La Roccia, n.6 novembre-dicembre 2015
L’Africa sta perdendo il suo bene più prezioso: il capitale umano. Fra chi se ne va non ci sono solo coloro che fuggono dalla guerra (i rifugiati che chiedono asilo politico), ma anche chi fugge dalla povertà, privando purtroppo il proprio Paese di un contributo prezioso. L’appello dei vescovi africani ai giovani perché facciano il possibile per rimanere.
di Anna Bono
Tra gli emigranti che approdano in Europa provenienti dall’Africa è andata crescendo la percentuale di giovani, in gran parte maschi: per disporre dei 4-5.000 euro necessari – come minimo -a pagare il viaggio c’è chi ha messo da parte un euro dopo l’altro, impiegandoci anni, c’è chi si è fatto prestare i soldi dai familiari e c’è chi parte con una somma di denaro sufficiente soltanto per coprire una tappa del percorso e impiega mesi, persino anni, per arrivare a destinazione perché alla conclusione di ogni tappa si ferma e lavora finché non ha risparmiato quel che serve per effettuare la tappa successiva.
Molte famiglie piangono i parenti mai giunti a destinazione, scomparsi nel deserto e nel mare. Le altre tessono lodi dei figli all’estero che mandano denaro a casa. Le rimesse si spendono quasi tutte in beni di consumo: per soddisfare bisogni di base e molto di più. Le famiglie più fortunate mostrano con orgoglio a vicini e parenti televisori, smartphones, biciclette e motorini acquistati grazie al denaro che arriva dall’Europa. Molte riescono così a lasciare le capanne e le baracche in cui vivevano per più confortevoli e salubri case in muratura.
Un aspetto negativo
Gli aiuti dall’estero, le rimesse così come i contributi offerti dalla cooperazione allo sviluppo, sono benvenuti e reclamati. L’aspetto negativo è che in questo modo le economie locali continuano a dipendere in misura rilevante da risorse prodotte altrove: indipendenza e sviluppo restano un traguardo lontano. Nel frattempo l’Africa perde una parte importante della propria risorsa più preziosa: il capitale umano. È una prospettiva poco considerata nell’analisi del fenomeno migratorio, per lo più concentrata sui problemi che esso pone nei paesi verso cui il flusso si dirige.
La partenza di centinaia di migliaia di giovani sta producendo seri danni economici, sociali e culturali nei paesi d’origine: a maggior ragione se quei giovani scelgono, convinti di trovarvi la soluzione a ogni loro problema, paesi in difficoltà come per esempio l’Italia, dove difficilmente troveranno lavoro e opportunità di integrazione economica e sociale. Alcuni governi africani si stanno rendendo conto del danno. “Il mio Eldorado è il Mali. Stop all’emigrazione irregolare”, si legge sui grandi manifesti comparsi nel 2014 nelle strade della capitale del Mali, Bamako, e in altri grandi centri urbani. È lo slogan con cui il governo di quel paese ha lanciato una campagna contro l’emigrazione che sottrae al Mali braccia utili.
«Le rimesse degli emigranti svolgono un ruolo importante nell’economia del nostro paese, ma non sono una soluzione – spiegava il ministro per i Maliani all’estero, Abderahamane Sylla, il 27 febbraio 2014, durante la cerimonia di inaugurazione della campagna – la cultura dell’emigrazione deve finire. I Maliani devono fare di più per lo sviluppo del loro paese». Il governo del Mali ha stanziato quasi 19 milioni di euro in progetti volti in parte a mettere in guardia la popolazione dai rischi che comporta emigrare affidandosi ai trafficanti di esseri umani e in parte a creare concrete alternative all’emigrazione istituendo corsi professionali e di apprendistato per i giovani e promuovendo opportunità di lavoro nelle regioni di maggiore emigrazione.
«Stiamo perdendo la forza lavoro necessaria a costruire il nostro paese» dichiarava a sua volta il ministro per gli emigranti del Senegal, Souleymane Jules Diop, all’indomani del naufragio in cui nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2015 sono morti centinaia di emigranti. Ma l’Africa sta perdendo ben più che la propria forza lavoro. Permettendo che una generazione di giovani lasci il continente, compromette i già difficili processi di riconciliazione e pace da cui dipende il futuro di tanti Stati.
L’appello dei vescovi a restare
Le Chiese africane, tra le prime a preoccuparsi del vuoto lasciato dai giovani emigranti, radunano le forze per contrastare l’esodo. «Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America. Non cercate soluzioni ai vostri problemi lontano dai vostri paesi, ma invece lottate per costruire una società migliore in Africa». È questo l’appello rivolto ai giovani da monsignor Nicolas Djomo, vescovo di Tshumbe e presidente della Conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo, nel discorso pronunciato durante la cerimonia di apertura dell’Incontro della gioventù cattolica panafricana svoltosi nella capitale del Congo, Kinshasa, dal 21 al 25 agosto 2015.
«Guardatevi dagli inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali – ha proseguito Monsignor Djomo – Utilizzate i vostri talenti e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione di giustizia, pace e riconciliazione durature in Africa. Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il nostro continente ha bisogno di voi». L’incontro era stato organizzato dal Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Sceam). Vi hanno preso parte 120 delegati provenienti da undici Stati africani.
Leggendo un messaggio del segretario generale del Sceam, il direttore delle comunicazioni del Sceam, don Joseph Komakoma, ha spiegato che tra gli obiettivi dell’incontro vi erano il coinvolgimento dei giovani nelle celebrazioni dell’Anno africano della riconciliazione, iniziato il 29 luglio 2015, la creazione di un’organizzazione panafricana dei movimenti di Azione cattolica dei giovani e dei bambini e forse anche l’istituzione di una Giornata mondiale della gioventù africana.
Ribadendo le parole di monsignor Djomo, padre Komakoma ha ammonito: «/ giovani sono la parte più importante della popolazione sulla quale la Chiesa conta in modo prioritario per l’evangelizzazione e la promozione della pace, della giustizia, della riconciliazione e dello sviluppo del continente».