Massimo Introvigne
Benché ampiamente annunciata a causa del sistema elettorale statunitense, la netta vittoria del presidente uscente Barak Obama merita qualche commento, tanto più che questa vittoria è stata accompagnata dal successo dei referendum che proponevano la legalizzazione del matrimonio omosessuale negli Stati di Washington (sulla costa del Pacifico, da non confondersi con il Distretto di Columbia dove ha sede la capitale nazionale Washington), nel Maine e nel Maryland, mentre nel Minnesota – dove il matrimonio fra persone dello stesso sesso rimane illegale –, sia pure con un piccolo margine, gli elettori hanno rigettato un emendamento che avrebbe inserito nella stessa Costituzione dello Stato la nozione secondo cui l’unico matrimonio riconosciuto è quello eterosessuale.
Lo Stato di Washington, il Colorado e il Massachusetts – ma quest’ultimo solo per “motivi medici” – hanno legalizzato l’uso della marijuana, mentre l’Alabama e il Montana hanno visto prevalere il “no” in referendum simili che avrebbero reso la droga legale.
A parziale consolazione, la Florida ha votato “no” alla proposta di usare fondi pubblici per sostenere l’aborto. Infine, solo con un margine molto ristretto – 51% – e solo grazie alle zone rurali – nelle città, Boston compresa, ha vinto il “sì” – il Massachusetts ha respinto un referendum che avrebbe introdotto l’eutanasia “all’olandese”, cioè il “suicidio assistito” garantito al “malato terminale” che ne faccia richiesta. Il risultato dei referendum sul matrimonio omosessuale è a suo modo clamoroso, se si considera che in passato c’erano stati analoghi referendum in trentuno Stati, sempre regolarmente persi dai sostenitori delle nozze gay.
Ora, i sondaggi – che, certo, possono sbagliare – ci dicono che la maggioranza degli americani è contraria al matrimonio omosessuale. Ci dicono anche – è la famosa tesi della right nation – che la maggioranza degli americani si sente più vicina alle idee dei repubblicani che a quelle dei democratici.
E qui, per la verità, c’è qualcosa di più dei sondaggi. Si è votato anche per la Camera dei Rappresentanti – oltre che, parzialmente, per il Senato – e qui i repubblicani si sono assicurati una solida maggioranza, 231 seggi contro 190 dei democratici. Tuttavia, gli stessi elettori che hanno mandato alla Camera una maggioranza repubblicana hanno riconfermato il democratico Obama come presidente.
Sono risultati schizofrenici? I sondaggi sono sbagliati? La risposta è no. Il dato fondamentale, come sempre nelle elezioni moderne, riguarda i votanti. Le elezioni del 2008 avevano fatto registrare la più alta partecipazione dal 1968, in parte perché un elettorato afro-americano che di solito non vota voleva sostenere Obama e in parte perché un elettorato conservatore che, anch’esso, vota poco, aveva paura di alcuni programmi di Obama.
Andando a votare alle presidenziali, gli elettori del 2008 votarono anche per i referendum, sconfiggendo così tra l’altro le proposte sul matrimonio omosessuale in diversi Stati. Per sapere quanti elettori hanno votato alle elezioni del 6 novembre 2012 occorre attendere settimane a causa dei sistemi di calcolo americani, ma una proiezione dell’Associated Press segnala un calo da 131 milioni di votanti del 2008 a meno di 120 milioni del 2012. Si tratterebbe del 53% degli aventi diritto.
Questo dato si coniuga perfettamente con le teorie sulla right nation. La maggioranza degli americani è più vicina alle idee dei repubblicani, ed è anche contro il matrimonio omosessuale e l’eutanasia. Solo che in questa maggioranza conservatrice coloro che non si recano a votare sono quasi sempre di più rispetto agli astenuti tra gli esponenti della minoranza liberal.
Dunque per tradurre la maggioranza che la right nation ha nel “Paese reale” in maggioranza effettiva nel “Paese legale” delle elezioni e dei referendum occorre motivare i conservatori perché vadano a votare. E questo benché la right nation sia, in effetti, così maggioritaria da riuscire a far vincere i repubblicani – nonostante l’astensione – alla Camera dei Rappresentanti, dove i conti si fanno e si spezzettano collegio per collegio.
Come si motiva l’elettore tentato dall’astensione? Il presidente Bill Clinton coniò il famoso slogan “È l’economia, stupido”, ritenendo che i suoi successi derivassero dal fatto che le sue campagne parlavano di economia, che è quanto interessa davvero agli elettori, mentre i repubblicani parlavano maggiormente di valori, ruolo dell’America nel mondo e politica estera.
La tesi di Clinton, però, è vera con riferimento alla minoranza che si reca a votare. Nel 2006 Clinton fu eletto in una tornata elettorale cui partecipò solo il 49% degli aventi diritto, meno di metà, la più bassa percentuale nella storia degli Stati Uniti dopo quella del 1924. Se invece si tratta di motivare chi di solito si astiene l’economia non è sufficiente. Vi sono ormai innumerevoli controprove: per quanto la crisi economica li colpisca, gli elettori della right nation sono convinti che, chiunque vinca, la crisi continuerà più o meno nello stesso modo.
Viceversa, vanno a votare se qualcuno riesce a entusiasmarli su temi diversi dall’economia. Se togliamo l’anomalia del 2008 – con le peculiari caratteristiche del caso Obama – le elezioni americane con più votanti dal 1968 a oggi sono state quelle del 2004, trasformate dall’allora presidente uscente George W. Bush, che le vinse, in un vero e proprio referendum sui valori e sugli ideali.
Sembra difficile sfuggire alla conclusione: nonostante le campagne dei media che, come denuncia Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, hanno ormai raggiunto una capacità di manipolazione inaudita sui temi ostili alla vita e alla famiglia – e del cui incessante martellamento si deve certamente tenere conto –, gli elettori conservatori negli Stati Uniti sono ancora in maggioranza.
Solo che molti di loro non vanno a votare. Si mobilitano solo quando trovano qualcuno che li entusiasma, e l’entusiasmo funziona solo su temi che non si possono ridurre alla sola economia. Le ricette economiche di Romney erano molto ragionevoli. La sua analisi della crisi economica era persuasiva.
Ma Romney, forse mal consigliato da esponenti di una certa fazione repubblicana o forse intimidito da inaudite aggressioni mediatiche a ogni minimo accenno, ha corso con il freno a mano tirato su temi come il matrimonio gay o l’aborto. Il numero degli astenuti sta lì a dimostrare che la campagna di Romney, pure intelligente e onorevole, non è bastata a mobilitare la right nation.
Con l’effetto secondario che, non andando alle urne, l’elettore conservatore che non ha votato per le presidenziali non ha votato neanche per i referendum sulla droga, il matrimonio omosessuale o la stessa eutanasia, dove in Massachusetts i difensori della vita l’hanno scampata per un pelo.
Si parva licet componere magnis (in tempi in cui si studia meno il latino, “se è lecito paragonare le cose piccole alle grandi”: Virgilio, Georgiche, IV, 176), le elezioni siciliane ci dicono qualche cosa di simile. Incontro amici stranieri molto stupiti che la cattolica Sicilia, un tempo considerata come granaio elettorale della destra, abbia eletto presidente un candidato di sinistra e dichiaratamente omosessuale.
Ma anche qui ha votato solo il 47,42% degli aventi diritto. Il nuovo presidente, Rosario Crocetta, è stato votato dal 30,47% dei votanti ma solo dal 13,93% degli aventi diritto. In altre parole, più dell’86% degli elettori siciliani non ha votato per Crocetta… che però è stato eletto.
E anche in questo caso il candidato di centro-destra, Nello Musumeci, ha presentato ricette realistiche e apprezzabili per molti problemi della Sicilia ma ha scelto – direi consapevolmente – di correre anche lui con il freno a mano tirato su quelli che Benedetto XVI chiama valori non negoziabili.
Per dire il meno: se si considera che fra i candidati della lista di Musumeci c’era Sandro Mangano, già presidente dell’Arcigay di Catania e oggi presidente di un’altra associazione di attivisti gay, GayLib. Forse Musumeci dava per scontato che gli elettori cattolici e sensibili ai valori non negoziabili si mobilitassero comunque contro Crocetta, nonostante tutto e perfino nonostante Mangano. In effetti, probabilmente questi elettori non hanno votato Crocetta. Ma non hanno neanche votato Musumeci: sono stati a casa loro.
Naturalmente sarebbe grossolano ed eccessivo attribuire le sconfitte di Romney e – ancora, si parva licet – di Musumeci alla sola riluttanza a introdurre nelle loro campagne elettorali in modo più vigoroso gli elementi ideali e dottrinali e i valori non negoziabili. Ma certamente il loro insuccesso deriva dal fatto di non essere riusciti a portare alle urne molti elettori della maggioranza conservatrice, non inesistente e non inventata, che non è andata a votare per i loro avversari è rimasta a casa. Il fenomeno ormai è mondiale.
I candidati conservatori possono vincere solo motivando il loro stanco e disilluso elettorato e sottraendolo all’astensione. Non è assolutamente sicuro che riescano a motivarlo insistendo sui principi e sui valori. Ma è molto probabile che, se continueranno ad avere paura di avere coraggio e a non parlare, parlare poco o lanciare messaggi contraddittori sui principi e sui valori, sulla vita e sulla famiglia, non riusciranno a entusiasmare chi è spinto dal disgusto per la politica a rifugiarsi nell’astensione. E sarà ancora una volta l’astensione a sconfiggerli.
La prossima volta, ciascuno farà bene a ripetere a se stesso: “Non è (solo) l’economia, stupido”.