L’Espresso 16 dicembre 2010
E allarmato il Papa. Ne ha scritto preoccupato il teologo Ravasi. La Chiesa ha un nuovo nemico: il politeismo. Un ritorno alle antiche divinità pagane? No. Chi lo propugna teme il fanatismo e auspica una religione pluralista. Ecco i protagonisti e i termini della disputa
di Sandro Magister
«Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi», ha proseguito. I capitali anonimi, la violenza terroristica, la droga, la tirannia dell’opinione pubblica sono le moderne divinità che schiavizzano l’uomo. Devono cadere. Devono essere fatte cadere. La caduta degli dèi è l’imperativo di ieri, di oggi, di sempre dei credenti nell’unico Dio vero. E anche Gianfranco Ravasi, cardinale, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, in pratica ministro della Cultura del Vaticano, e un uomo che come pochi sa captare umori e timori della Chiesa, ha parlato (sulle pagine del “Domenicale” del “Sole 24 Ore”) del risorgere dello spirito politeista.
O se vogliamo, della sfida lanciata al monoteismo, da chi, nel principio di un Dio unico vede la radice di ogni fanatismo e integralismo di questo inizio del Millennio; di chi pensa che il terrorismo, la guerra di civiltà e simili abbiano a che fare con l’idea di un Dio esclusivo geloso e quindi intollerante. E basti pensare a un episodio banale, accaduto qualche settimana fa ad Amos Oz, ad Asti.Lo scrittore israeliano parlava ai giovani e spiegava come occorresse resistere sempre alla tentazione del fanatismo.
Lui per fanatismo intedeva un atteggiamento, anche laico, di rifiuto di ogni compromesso: politico, ideologico, personale. Nel dialogo che seguì al discorso i ragazzi identificavano invece il fanatismo con integralismo religioso, conseguenza di monoteismo. Una storiella di cronaca che rispecchia lo spirito del tempo.
Il politeismo di oggi, infatti, non è solo fatto di potenze oscure: i suoi molti dèi hanno volto benevolo e capacità di seduzione. E la “gaia scienza” vaticinata da Nietzsche più di un secolo fa, che offre a ogni singolo uomo «il più grande vantaggio»: quello di «erigere il suo proprio ideale e derivare da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti».
È il trionfo del libero arbitrio, senza il giogo di una tavola della legge, una sola per tutti perché scritta da un unico intrattabile Dio. Quell’ammirazione per il “Genio del cristianesimo” che aveva infiammato Chateaubriand e i romantici cede oggi il passo (così il fenomeno viene percepito in Vaticano e in genere tra coloro che gli si oppongono) a una riscoperta entusiasta del “Genio del paganesimo” (Bollati Boringhieri), titolo di un libro dell’antropologo francese Mare Auge.
In Italia un altro antropologo, Francesco Remotti, si scaglia contro “L’ossessione identitaria” (Laterza), titolo del suo ultimo libro, e rimprovera il papa, in un suo altro testo in forma di lettera, per il suo ostinato procedere «contro natura», contro una modernità che fa invece pregustare le meraviglie del politeismo: liquido, pluralista, tollerante, liberatorio.
Certo, l’attuale reviviscenza del politeismo non riporta in voga i culti sacrificali a Giove e a Giunone, a Venere e a Marte. Ma la filosofia dei pagani colti dell’impero di Roma riaffiora nei ragionamenti di tanti moderni fautori del “pensiero debole”. E non solo di questi. Chi oggi rilegge, 16 secoli dopo, la disputa tra il monoteista Ambrogio, il santo patrono di Milano, e il politeista Simmaco, senatore della Roma pagana, è fortemente tentato di dare ragione al secondo, quando dice: «Che cosa importa per quale via ciascuno ricerchi, secondo il proprio giudizio, la verità? Non per una sola strada si può giungere a un così grande mistero».
La magnanima parità tra tutte le religioni e gli dèi che queste parole sembrano ispirare incanta anche molti cristiani. Lo “spirito di Assisi” nato dall’adunanza multireligiosa nel 1986 ha così contagiato il diffuso sentire che nel 2000 la Chiesa di Giovanni Paolo II e dell’alllora cardinale Ratzinger si sentì in dovere di ricordare ai cattolici che di salvatore dell’umanità ce n’è uno solo, ed è il Dio fatto uomo in Gesù: una verità su cui l’intero Nuovo Testamento sta o cade, una verità che in due millenni mai la Chiesa aveva sentito la necessità di ribadire con un pronunciamento ad hoc.
E infatti, quella dichiarazione del 2000, la “Dominus lesus”, fu accolta da un fuoco di fila di proteste, dentro la Chiesa e fuori, per la sua esclusione di una pluralità di vie di salvezza, tutte in sé sufficienti e piene di grazia e verità.
Che in questi sentimenti si annidi la nostalgia per una pluralità di dèi è possibile, ma l’odierno politeismo, a livello di massa, è più sfumato. C’è l’orrore per l’integralismo, ovviamente, ma l’idea è che le varie religioni siano a loro modo tutte espressive di un divino. E tuttavia questa divinità somma, come già spiegava ad Ambrogio il pagano Simmaco, è inconoscibile e lontana, troppo lontana per appassionare gli uomini e prendere cura di loro.
Da uno scrittore latino del III secolo, Minucio Felice, ci è giunto un altro dialogo, molto raffinato, nel quale il pagano Cecilie), passeggiando sul litorale di Ostia, dopo aver reso omaggio a una statua di Serapide, spiega che «nelle cose umane tutto è dubbio, incerto, indeciso» ma proprio per questo è bene seguire la religione degli antichi e adorare «quegli dèi che i nostri padri ci hanno insegnato a temere, piuttosto che a conoscere troppo da vicino».
In un’omelia in piazza San Pietro dello scorso 11 giugno, Benedetto XVI ha detto che «stranamente questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo». E in effetti un campione dell’età dei Lumi come il miscredente Voltaire ordinava ai suoi familiari di ossequiare il cristianesimo e i suoi precetti, per motivi di buona creanza civica. Dio c’è, forse. E forse è lui che ha creato il mondo. Ma poi se ne è talmente disinteressato da sparire dall’orizzonte vitale. La sua bontà è tutta nel non produrre disturbo alcuno.
E così, sotto il ciclo di questa divinità vaga e remota, la terra si è popolata di nuovi dèi. In divisa laica e pragmatica. Già nell’Ottocento, nei suoi “Saggi sulla religione”, l’economista e filosofo John Stuart Mill scrisse che il politeismo era di gran lunga più funzionale del monotesimo nel descrivere quella pluralità di etiche che caratterizzava la vita della società industriale.
E Max Weber, nel primo Novecento, coniò la formula di “Polytheismus der Werte”, politeismo dei valori, per indicare il Pantheon della moderna società. In un mondo disincantato, senza più un unico Dio che proclami comandamenti validi per tutti, ciascuna delle sfere sociali, dalla politica all’economia, dall’arte alla scienza alla stessa religione, è retta da un suo dio con i suoi oracoli. Oracoli spesso tra loro in conflitto, con l’uomo drammaticamente solo nell’ora della decisione.
Weber, con l’impeccabile distacco dello studioso, non disse se questo moderno politeismo fosse un bene o un male. Ma altri pensatori venuti dopo di lui non nascondono più a cosa vanno le loro simpatie. Nel secondo Novecento, alla “teologia politica del monoteismo” propugnata da Erik Peterson (un autore tra i più letti e ammirati da Joseph Ratzinger), il filosofo tedesco Odo Marquard contrappone una “teologia politica del politeismo”, e nel titolo del suo saggio loda tale politeismo con la qualifica di «illuminato».
A suo giudizio, l’uomo ha sempre bisogno di miti, e l’importante è che tali miti siano molti e aperti a infinite variazioni, come nella mitologia antica, all’opposto dell’ebraismo e del cristianesimo che poggiano su fatti storici unici e incontrovertibili. In Italia è Salvatore Natoli il filosofo che difende una “etica del finito”, un insieme cioè di riferimenti “politeistici”, multipli, che offrano all’uomo dei punti d’appoggio, mai definitivi ma capaci di salvarlo provvisoriamente dall’anarchia degli istinti. Sicuramente, però, l’opera che ha più instillato nella cultura italiana contemporanea una rivalutazione del politeismo è “Le nozze di Cadmo e Armonia” (Adelphi) di Roberto Calasso, del 1988, con la sua evocazione gloriosa della mitologia classica.
A dispetto del disincanto del mondo descritto da Weber, infatti, la società moderna non appare immune dall’opposta seduzione di un mondo nuovamente incantato. Alain de Benoist, pensatore della “nouvelle droite” francese, è il più acceso banditore di questo ritorno alla sacralità neopagana. Per la cultura da lui rappresentata il grande nemico è proprio il giudeocristianesimo con la sua idea “desacralizzante” di creazione. Se non c’è altro Dio all’infuori del Dio unico, le creature non hanno più nulla di divino e perfino gli astri, come dice la prima pagina della Genesi, sono semplici “luminari” appesi dal Creatore alla volta celeste per segnare il giorno e la notte. Il mondo è definitivamente consegnato alla sua profanità.
Osserva Leonardo Lugaresi, docente a Bologna e Parigi e specialista di cristianesimo antico: «Nel rimprovero oggi mosso al cristianesimo di essere responsabile della desacralizzazione torna la vecchia accusa di ateismo mossa ai cristiani dei primi secoli». E aggiunge: «Come allora, il cristianesimo sarebbe nocivo perché ha tolto alla terra il suo incanto, i suoi dèi, e ha privato l’uomo di un rapporto religioso con la natura. Di conseguenza, il nuovo paganesimo vuole restituire al mondo quella sacralità che il cristianesimo gli ha tolto».
E qui entra in gioco un grande egittologo, il tedesco Jan Assmann, che ha indagato a fondo sulla novità rivoluzionaria introdotta dall’unico Dio della religione di Mosè. Il Mulino, nel pubblicare quest’anno dieci saggi affidati ad altrettanti autori sui dieci comandamenti del decalogo, ha assegnato ad Assmann il commento del “Non avrai altro Dio”.
Assmann vede nel monoteismo fin dal suo nascere, un contrapporsi esclusivo e intollerante alle altre religioni. Tutti i monoteismi storicamente venuti alla luce, dall’ebraismo, al cristianesimo, all’islam, portano in sé, a suo giudizio, il veleno della violenza. E allora egli chiede ai monoteismi di superare i loro assoluti e «raggiungere il punto trascendentale grazie al quale diviene possibile la vera tolleranza», di elevarsi cioè alla forma superiore di «sapienza religiosa» o di «religione profonda» incarnata da sapienti come Albert Schweitzer, il Mahatma Gandhi e Rabindranath Tagore, insomma, «all’ideale settecentesco di tolleranza espresso nella parabola dei tre anelli del massone Lessing, nel racconto di “Nathan il saggio”».
E cos’è questa se non la religione senza norme né dogmi dell’Illuminismo, con il suo Dio remoto? E a che cosa può aprire lo spazio, questa religione vaga, se non a un nuovo politeismo dell’arbitrio? Il 13 settembre, nel ricevere il nuovo ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Walter Jiirgen Schmid, Benedetto XVI ha alzato gli occhi dal testo scritto e ha così proseguito: «Molti uomini mostrano oggi un’inclinazione verso concezioni religiose più permissive anche per se stessi».
Da qui ancor più si capisce perché oggi, per papa Benedetto, «la priorità suprema e fondamentale» sia di riaprire a una umanità disorientata l’accesso a Dio, e «non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto
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POLITEISTI IN LIBRERIA
Per saperne di più, un brillante manifesto del politeismo dì ieri e di oggi è il libro di Marc Auge, “Genio del paganesimo”, Bollati Boringhiertì, Torino, 2008, pp. 322, euro 19,00.Un altra guida indispensabile al tema è “II politeismo dei valori”, Morcelliana, Brescia, 2010, pp. 168, euro 14,00, che raccoglie i testi di Max Weber sull’argomento, introdotti e annotati da Francesco Ghia.
E ancora, un testo capitale sulla rottura operata dal monoteismo mosaico in rapporto alla religione dei faraoni, è quello dì Jan Assmann, “Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo”, il Mulino, Bologna, 2009, pp. 214, euro 15,00. Dello stesso autore, contro l’esclusivismo di una religione fondata su un Dio unico, è uscito quest’anno un commento al primo comandamento del decalogo: “Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza”, il Mulino, Bologna, 2010, pp. 152, euro 9,00.
Sul piano letterario, una pietra miliare del sentimento mitologico e politeista resta il volume di Roberto Calasse uscito in prima edizione nel 1988: “Le nozze di Cadmo e Armonia”, Adelphi, Milano, pp. 487, euro 14,00.
Infine, per una lettura critica del neopoliteismo contemporaneo sullo sfondo delle polemiche dei primi secoli cristiani, c’è il saggio di Leonardo Lugaresi, “Perché non possiamo più dirci pagani”, all’interno del volume a più voci “Verità e mistero. Nel pluralismo culturale della tarda antichità”, a cura di Angela M. Mazzanti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, pp. 360, euro 22,00.