Come spesso accade in Italia all’approssimarsi delle scadenze elettorali, ecco rispuntare la vecchia utopia secondo cui un semplice cambiamento di classe politica permetterà al paese di usare dalla crisi; assieme a un’altra utopia, quella del «nuovo partito repubblicano italiano» che vuole far cessare I’«anomalia italiana» per integrarci completamente (come colonia) nel mondo del capitale finanziario internazionale.
di Giorgio Vittadini
Non si capisce, però, quale programma dovrebbe portare a questo cambiamento, come dimostrano le ambiguità e i funambolismi sul caso Tav, sul ruolo e l’importanza delle piccole e medie imprese, sulle nuove Iri degli enti locali, sulla politica fiscale, su come uscire dagli scandali finanziari, sul terrorismo intemazionale. Soprattutto inquietano quegli esponenti pulitici di primo piano che, nella scia di un giustiziammo giacobino e farisaico, pretendono ancora una volta di costruire con la politica un uomo nuovo, libero dal peccato originale, culturalmente ed eticamente superiore in quanto schierato dalla «parte giusta».
Tali esponenti idealmente si collegano ai sostenitori di un’altra utopia, quella del «nuovo partito repubblicano italiano» che vuole far cessare I’«anomalia italiana» per integrarci completamente (come colonia) nel mondo del capitale finanziario internazionale.
Se è legittimo indignarsi di fronte a comportamenti truffaldini o a vecchie e nuove corruzioni istituzionali e private, se è doveroso cercare di lottare per eliminare vincoli, rendite, conflitti d’interesse e incrostazioni stataliste (anche di enti locali) che ostacolano pesantemente l’esistenza di una libera competizione tra capaci e meritevoli, si rischia, però, per l’ennesima volta di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Infatti, in questa ansia «rivoluzionaria». come giustamente ha detto l’onorevole Pierluigi Bersani nella sua recente intervista sul Corriere delia Sera, si demonizzano mondi sani e vitali come quello della cooperazione, protagonista positivo dell’economia ilaliana.
Addirittura si arriva a voler abbattete realtà fondamentali per lo sviluppo dell’economia del paese come le banche popolari e le fondazioni di origine bancaria, che continuano a fare utili e a distnbuire ricchezza, semplicemente perche sono «anomale». L’errore è di metodo: si corre il rischio di ridurre la competizione a «contendibilità» di banche e imprese, il profitto d’impresa a profitto trimestrale finanziario, l’uomo a risorsa umana, la formazione dei manager a «team building», l’economia di mercato a dominio della grande finanza internazionale e a una concezione di neo-liberismo monetario neoclassico (oggi di sinistra come una volta era di destra).
Queste realtà, che non sono «il mercato» ma una riduzione dell’idea di mercato, come giustamente ha scritto Mario Sarcinelli su Il Sole 24 Ore, non sono in grado di leggere e orientare l’economia verso lo sviluppo.
Perciò la visione dell’Economist e di molti «professori» italiani a la page, pur cogliendo nel segno in alcuni aspetti importanti, ne smarrisce altri fondamentali della nostra realtà, come hanno mostrato ultimamente le recenti analisi di Marco Fortis e l’ultima indagine del Censis, gli studi di Quadrio Curzio, di Campiglio, di Bonomi, di Sapelli, le descrizioni attente della realtà come quelle contenute nel libro Soft economy di Realacci o nelle indagini di Unioncamere e del Corriere Economia sui distretti e, non ultimi, molti degli interventi del direttore de Il Sole 24Ore Ferruccio De Bortoli.
Il sistema economico e sociale italiano ha la sua grande forza nell’essere generato e rigenerato continuamente da singoli «io» motivati idealmente e da aggregazioni sociali ed economiche che continuamente si formano.
Lo documentano ampiamente, ad esempio, il sistema della piccola e media impresa e dei distretti, in alcuni loro comparti di eccellenza ancora un modello di capacità per affrontare in modo nuovo le difficoltà, grandi realtà come Finmeccanica e l’Eni estremamente competitive a livello internazionale, una welfare society estremamente ricca e variegata nel rispondere ai nuovi bisogni sociali (si pensi a realtà vitali come la fondazione Banco Alimentare o Lega Ambiente), il ricchissimo mondo del volontariato, delle nuove scuole libere, delle opere sociali, della formazione professionale.
Il problema non è promuovere progetti economici e politici che stravolgano le caratteristiche socio-economiche del nostro paese o che garantiscano lo status quo. E’ necessario smettere di «mantenere» chi non vuole (o non è in grado) di cambiare perchè teme di perdere i propri privilegi. Pensiamo, ad esempio, alla piccola e media impresa quando si riduce a luogo di difesa del vecchio e di recriminazione; al sistema universitario quando rinuncia a coltivare le eccellenze; al sistema del welfare quando diventa preda dell’assistenzialismo, della burocrazia o, alternativamente, del darwinismo sociale; al sistema finanziario quando non segue con tutti i crileri rigorosi e seri in grado di favorire un reale sviluppo.
Nello stesso tempo non si deve smettere di valorizzare quell’Italia che sta già cambiando pelle, aiutandola a diventare un nuovo sistema più moderno ed umano. Come suggerisce il recente appello per l’educazione promosso da esponenti del mondo della cultura e della politica delle più diverse provenienze, ciò avviene innanzitutto dalla ripresa di un’educazione di ogni singolo «io» al desiderio di verità e di giustizia, dui perseguimento di ideali che aprano alla realtà, dall’attuazione del metodo della sussidiarietà che aiuti a crescere in modo armonico e non isolato chi dal basso ha già intrapreso la strada del cambiamento virtuoso. Tutto il resto è ideologia, tanto utopica quanto irrealistica.