sta appassendo e sopra di te il cielo è pallido e trasparente… Era doloroso quando il lavoro nel quale noi mettevamo l’anima risultava essere una sciocca, ridicola punizione. Scavavamo canali nel terreno fangoso per il deflusso dell’acqua. A cinquanta gradi sotto zero lavoravamo duro di piccone, cercavamo di raggiungere la quota. Se durante la notte la neve copriva il canale ancora non finito, lo ripulivamo perché fosse quanto era stabilito.
Probabilmente nessuno si sarebbe accorto se mancavano dieci o quindici centimetri, ma c’era il rischio che l’acqua non scolasse bene, che restasse nel terreno. Era un lavoro molto duro. La terra pareva cemento. Il fiato restava sospeso nell’aria. Le reni e la vita dolevano per lo sforzo.
Ma noi lavoravamo con coscienza. In primavera, quando la terra si sgelava, mandavano i trattori con le macchine per scavare i canali, che in un’ora facevano quello per cui a noi, al nostro gruppo di sei persone, occorrevano due mesi. E quando chiesi perché non usassero lo stesso sistema per tutti i canali, mi sentii rispondere dal caporeparto: – E voi allora che fate? Volete starvene sdraiate a poltrire? No bellina, ti hanno portato nel lager perché tu lavori.
Sentivo una insopportabile vergogna per quelle assurdità. Ci imponevano un lavoro insensato, e noi ci mettevamo tutte le nostre energie. Eravamo degli schiavi. Giurai di non mettere più l’anima nel lavoro e di ingannare la direzione in tutti i modi possibili. Non mi riuscì, non potevo cambiare la mia natura e lavorare imbrogliando, di certo però il mio entusiasmo andò scemando. E tuttavia il lavoro ci ha salvato.
Quelli che non lavoravano morivano di fame o di disturbi psichici causati dalla mancanza di distrazioni, giacché il lavoro impegnava tutte le forze, sia psichiche che fisiche. Talvolta morivano anche quelli che lavoravano, ma erano casi più rari, almeno tra le donne. Per gli uomini invece bastavano due stagioni da addetti al lavaggio dell’oro per farli ammalare. Loro naturalmente non potevano amare il lavoro che li uccideva e parlavano delle miniere con orrore.