Un giudice può tenere conto delle motivazioni di un gesto solo se e nei limiti ammessi dalla legge, essendo, come è noto a tutti, anch’egli soggetto alla legge. L’assoluzione nei casi di eutanasia mai può essere giustificata da motivi affettivi o umanitari
di Ennio Fortuna
L’eutanasia, nel caso in questione, non può certamente svolgere alcuna funzione, è del tutto estranea all’episodio. L’atto eutanasico è quello compiuto da un congiunto o da un amico per evitare inutili intollerabili sofferenze a un malato gravissimo, senza speranze, che invochi attualmente, espressamente e validamente la morte. La povera signora Elena era certamente malata, sembra in corna irreversibile, ma mai aveva chiesto dì essere aiutata a morire, né mai il marito ha, in verità, invocato tale circostanza. Tra l’altro, in ospedale la donna non era certamente in condizioni di esprimere validamente una qualsiasi attuale volontà, talché l’eventuale invocazione della morte non avrebbe avuto alcun valore legale.
Non a caso si procedeva per omicidio volontario aggravato, e non per omicidio del consenziente (nel nostro sistema l’eutanasia, giustamente, non esiste, ed è proibita, e si applica appunto, se c’è la richiesta o il consenso valido della vittima, il titolo dell’omicidio del consenziente).
Neppure può parlarsi di eutanasia passiva o di accanimento terapeutico. La prima situazione si verifica quando, in caso di malattia in fase terminale, il medico decide di imitare la. sua opera all’assistenza morale e alla terapia antidolore, fornendo al malato soltanto il trattamento appropriato per tutelare, nei limiti del possibile, la qualità della vita, sospendendo invece la terapia ordinaria o straordinaria (quella mirante alla guarigione o al miglioramento delle condizioni di salute).
L’accanimento terapeutico consiste invece nell’eventuale ostinazione del medico nella somministrazione di trattamenti da cui ormai non ci si possa più attendere, ragionevolmente, un beneficio per la salute o per la qualità della vita del malato. Sia l’eutanasia passiva sia l’accanimento terapeutico sono quindi concetti esclusivamente riferibili alle prestazioni, effettuate o mancate, del medico curante, tanto più se in ambiente ospedaliero.
Al contrario, nel caso di specie, è stato esclusivamente l’ingegner Forzatti, sia pure per motivi umanitari che meritano certamente assoluta comprensione e pietà, a ergersi autonomamente a giudice supremo della vita e della morte della moglie. Ne ha giudicato intollerabile la continuazione e ha, ricorrendo alla minaccia armata, fatto staccare il respiratore decidendo, senza essere il medico e anzi contro il parere del medico curante, che ogni trattamento doveva cessare. La sentenza non contrasta queste conclusioni (sarebbe tecnicamente assai difficile), ma pone sul piatto della decisione la supposta incertezza della persistenza della vita della vittima al momento del fatto.
In pratica, secondo la Corte (sei giudici popolari, due soli togati, composizione che potrebbe aver avuto qualche peso nella prevalenza eventualmente accordata a fattori puramente emozionali, o comunque non esclusivamente razionali), la donna, al momento del distacco del respiratore, poteva però essere già morta, nel senso di avvenuta cessazione dell’attività cerebrale (dalla legge del 1993, anche in Italia, la morte si identifica con la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo).
Senonché, contrariamente a quanto sembra ritenere la Corte (la motivazione non è ancora depositata, ma la semplice logica conduce a questa conclusione), la morte cerebraIe, in costanza di battito cardiaco o di respiro, non si presume mai, ma eventualmente si accerta con procedure precise che richiedono controlli complessi, ripetuti più volte e di durata ben superiore (almeno sei ore) al tempo impiegato dal Forzatti per l’esecuzione dell’omicidio.
In sostanza, non si presume mai la morte, semmai si presume la vita. Tra l’altro, l’ultimo controllo sull’attività cerebrale della donna era stato compiuto appena un’ora prima e aveva dato esito positivo, nel senso della persistenza della vita. Dal che si desume che, al momento del fatto, una corretta diagnosi di morte cerebrale era tecnicamente impossibile anche a livello di mera presunzione o di indizio (tutti gli indicatori erano contrari). Insomma, comunque la si guardi, la pronuncia non sembra conforme alla legge.
L’imputato ha certamente agito per affetto, ma il giudice può tenere conto delle motivazioni di un gesto solo se e nei limiti ammessi dalla legge, essendo, come è noto a tutti, anch’egli soggetto alla legge. E l’assoluzione mai poteva essere giustificata da motivi affettivi o umanitari tanto è vero che la Corte ha preferito ricorrere a uno stratagemma dialettico, anch’esso però inaccettabile. (riproduzione riservata)