Noi, madri selvagge

Tavella_coverIl Foglio 18 febbraio 2006

Un libro delle femministe Alessandra Di Pietro e Paola Tavella contro la tecnorapina del corpo delle donne e contro i luoghi comuni in provetta

Alessandra Di Pietro e Paola Tavella

Madri selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile (Einaudi Stile libero, 184 pagine, 11,50 euro) il “manifesto radicale di amore per la vita” scritto da Alessandra Di Pietro e Paola Tavella. Sarà in libreria dal 21 febbraio.

Il luogo da cui parliamo. “Ci siamo dette subito che abbiamo sempre provato una sorda irritazione leggendo le storie di donne che si fanno martirizzare con aghi, ormoni e quant’altro pur di avere un bambino. Questa mancanza di solidarietà ci ha messo un forte senso di colpa perché noi abbiamo avuto i nostri figli abbastanza facilmente. In verità abbiamo pure pianto per amiche, conoscenti ma anche intervistate in Tv che raccontavano il dolore della sterilità, e questo ci ha sollevato dal sentirci delle carogne. Noi avevamo compassione, dunque, ma l’irritazione rimaneva.

In quei giorni leggevamo avidamente le inchieste giornalistiche sull’argomento e osservavamo l’immaginario mediatico in via di costruzione. Veniva raccontato per esempio, come se si scrivesse del Paese di Bengodi, che squattrinate studentesse di Barcellona vendono i loro ovuli per novecento euro sentendosi altruiste.

Le donne infertili venivano descritte come corpi e menti totalmente consegnati alla tecnomedicina, vittime di una sciagura che la scienza può oltrepassare trattando l’utero come un banale pezzo di corpo, senza indagare sulla persona, sulla mente, su quel venti (e secondo alcune stime anche trenta) per cento di inspiegabili ragioni della sterilità, su ansie, desideri, accanimenti.

Un gran numero di donne, osiamo sperare la maggioranza, affronta l’infertilità crescente in modo più complesso e giunge a conclusioni altre dalle testimonianze  che i giornali amavano raccontare: “Il diario delle mie stimolazioni”, “Voi non capite che cosa vuol dire amarsi e non poter creare una nuova vita”, “A cinquant’anni ho incontrato l’uomo del mio cuore e volevo dargli un figlio che gli assomigliasse”.

Storie che avevano un ruolo formidabile nell’offrire modelli che consacravano un unico stereotipo: sono infertile, quindi l’unica via è la fecondazione artificiale nelle sue multiple combinazioni, quindi i sacrifici e il martirio valgono la pena. A chi facevano comodo storie così? Non alle donne, di sicuro.

Di fronte all’impossibilità di concepire un figlio, molte hanno provato con la fecondazione assistita e capito che non riuscivano a sopportarla, altre sono riuscite a smettere, qualcuna ha adottato e qualcuna no. Non pensiamo a intellettuali scettiche, cattoliche militanti, fondamentaliste della Madre Terra, psicoanalizzate: ci sono donne di ogni tipo e cultura che scelgono altro rispetto al supermercato del cosiddetto fantastico progresso tecnoscientifico.

Hanno rifiutato l’idea che una parte di sé, pur significativa – l’infertilità, appunto – definisca in negativo la loro femminilità. Se l’esasperazione del desiderio di maternità rafforza il pregiudizio sociale che si debbano fare figli per essere vere donne, saremo tutte meno libere. Perché la separazione tra sessualità e procreazione è una meraviglia così come il contrario (che purtroppo possiamo sperimentare meno spesso), e ha dato spazio e agio a chi non potrà mai avere figli e a chi decide di non averne. Le donne sono comunque fertili, i loro gesti lo dimostrano.

L’immaginario su chi crea forme di vita ma non si riproduce va arricchito, praticato, sostenuto, celebrato. Sono fertili e senza figli Adrienne Rich, George Sand, Emily Dickinson, Jane Austen, Elsa Morante, Virginia Woolf, Vittoria Colonna, Alessandrina Ravizza, Rossana Rossanda, Hetty Hillesum, Christabel Pankhurst, Cristina Campo, Simone de Beauvoir, Artemisia Gentileschi e migliaia di altre prima e dopo di loro.

Non esiste assenza di fertilità se non come condizione del cuore, e allora è la più infelice. Entrambe siamo nate dalle nostre madri, poi nel corso della vita nuove parti di noi sono state messe al mondo e nutrite dal sostegno, l’aiuto, l’autorizzazione di altre che non ci avevano creato nella carne, perfino da quelle che abbiamo conosciuto solo attraverso attraverso i loro libri.

Alcune avevano figli, altre non ne avevano, ma noi le riconosciamo e le onoriamo come nostre madri, e loro lo sanno. Una donna che sa porre un limite alla prescrittività culturale che ci vuole madri o infelici, e che è capace di opporsi all’invasività sul suo corpo, fa un grosso favore a tutte, e di certo la critica femminista alla scienza e alla sua neutralità lo ha fatto a noi, bisogna continuare coraggiosamente a pensare, senza lasciarsi ricattare dall’accusa di oscurantismo che ci muove il potere tecnomedico.

Le donne cedono ai tecnomedici il potere sul meccanismo del concepimento, e in cambio ottengono un bambino che non hanno potuto fare con un uomo. Il totale spodestamento fisico e simbolico del corpo delle donne come luogo del concepimento e della prosecuzione della specie è uno scenario futuribile, mentre la riduzione del desiderio e della complessità del corpo a una sola sua parte, sia essa l’utero o lo spermatozoo, è già in corso. Sta succedendo ora.

E allora, ci si può sottrarre alla tecnoscienza senza essere accusati di odio per la modernità, il progresso e la ricerca? Pensavamo che il diritto di scelta sia anche rifiutare ciò che è possibile fare per “il nostro bene”. Ma a farsi da parte – anche solo perché diffidenti, perplesse, attendiste, per natura paranoiche, non amanti dei bambini – si appare come irragionevoli, o peggio come sciagurate.

L’uso delle conoscenze scientifiche ormai fornisce a tutte, in Occidente, preziose rassicurazioni sul benessere delle donne in gravidanza e dei bambini che nasceranno, aiuta a diagnosticare malattie e a curarle. L’abuso che di regola se ne fa, invece, mette a repentaglio un’antica e sperimentata consapevolezza nel dare la vita, per consegnarla a esami perfetti o ancora imperfetti pur di avere la certezza di un neonato sano. Esiste un’ossessione di eliminare il rischio, ma ci chiedevamo: si può eliminare del tutto il rischio dalla vita?”.

Eugenetica quotidiana. “La maternità è vissuta da molte come un’ennesima performance, una delle tante. Essere una donna emancipata è infatti una sorta di prestazione, una dimostrazione del proprio valore, certe volte un’impresa eroica. Alessandra sentiva il dovere ‘di essere brava’ come lo era stata negli studi, nella professione, nella relazione con un uomo, nel guadagnare denaro.

In tutta la prima gravidanza aveva combattuto per sottrarsi a quello schema. Meditava moltissimo, faceva yoga, leggeva, ascoltava mantra e reggae, ha lavorato fino al settimo mese, dopo si è lasciata vivere. Paola si era sentita spaventosamente in colpa quando scoprì che il bitest esisteva e lei agli inizi delle sue gravidanze non lo aveva né saputo né fatto. Adriano, il secondo, era già felicemente nato, ma Paola ha ricavato da questo suo sentimento la riflessione che la medicalizzazione di un evento naturale, accettata per placare la paura dell’ignoto, in realtà non fa che alimentarla, perché spinge a ricercare una sicurezza, una garanzia sulla “qualità del feto” che semplicemente non è possibile.

Paola soffriva perfino di una rara forma di nevrosi retrospettiva: e se Adriano fosse stato malato e non avessi fatto il possibile per saperlo? Per quanti esami siano stati inventati, una percentuale di incertezza persiste, sono i medici a dirlo. D’altronde è ovvia, insita nella natura delle cose. Il bambino non si può vedere né toccare finché è dentro la madre, è un passeggero clandestino, la sorpresa dell’uovo di Pasqua, il mistero, l’imprevisto e l’imprevedibilità della nuova vita.

Così, può sembrar strano, a volte il miglior rimedio all’ansia non è farsi un altro esame, ma provare ad avvertire la mano del destino all’opera, accettare che non tutto è sotto il nostro controllo, sentirsi un po’ passive. Come se un viaggiatore che viene dall’altro mondo avesse scelto proprio noi come un traghetto per arrivare qui.

Siamo madri incoscienti? Pecchiamo di insubordinazione al progresso perché abbiamo cercato di usare gli strumenti offerti dalla modernità senza rinunciare al nostro sentire, confidando più che diffidando? A noi sembra che la diagnosi prenatale sia diventata una sorta di obbligo cui è complicato sottrarsi, o scegliere fra i vari esami secondo criteri che non coincidono con quelli della medicina ufficiale, pena passare per irresponsabili.

Chi non fa “tutti gli esami” non per trascuratezza ma per libera e meditata scelta viene maltrattata un po’ dappertutto, negli ospedali e dai medici di base, a meno di non rivolgersi a ginecologhe e ostetriche che sulla naturalità della nascita lavorano da anni, in una nicchia sempre più ristretta, e che a loro volta devono mediare con le istituzioni, le strutture, gli altri professionisti per difendere la loro esperienza, le loro convinzioni, le loro pazienti.

“Se oggi c’è la possibilità di prevedere lo stato di salute di chi nascerà, almeno in rapporto alle malattie genetiche più gravi, c’è il dovere, non solo il diritto a farlo. La medicina dei desideri non c’entra niente. È un’etica della responsabilità che i genitori sono chiamati a osservare, e di cui la scienza ha spostato i confini”.

Così ha dichiarato Luisella Battaglia, ordinaria di Filosofia morale a Genova, una delle poche donne che fa parte del Comitato nazionale di Bioetica. A noi queste parole fanno rizzare i capelli, perché cancellano la volontà della madre. Che cosa può diventare il ‘dovere’ di fare nascere un figlio sano? Un obbligo imposto per legge? Un imperativo morale? L’incoraggiamento – o peggio – ad abortire qualora si portasse un feto non fisicamente sano? L’obbligo di sottoporsi comunque alla ricerca di eventuali malformazioni, di piegarsi alla tecnomedicina in ogni sua forma estrema e invasiva?

Una recente indagine dice che in Europa l’ottantanove per cento delle donne preferisce ricorrere all’aborto se l’esito dell’amniocentesi rivela che il feto è affetto da sindrome di Down. Dobbiamo dunque condannare quelle che invece non abortiscono? Disprezzare quelle che non hanno fatto il possibile per sapere e eliminare?”.

Maternalia. “La maternità è il ‘grande rimosso della contemporaneità’” (Silvia Vegetti Finzi), opaca, insondabile, stretta com’è fra desiderio e rifiuto del ruolo biologico, fra sacro e profano, nodo irrisolto di pensieri e emozioni.

Se ne parla molto, perché qui non si fanno abbastanza figli, se si fanno li si vizia e li si stressa, oppure si trascurano perché le mamme “pensano solo a far carriera”. I sì e i no rivolti alle madri convivono, incuranti del paradosso, e quasi tutte si trovano costrette a scelte laceranti – stare a casa con i bambini, oppure lavorare e farlo bene – e a combattere con sensi di colpa e perenne incertezza.

La rimozione del materno non è segnata dal silenzio, piuttosto da giudizi senza pietà, che diffondono l’ansia di non essere “giusta”, di non essere una buona madre. E così non solo il desiderio, ma anche il vissuto della maternità sono impastati di onnipotenza e riluttanza a considerare i propri limiti”.

___________________________

di Nicoletta Tiliacos

Abbiamo concepito i nostri figli nel piacere, li abbiamo partoriti accucciate, nel dolore e nel sangue, li abbiamo attaccati al seno con gusto per anni. E se in futuro si vergognassero di noi, le loro madri selvagge? Se ci rimproverassero di averli fatti nascere come umani, non selezionati, non diagnosticati, non testati, confidando in una sorte che pure avrebbe potuto esser predetta e scelta?”

E’ davvero folgorante, l’attacco del libro di Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, del quale anticipiamo alcuni brani. Un libro che già prima di uscire ha corso il rischio di passare per una sorta di autodafé femminista, di manifesto di un pentitismo  fuori tempo massimo rispetto alle posizioni di quello che è stato ed è il movimento delle donne.

Chi si aspetta di trovarci tutto questo, però, rimarrà deluso. Perché nelle pagine di “Madri selvagge” sono ben riconoscibili ed esaltati (altro che negati), proprio molti temi dominanti del pensiero femminista degli ultimi trent’anni.

E’ stato il femminismo a inaugurare un originale filone critico rispetto alle tecnologie che coinvolgono il corpo della donna e la generazione umana: un filone che anche in Italia ha dato molti frutti. E mai il femminismo ha accettato a scatola chiusa le “promesse luccicanti” della tecnoscienza.

Come sottolineano le autrici di questo pamphlet (che è insieme un appassionato racconto autocoscienziale, un “romanzo antropologico”, un’inchiesta giornalistica e anche la dimostrazione di quanto creativa possa essere l’amicizia tra donne), le loro “non sono certo domande nuove venute in mente a noi.

Il movimento delle donne se le pone dagli anni Ottanta, quando alcune iniziarono a discutere delle biotecnologie, chiedendosi perché proprio sul corpo delle donne, dopo averlo provato sugli animali, inizia la più impensabile delle intrusioni, fin dentro i meccanismi che danno origine alla vita umana, e perché sia il desiderio femminile il grimaldello che consente alle biotecnologie, tecniche largamente sperimentali e ancora rozze, di essere accolte con entusiasmo come portatrici di salute e libertà.

Il ventre materno è diventato campo di sperimentazione e luogo di esercizio del potere tecnoscientifico per eccellenza”.

Paola Tavella e Alessandra Di Pietro, che non si accontentano dell’oleografia del materno “in provetta” santificato sui rotocalchi nel fuoco della battaglia pseudo-laica contro la legge 40, decidono quindi di andare a “vedere”: parlano, si confrontano, si documentano, usano la pratica del femminismo, la regola aurea del partire da sé, per scoprire (ma è una conferma) che le loro stesse riserve sul potere salvifico della tecnoscienza sono patrimonio, questo sì davvero condiviso, della maggior parte del femminismo in giro per il mondo.

Da qui nascerà la loro scelta di astenersi ai referendum, correndo il “rischio” di trovarsi dalla stessa parte di Ruini. Fatto che non le turba, così come probabilmente non turberebbe Judy Norsigian, direttrice del Boston Women’s Health Book Collective (autore del bestseller “Noi e il nostro corpo”, uno dei testi fondamentali del femminismo degli anni Settanta) che chiede a sua volta una moratoria sulla clonazione degli embrioni umani.

Proposta che, scrive, “è frutto di un’ampia discussione e di una mediazione elevata all’interno del movimento femminista mondiale per la salute della donna”. Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi perché in Italia il movimento delle donne sia così reticente nel denunciare la “tecnorapina” degli ovociti, alla quale Di Pietro e Tavella dedicano un documentato capitolo.

La spiegazione, per questa e altre anomalie, la dà involontariamente Elena del Grosso, su Liberazione: “I ragionamenti che da anni andiamo facendo sulla manipolazione della vita in generale e nello specifico sulle biopolitiche che attraversano,  tagliano e ridisegnano i nostri corpi, non sono stati dimenticati durante la campagna referendaria. Sono però stati messi momentaneamente da parte in nome di una minaccia proveniente direttamente dalle gerarchie vaticane”.

La paura di Ruini, dunque, è più forte del rischio di finire appiattite sui partiti e ingoiate dalla logica della tecnoscienza. Ma non è una buona politica, per le donne, dimenticarsi di se stesse, nemmeno “momentaneamente”. E Di Pietro e Tavella, nel loro libro, lo dimostrano.