Il libro di Gianni Di Santo, “A tavola con Dio”, è già stato pubblicato otto anni fa, ma con il boom dell’Expo 2015, l’Editrice Ave ha voluto approntarne una nuova edizione, impreziosita da una Prefazione di Erri De Luca e perfino recensita da “L’Osservatore Romano”. Il viaggio tra cibo e spiritualità non vuole essere una pura silloge aneddotica, semmai auspica di sollevare la consapevolezza che solo quando l’alimentazione è anche spirituale essa nutre davvero l’uomo
di Giuseppe Brienza
Dopo il grande successo di EXPO2015, il cui tema è stato “Nutrire il Pianeta”, non potevano mancare proposte di lettura alla riscoperta della convivialità, della “spiritualità della tavola” e, in ultima analisi, del senso vero della parola “cibo”. Fra queste rientra anche la nuova edizione del libro di Gianni Di Santo “A tavola con Dio”, che l’editrice cattolica “Ave” ripropone a distanza di otto anni dalla sua prima edizione (Prefazione di Erri De Luca, nuova ed., Roma 2015, pp. 152, €10,00).
Ne ha dato notizia persino il giornale “ufficioso” della Santa Sede che, nel numero di domenica, ne ha riproposto un estratto, in cui si parla della “storia del pane” (cfr. Gianni Di Santo, Tra fede e cibo, in “L’Osservatore Romano”, 31 gennaio 2016, p. 5). Era logica questa scelta, basti pensare ai tanti episodi evangelici nei quali questo essenziale elemento di vita entra significativamente nella scena, soprattutto nel cammino pasquale di Sacrificio, Morte e Resurrezione.
Partendo dall’Ultima Cena, durante la quale Cristo compì il sublime miracolo dell’Eucaristia servendosi delle umili specie del pane e del vino, per finire con la vicenda dei discepoli di Emmaus, che proprio a tavola riconobbero il Signore che spezzava loro il pane. Come dimenticare poi che Gesù, insegnandoci a pregare, ci ha detto innanzitutto di chiedere al Padre il dono quotidiano di tale nutrimento così necessario?
In un giornale come il nostro, che è quasi “tematicamente” nato per la difesa e la promozione del matrimonio e della famiglia, vogliamo citare poi il banchetto nuziale di Cana, che l’evangelista Giovanni narra all’inizio del suo Vangelo (cfr. Gv 2,1-11). Si tratta di un episodio che ritorna spesso nei discorsi, nelle Omelie e nel Magistero di Papa Francesco.
In una delle scorse Udienze generali del mercoledì, per esempio, il Santo Padre ha sottolineato come, alle nozze di Cana, Gesù non solo partecipò al matrimonio, «ma “salvò la festa” con il miracolo del vino! Dunque, il primo dei suoi segni prodigiosi, con cui Egli rivela la sua gloria, lo compì nel contesto di un matrimonio, e fu un gesto di grande simpatia per quella nascente famiglia, sollecitato dalla premura materna di Maria. Questo ci fa ricordare il libro della Genesi, quando Dio finisce l’opera della creazione e fa il suo capolavoro; il capolavoro è l’uomo e la donna. E qui Gesù incomincia proprio i suoi miracoli con questo capolavoro, in un matrimonio, in una festa di nozze: un uomo e una donna. Così Gesù ci insegna che il capolavoro della società è la famiglia: l’uomo e la donna che si amano! Questo è il capolavoro! Dai tempi delle nozze di Cana, tante cose sono cambiate, ma quel “segno” di Cristo contiene un messaggio sempre valido» (Papa Francesco, “L’uomo e la donna che si amano! Questo è il capolavoro!”, in agenzia “Zenit”, 29 aprile 2015).
Nelle pagine con cui Gianni Di Santo ripercorre il suo itinerario alla “tavola con Dio”, è descritta per il resto una pratica della convivialità che, da parte soprattutto delle prime comunità, ha sempre portato i cristiani a testimoniare il messaggio per cui, stare insieme a mensa e cucinare bene, significa dire al prossimo “ti voglio bene”. In questo l’Autore si avvale degli scritti di uomini contemporanei che, sotto diversi aspetti, hanno forse capito meglio di altri il valore “spirituale” della preparazione e della consumazione del cibo.
Si va da Enzo Bianchi a Giancarlo Bruni, da Rubem Alves a Carlo Petrini, per finire con Paolo Rumiz e Pedrag Matvejevic. Di Santo descrive con loro un itinerario attraverso capitoli e paragrafi che non mancano di originalità, come ad esempio “Un viaggio culinario e spirituale insieme”, “Vini, olii, formaggi”, “Marmellate, liquori officinali, cioccolato”, “Vigneti e uliveti curati alla vecchia maniera” e, infine, “Dietro il mondo silenzioso di monaci, abati, suore”.
Il libro è anche un viaggio antropologico all’interno della storia, a cominciare da quel pane che, l’abbiamo anticipato, «ha permesso di distinguere nell’antichità i barbari dai civilizzati. I primi mangiavano poltiglia preparata grossolanamente a partire dai cereali selvatici, i secondi coltivavano il grano e sapevano fabbricare il pane. Il pane è nato in Africa, probabilmente dalla terra dell’attuale Etiopia. I primi pani vennero fabbricati in prossimità del Mediterraneo e compirono progressivamente il periplo delle due rive. L’Antico Testamento ci permette di scoprire la presenza della farina e del pane nell’alimentazione dei popoli del Vicino Oriente».
Il “pane del Mediterraneo”, secondo uno degli Autori di riferimento di Di Santo, l’intellettuale bosniaco Pedrag Matvejevic, è la chiave di volta per capire persino il passato e futuro dell’umanità, ed anche il ruolo delle religioni. I primi pani, infatti, precedono la scrittura: «pani con lievito e senza lievito trovano posto in tutte le religioni monoteiste perché simbolizzano la purezza. Nella religione cattolica incarnano lo stesso Cristo, per gli ebrei è il nutrimento, perché ricorda la manna miracolosamente caduta dal cielo che aiutò il popolo di Israele nella traversata del deserto».
Il pane è stato, nel medioevo, il simbolo dell’alimentazione umana, come già il Cristianesimo aveva testimoniato tanto nella preghiera del Pater Noster quanto nel Sacramento della comunione. «Il cristianesimo diede al pane un alto significato», afferma al proposito Matvejevic, «elevandolo agli onori dell’altare nel rito eucaristico. I più antichi santi protettori dell’arte dei panettieri furono sant’Antonio da Padova e il martire san Giobbe. Nella sua Regula, san Benedetto inserì norme molto severe inerenti alla preparazione e al consumo del pane nella vita conventuale. Camaldolesi e francescani rispettavano in sagrestia e nel refettorio il nobile prodotto della terra e delle mani dell’uomo, che Cristo identificò con il proprio corpo nell’Ultima cena».
Nel capitolo XXXIX della Regula benedettina, leggiamo come il santo di Norcia istruiva i suoi monaci rispetto all’uso degli alimenti: «Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato – a seconda delle stagioni – dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell’altra; dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza; quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c’è un solo pasto, che quando c’è pranzo e cena; in quest’ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena; nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l’abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi all’ingordigia; perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore: “State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo”».
L’EXPO di Milano è stato l’occasione per parlare della nutrizione del pianeta, ma come parlarne senza ricorrere a questi preziosissimi testi della Tradizione monastica, oppure a quell’appello profetico contro la “cultura dello scarto” che, tante volte, ci ha rivolto Papa Francesco? Nella pagina evangelica della moltiplicazione dei pani e dei pesci, mentre tutti gli evangelisti riportano il fatto delle ceste di viveri avanzate alla fine della vicenda, solo uno, San Giovanni, sottolinea poche parole di Gesù ma di grande interesse: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (Gv 6,12). Raccogliere gli avanzi è soprattutto rispettare l’alimento, la produzione, il cibo e, quindi, rispettare il lavoro dell’uomo e la creazione di Dio.
Anche comprare e mangiare più cibo del necessario c’entra con il problema dello spreco, perché si traduce nel rispetto che si deve a qualunque tratto della creazione, di cui nulla è inutile, nulla è senza senso. Un medico come Carlo Valerio Bellieni, membro della “Pontificia Accademia Pro Vita”, ha recentemente colto di nuovo questo significato religioso del cibo che, scrive, «non solo non va sprecato, ma va rispettato. La tradizione popolare faceva sì che venisse benedetto, che si vietasse di giocarci, che quando avanzava non venisse buttato ma riciclato come concime, come mangime, come base per tanti piatti di cucina povera. Eppure oggi il cibo viene vilipeso, viene scartato, viene usato in trasmissioni televisive come materiale di spreco, viene insomma desacralizzato. […] Risacralizzare il cibo significa risacralizzare la vita, soprattutto quella di chi è ai margini» (Carlo Bellieni, Risacralizzare il cibo significa risacralizzare la vita, in agenzia “Zenit”, 18 aprile 2015).
Anche per questo è necessario, a tavola, ritornare a cercare la compagnia dell’altro e, soprattutto, di quell’Altro che, agli Apostoli, ha lasciato detto: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele» (Luca, 22, 28-30).