Se Annibale riuscì ad attraversare le Alpi con gli elefanti, anche noi riusciremo a passare l’anno indenni
di Riccardo Cascioli
L’epiteto di negazionista si usa ormai con sempre maggiore frequenza per far tacere le voci di chi contesta la versione ufficiale sui cambiamenti climatici decisa da Onu e governi europei. Il negazionismo rimanda infatti direttamente a coloro che negano la Shoah. Per analogia, quindi, chi mette in discussione la responsabilità umana nei cambiamenti del clima deve essere trattato alla stregua di un volgare razzista antisemita.
È la dimostrazione che il circo messo in piedi sul global warming ha molto più a che fare con la politica che non con la scienza, anche perché di certezze scientifiche in materia di clima ve ne sono davvero poche, e quelle poche vengono oltretutto ignorate, se non addirittura rovesciate, dal pensiero dominante in materia. A cominciare dalla realtà più semplice.
Il cambiamento climatico, infatti, è la normalità, ma il bombardamento mediatico ha indotto nell’immaginario collettivo l’idea che la natura sia normalmente in un equilibrio armonico, disturbato soltanto dall’attività dell’uomo.
In realtà lo studio del ghiaccio estratto in Groenlandia e soprattutto nella base di Vostok (Antartide) ha mostrato che negli ultimi 400 mila anni il clima è sempre mutato con una certa ciclicità, con periodi glaciali di circa 90-100 mila anni e brevi periodi di “caldo” di circa 10 mila anni.
Al momento viviamo proprio in una fase interglaciale iniziata circa 11.500 anni fa, che ha coinciso con il grande sviluppo della civiltà umana. Peraltro l’attuale periodo, denominato Olocene (dal greco “holos”, recente), appare più lungo dei precedenti periodi caldi, il che fa capire perché diversi scienziati siano propensi a credere che nel futuro sarà più probabile un rapido raffreddamento piuttosto che un pianeta con una febbre incontrollabile.
Ma anche all’interno dei periodi interglaciali il cambiamento del clima è tutt’altro che lineare. Senza andare troppo indietro, tra il IV secolo a.C. e il IV d.C., all’epoca dell’Impero romano, in Europa si registrò un notevole riscaldamento, con temperature più alte delle attuali, tanto che nel 218 a.C. Annibale poté approfittarne per attraversare le Alpi con gli elefanti.
In quei secoli il clima mediterraneo arrivava fino alle coste del Baltico e del Mare del Nord, ma dal V secolo si ebbe un nuovo raffreddamento che terminò nell’800, quando ebbero inizio i 400 anni conosciuti come Optimum medievale, un altro periodo con temperature più calde delle attuali.
Come ha riferito nei giorni scorsi a un convegno in Trentino Attilio Scienza, professore di Viticoltura all’Università di Milano, «nel 1200 il clima era così mite che qui in Trentino a 1.300 metri crescevano viti e ulivi, mentre le cronache dell’epoca raccontano che persino la Scozia era autosufficiente per la produzione di tutto il vino da Messa».
Ancora un brusco cambiamento climatico porterà alla Piccola Era Glaciale, tra il 1300 e la fine del Settecento: tra il 1708 e il 1709 si registrò l’inverno più freddo degli ultimi cinque secoli, in cui ghiacciarono addirittura il Lago di Garda e la laguna di Venezia.
Salviamo l’anidride carbonica
Attualmente siamo in una nuova fase di riscaldamento, che negli ultimi 120 anni ha fatto registrare un aumento della temperatura media globale di 0,7 gradi centigradi, ma anche questa non in modo lineare. Il maggiore aumento si è avuto tra il 1910 e il 1940 (ancora nel 1912 il Titanic affondò dopo aver urtato un iceberg all’altezza di New York!), mentre tra il 1940 e il 1975 le temperature sono diminuite al punto che negli anni Settanta gli allarmi riguardavano una prossima era glaciale e c’era chi proponeva di incrementare artificialmente le emissioni di gas serra per ridurne gli effetti.
Proprio l’analisi di quest’ultimo periodo dimostra la scarsa attendibilità della tesi della responsabilità umana nel riscaldamento globale. Infatti il boom della popolazione mondiale e dell’industria (che gli ambientalisti considerano la prima causa del riscaldamento) si è avuto nella seconda metà del XX secolo, quando la popolazione mondiale passò dai 2,5 miliardi di persone del 1950 ai 6 del 2000 (periodo per metà caratterizzato da un raffreddamento), mentre il periodo del massimo riscaldamento (1910-1940) è coinciso con una popolazione tra gli 1,6 e i 2 miliardi di persone e con la crisi industriale legata alla Grande Depressione.
E le emissioni di anidride carbonica? Intanto dovremmo creare un comitato per la difesa della Co2, così ingiustamente demonizzata, visto che è uno degli elementi fondamentali per la vita sulla Terra. Ricordiamo anche che l’esplosione di forme di vita sul nostro pianeta 550 milioni di anni fa coincise con livelli di Co2 18 volte più alti di quelli attuali, e nel Giurassico, al tempo dei dinosauri, i livelli erano 9 volte più alti.
Il ruolo della Co2 nell’incremento delle temperature è ancora molto discusso fra gli scienziati, anche perché sul lungo periodo non esiste una correlazione tra la sua concentrazione e la temperatura. Peraltro il gas serra più importante è il vapore acqueo, che rappresenta circa il 95 per cento del totale, mentre la Co2 è il 3,6.
Se poi analizziamo il contributo umano alle emissioni di Co2, questo è quantificabile intorno al 4 per cento. E c’è ancora un altro aspetto che dovrebbe essere considerato quando si mette sotto accusa l’uomo per i cambiamenti climatici globali: i continenti rappresentano appena il 30 per cento del pianeta (il resto è acqua), e delle terre emerse gli insediamenti umani occupano l’1 per cento.
Anche per un profano della scienza risulta molto più realistico pensare che il clima abbia più a che fare con cause naturali (attività solare, inclinazione dell’asse terrestre e così via) che con l’attività dell’uomo.
Allora come mai gli scienziati sono tutti d’accordo con la tesi di un riscaldamento globale causato dall’uomo? In realtà il “consenso degli scienziati” è una clamorosa bufala.
La prova più evidente viene da una ricerca pubblicata poche settimane fa negli Stati Uniti: il professor Klaus-Martin Schulte ha preso in esame le 528 ricerche sui cambiamenti climatici pubblicate tra il 2004 e il febbraio 2007 sulle riviste scientifiche più autorevoli. Ebbene, solo il 7 per cento di questi studi sostiene esplicitamente la tesi della causa umana, che diventano il 45 per cento se si considerano quelli che l’accettano senza dare esplicito sostegno.
La parte più consistente degli studi (48 per cento) invece ignora completamente la questione. Chi sono dunque i veri “negazionisti”?
(A.C. Valdera)