Anno 2010. per la prima volta i preti ordinati dagli istituti missionari italiani sono tutti stranieri. Per padre Pietro Gheddo la colpa non è solo della crisi della fede e della natalità
di Piero Gheddo
Ogni anno a giugno gli istituti missionari celebrano l’ordinazione sacerdotale dei loro diaconi e le destinazioni alle missioni. Quest’anno i quattro nati in Italia (Pime, Comboniani, Saveriani e Consolata) non hanno nessun sacerdote italiano – questo almeno mi risulta. Il Pontificio istituto missioni estere (Pime) ordina 11 sacerdoti, ma tutti stranieri: quattro brasiliani, tre indiani, tre birmani e uno della Guinea Bissau.
Un amico comboniano mi ha detto che quest’anno hanno chiuso il loro noviziato europeo, che riceve giovani dai sette paesi del continente in cui l’istituto è presente. Il Pime, istituto non religioso (cioè senza i voti), è internazionale solo dal 1989, mentre altri istituti, da sempre internazionali, hanno un maggior numero di sacerdoti dalle missioni. Ma la situazione delle vocazioni missionarie italiane è più o meno uguale per tutti: sì e no un solo sacerdote all’anno, quando va bene.
Secondo i dati delle Pontificie opere missionarie, nel 1934 l’Italia aveva 4.013 missionari nei territori di missione, 7.713 nel 1943, 10.523 nel 1954. Nel 1965 la rivista Fede e Civiltà dei missionari saveriani (che attualmente esce come Missione Oggi) realizzò un’inchiesta da cui risultava che i missionari italiani in missione erano 10.708.
Dopo il Concilio Vaticano II sono aumentati fino ai 16 mila del 1985. Un fatto straordinario, dovuto ai sacerdoti “fidei donum” (diocesani in missione), al volontariato laico nelle missioni e al fatto che molti istituti, congregazioni e ordini religiosi, soprattutto femminili, sono diventati missionari mentre non lo erano mezzo secolo prima. Altre Chiese d’Europa, tradizionalmente missionarie, hanno avuto una forte diminuzione.
La Francia è passata da 22 mila missionari sul campo negli anni Sessanta a 11 mila, l’Olanda da 6 mila a 2 mila, la Germania da 14 mila a 6 mila, gli Stati Uniti da 15 mila a 7 mila, secondo statistiche del 1989.
Oggi la situazione non è certo migliorata. Si calcola che gli italiani in missione siano circa 12 mila, ma «con i capelli sempre più grigi», come scrive Mondo e Missione in un “servizio speciale” dell’ottobre 2008 intitolato “Missionari in via di estinzione?”.
Titolo provocatorio quello scelto dal mensile del Pime, ma questa è la realtà. Dopo quasi sessant’anni nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, esprimo una mia convinzione. Le cause sono certo molte: crisi di fede e delle famiglie, ragion per cui mancano i giovani; crisi delle diocesi e delle parrocchie, dove si incontrano sempre più preti stranieri.
Ma il crollo delle vocazioni missionarie dipende in gran parte dal fatto che la figura del missionario non attira più. Era affascinante fino a quarant’anni fa (Indro Montanelli mi diceva: «Voi missionari siete tutti eroi»), ma è molto decaduta nella cultura del nostro tempo e quasi scomparsa nei mass media d’oggi.
Noi missionari e i nostri istituti abbiamo perso la nostra identità e il nostro fascino. Eravamo gli inviati della Chiesa per portare Cristo e il Vangelo ai popoli e fondare la Chiesa come negli Atti degli Apostoli. Questa era la nostra identità, l’immagine che avevamo noi giovani sognando di diventare missionari. Poi la missione è cambiata e il missionario ha perso l’aureola di eroe e di pioniere, oggi va a servire Chiese quasi ovunque già fondate.
Tutto vero, ma è anche vero che i missionari sono sempre più richiesti dalle giovani Chiese e oggi acquistano in più l’immagine nuova di “ponte fra i popoli, le religioni e le culture”, che nel mondo globalizzato è capace di suscitare interesse e adesioni. Insomma, il missionario potrebbe diventare una figura sempre più attuale, se solo noi missionari mantenessimo, in Italia (e più in genere in Occidente), la nostra identità, il nostro carisma, la nostra carica di entusiasmo evangelizzatore.
Invece l’immagine del missionario si è a poco a poco politicizzata e siamo finiti in una marmellata di buonismo che è diventato la cultura di base del popolo italiano. Sul campo, i missionari continuano il loro lavoro con spirito di sacrificio e fedeltà al carisma, in Italia l’immagine del missionario cambia e secondo me non rappresenta più la realtà. Nelle riviste missionarie di quarant’anni fa gli articoli sull’evangelizzazione dei popoli, le conversioni, i catecumeni, le novità delle giovani Chiese, l’annunzio di Cristo nelle diverse culture, la presentazione di figure di missionari erano alla base di ogni edizione.
Si parlava spesso di vocazione missionaria a vita e ad gentes, proponendola in modo concreto ai giovani. Oggi, ci sono riviste “missionarie” che di missionario hanno poco o nulla; “centri culturali” di istituti missionari che organizzano molte conferenze, ma sui temi della missione alle genti quasi niente e sui missionari in carne e ossa nulla; librerie di istituti missionari, che si suppone vendano libri missionari, che in vetrina mettono tutt’altro; animatori missionari che parlano di “mondialità” e poco o nulla di “missione”; comunità di missionari che hanno perso l’entusiasmo della missione alle genti e la buona abitudine di parlare della loro vocazione, spiazzati dall’indifferenza del mondo moderno. E potrei continuare.
È una deriva generalizzata della quale non incolpo nessuno, ma che ci ha fatto perdere la nostra identità.
Se la chiamata si perde nel caos
Sono convinto che non esista nella mentalità comune del popolo italiano una figura più incisiva e più universalmente accolta di quella del missionario e dell’ideale missionario. Ma noi, per timore di essere considerati “integralisti” e per malinteso senso del “dialogo”, non osiamo più parlare di conversioni a Cristo; mortifichiamo le esperienze missionarie sul campo; riduciamo la missione della Chiesa agli aiuti a lebbrosi e affamati; siamo “a servizio della Chiesa locale”, dimenticando però che questo servizio dovrebbe essere soprattutto volto ad animare missionariamente il gregge di Cristo; pensiamo di fare “animazione missionaria” facendo campagne nazionali contro chi produce e vende armi e su altri temi (battaglie positive, certo, ma non “animazione missionaria”).
In passato, durante le solenni “veglie missionarie” alla vigilia della Giornata missionaria mondiale, si ascoltavano le testimonianze dei missionari sul campo, oggi invece in alcune “veglie missionarie”, organizzate da missionari e da “gruppi missionari”, si contesta la produzione delle armi e sono invitati a parlare gli esperti di questo tema. Ma è possibile che un giovane o una ragazza sentano la voce dello Spirito che li chiama a donare la loro vita alla missione se sono impegnati in marce di protesta come queste?