Mattei è stato un grande italiano, servitore del paese e dei suoi connazionali. Partigiano cattolico e grande industriale che aveva davanti a sé sempre il bene comune
di Luigi Piras
Enrico Mattei non sopportava l’immagine dell’Italiano che canta. Non detestava il canto in sé, ovviamente, tantomeno il canto artistico, la dimensione della lirica, del teatro, sposò anche una ballerina se è per questo. Non sopportava un’altra cosa: lo stereotipo dell’italiano a cui veniva lasciato il ruolo del menestrello di corte, magari accompagnato dal suono del mandolino, mentre altri si accomodavano nella stanza del trono a parlare di cose serie.
Fuori di metafora, non sopportava il pregiudizio venato di disprezzo verso l’Italia e gli italiani da parte delle potenze europee e degli Stati Uniti. Lo aveva probabilmente percepito già nella parabola tragica del fascismo e di un Mussolini trattato sempre da parvenu sulla scena internazionale nonostante o millantati successi e accreditamenti. Lo aveva molto probabilmente toccato con mano tra il 1943 e il 1945, nel vedere sia come i tedeschi che gli Alleati considerassero il Paese dell’8 settembre.
Lo aveva certamente sentito sulla sua pelle subito dopo la guerra, quando all’Italia venivano imposte le dure condizioni che spettavano ad una nazione sconfitta e anche i “vincitori” interni, i protagonisti della Resistenza fra cui lo stesso Mattei, doveva piegare la testa di fronte ai nuovi padroni stranieri. E gli italiani, intrisi di complessi di inferiorità, sembravano accettare di buon grado, ancora una volta, il ruolo di simpatici servitori degli interessi altrui.
«Dovete avere fiducia nel vostro domani»
A questo riguardo Mattei fece un discorso memorabile il 4 dicembre 1961 – solo dieci mesi prima di essere ucciso – A San Donato Milanese, all’apertura dell’anno accademico della scuola di studi superiori degli idrocarburi, una delle sue tante creazioni. Un discorso di cui vale la pena riportare la parte centrale, perché rende lo spirito del personaggio e la sua visione meglio di ogni commento.
«Noi ci siamo trovati, sedici anni, fa in una situazione tragica. Sapevano che c’era qualcosa da fare, ma solo un piccolissimo numero di uomini erano preparati per coadiuvarci. Non avevamo le esperienze tecniche nella ricerca degli idrocarburi e gli altri ne approfittavano. Quando noi ci siamo messi al lavoro siamo stati derisi, perché dicevano che noi italiani non avevamo la capacità né le qualità per conseguire il successo».
«Eravamo quasi disposti a crederlo perché, da ragazzi, ci avevano insegnato queste cose. Io proprio vorrei che gli uomini responsabili della cultura e dell’insegnamento ricordassero che noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno la capacità della grande organizzazione industriale».
«Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani, dovete formarvelo da soli questo vostro domani,. Ma per fare questo è necessario studiare, imparare conoscere i problemi. E noi ci mettemmo con tanto impegno, e abbiamo creato scuole aziendali per ingegneri, per specialisti, per operai, per tutti e dappertutto. Con questo sforzo continuo ci siamo formati i nostri quadri».
«Oggi abbiamo, solo nel gruppo ENI, circa 1300 ingegneri, 3000 tra periti industriali e geometri, 300 geologi, 2000 dottori in chimica, in economia, in legge, migliaia e migliaia di specialisti. Conosciamo i problemi, li sappiamo discutere e riusciamo a vedere che niente va bene, niente di tutto quello che ci hanno insegnato sulle nostre inferiorità. Erano tanto accettate queste false conoscenze che avevano diffuso sugli italiani: sul dolce far niente, su questa razza pigra, che ancora oggi ce le sentiamo ripetere come verità».
«Voglio raccontarvi un episodio . Ritornavo tre anni fa dalla Cina . Rimasi bloccato ima settimana in Siberia per il cattivo tempo. Ero con quattro collaboratori ed eravamo andati in quel lontano Paese per rapporti di affari. Era la vigilia di Natale, finimmo per passarlo in Siberia perché non fu possibile ritornare. L’aeroporto era pieno di gente: arrivavano aerei da tutte le parti e scaricavano passeggeri che non potevano ripartire: coreani, indocinesi, mongoli, sovietici, europei».
«Mi ricordo che i cecoslovacchi erano dodici ed erano tecnici che tornavano dalla Cina: ci domandarono se volevamo passare in Natale insieme e noi rispondemmo che lo avremmo gradito. Ci trovammo così intorno ad un lungo tavolo, pieno di fiori, la vigilia di natale, nella Siberia orientale, noi cinque italiani, i dodici cecoslovacchi, cinque polacchi, cinque ungheresi, quattro della Germania orientale, tre sovietici e un cinese. Si mangiò caviale e si bevvero vodka e champagne».
«Alle undici di sera i cecoslovacchi si mossero dai loro posti, si riunirono in gruppo, e nella notte di Natale in Siberia incominciarono a cantare le canzoni cristiane della vigilia. Dopo i cecoslovacchi cantarono o polacchi; anche loro cantarono benissimo, erano bravissimi; erano tutti tecnici sulla via del ritorno a casa per passare il Natale. Poi gli ungheresi cantarono le czarde. Infine cantarono i tedeschi orientali. Nessuno di noi conosceva gli altri, gli altri non conoscevano noi, ma sapendo che eravamo italiani vollero che ci mettessimo a cantare. Eravamo cinque italiani ma nessuno di noi sapeva cantare».
«Al primo momento si offesero e dissero “Voi non siete italiani”. Tirammo fuori i nostri passaporti. “E allora voi dovete cantare!”. “Noi siamo degli italiani che non sanno cantare”. Amici miei, mi riallaccio a quello che dicevo prima: per gli altri non solo non conoscevamo o problemi , ma meritavamo le umiliazioni. Io vi dico questo, per far risaltare l’importanza che ha per voi lo studio di questi problemi, il conoscerli a fondo, e per aggiungere che i vostri Paesi hanno bisogno di voi, perché la cosa più importante per un Paese, è cioè l’indipendenza politica, non ha valore, non ha peso, se non c’è l’indipendenza economica».
«Avere l’indipendenza economica significa avere il controllo delle proprie risorse, significa per voi che vi addestrate per lavorare in uno dei maggiori settori dell’industria mondiale, avere la possibilità di scambiare direttamente le proprie fonti di energie,. Con esse si controllano i più importanti settori lanciati verso il domani, i settori nei i quali tutti voi potete dire una vostra parola, potete diventare qualcuno».
Patriota per il bene comune
Mattei fu un patriota. Sentiva in modo bruciante che l’Italia aveva una storia, una identità, una dignità da difendere. Sentiva che aveva un compito da svolgere. E sapeva che per farlo aveva bisogno di forza industriale, economica, garanzia di indipendenza. Oggi nel mondo politico ed ecclesiale si ciancia spesso di «bene comune»: per Mattei questo era un assillo, aveva gettato tutto se stesso in una sfida mortale affinché l’Italia uscisse dalla povertà e si riappropriasse del proprio destino.
Nel 1950 ebbe a Montecarlo un incontro con un rappresentante delle famigerate Sette Sorelle. Costui non solo respinse ogni proposta di collaborazione, ma fece capire che il cartello del petrolio avrebbe fatto terra bruciata attorno all’Eni. «Allora – raccontò sempre Mattei – io tirai fuori dalla tasca in la matita, avevo altri argomenti da discutere, lo guardai, li cancellai e gli dissi: “Ho l’impressione che non abbiamo più niente da dirci, però lei il colloquio di oggi se lo ricorderà per tutta la vita”».
Mattei fu ucciso di lì a poco, però sessant’anni dopo il suo, esempio arde sotto le ceneri. E quel colloquio di Montecarlo in molti non l’hanno dimenticato.