di Giovanni Formicola
(dirigente di Alleanza Cattolica)
Il libro di don don Beniamino Di Martino Note sulla proprietà privata ai miei occhi ha almeno – e sottolineo «almeno»: non vorrei essere riduttivo – due meriti. Il primo, è che nel trattare la questione della proprietà e della libertà economica – in un’unica formula, dell’economia di mercato – non cade nell’economicismo, ma dà un fondamento antropologico alla sua argomentazione. In altri termini, egli ritiene l’istituto della proprietà privata e la sua conseguenza dinamica, il libero mercato, fondati sulla stessa natura umana, su un ordine di cose che ha al proprio centro l’uomo come persona.
Sicché questi funzionano perché sono a misura d’uomo, non sono a misura d’uomo perché funzionano. E la differenza non è sottile: se fosse vera la seconda frase, allora se si riuscisse a far funzionare l’economia di piano, si potrebbe dire che anche questa è a misura d’uomo. Ed invece è impossibile che essa funzioni, perché non è a misura d’uomo.
Naturalmente, nell’individuare il fondamento antropologico di ogni questione sociale, don Beniamino è un fedele seguace della dottrina sociale della Chiesa – né potrebbe essere altrimenti –, nei termini praticamente testuali in cui è stata confermata dall’ultima enciclica sociale, la Caritas in veritate di B. XVI: «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75, in corsivo nel testo).
Là dove è di tutta evidenza che la «questione sociale» non è esaurita da quella socio-economica, ma è anche e principalmente questione di libertà religiosa, da non ridurre alla libertà di culto, ma da intendere integralmente come libertà e quindi ruolo per la religione nello spazio e nel discorso pubblici; è questione di libertà per la famiglia, quella naturale e perciò unica possibile, fondata sul matrimonio indissolubile tra un maschio e una femmina, e quindi libertà di educazione; è questione di libertà di nascere e di non essere uccisi, e quindi di diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, ma non può essere questione di libertà di uccidere o di farsi uccidere, perché la libertà è strettamente correlata alla verità e quindi alla responsabilità, attesa la dimensione personale di ogni individuo, quali che ne siano le condizioni; è dunque questione di ordine e diritto naturale, nel quale sono compresi gl’istituti della proprietà privata e della libertà d’impresa, cioè del libero mercato.
Insomma, l’opposizione, diretta o larvata, alla proprietà privata, caricata anche di tratti messianici e utopistici (che ignorano il peccato originale e la sua eredità), per cui secondo il comunismo la sua abolizione avrebbe portato al paradiso in terra, deriva da un grave errore antropologico, e cioè dalla considerazione dell’uomo solo come cellula del corpo sociale, e non come centro di esso, e cioè come persona dal valore unico e irripetibile.
Abbiamo parlato di libertà – che, mi piace precisarlo, non è un fine, ma una condizione per raggiungere il fine e i fini di ciascun uomo; ma è una condizione così propriamente umana, che la sua negazione illegittima integra una realtà disumana, basti pensare alle condizioni di vita in quel GULag a regime ordinario che era la società sotto il comunismo (dove i campi di concentramento erano i GULag a regime duro).
Ecco, dunque il secondo aspetto che in particolare mi convince dell’opera di don Beniamino: la proprietà come fondamento e presidio perché la libertà dell’uomo e dei corpi sociali, primo la famiglia, sia effettiva, soprattutto rispetto al potere prepotente dello Stato moderno. Naturalmente, e ancora, una libertà veramente umana, e perciò mai separata dalla verità, e da quel suo particolare aspetto che è la verità dell’azione, cioè l’etica, e quindi, lo ripeto, dalla responsabilità.
Libertà non è mai fare quel che se ne ha voglia, ma quel che si deve conformemente alla propria condizione concreta e alle obbligazioni verso Dio, verso di sé e verso gli altri che essa comporta, ma appunto liberamente, senza coazione (e non vanno sottovalutati i doveri verso se stessi, che comprendono anche quelli di emanciparsi per quanto possibile dal bisogno e dalla sofferenza del vivere).
In questa accezione, e considerata sub specie economica, la libertà comprende anche la libertà di donare, che arricchisce l’economia e la proprietà della dimensione del dono, cui non si è costretti – la contraddizione sarebbe in termini –, ma che scaturisce da una sovrabbondanza d’amore, secondo ancora una volta quanto ribadito dalla Caritas in veritate. E giustamente don Beniamino a questo punto, distingue tra «capitalismo» e libero mercato, là dove il primo non esclude i monopoli e i grandi concentramenti di ricchezza/potere, ed anzi talvolta li produce, soprattutto nell’ordine dell’economia finanziaria, mentre il secondo tende ridurli nei limiti fisiologici, ponendosi come fattore sorgivo della piccola e diffusa proprietà.
In un certo senso, la sua opera è un commento – ed in questo è ancora eco fedelissima del magistero sociale – al celeberrimo passo della Centesimus annus del servo di Dio, il grande papa Giovanni Paolo II, che così affronta la domanda sul valore del modello «capitalista»: «Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa» (n. 42). Insomma, né la proprietà privata è un assoluto, né la libertà economica può essere sfrenata, come è proprio di tutto ciò che appartiene ad un essere relativo – cioè costitutivamente in relazione (con Dio, con sé stesso, con gli altri, con il creato) – qual è l’uomo, ma la loro negazione rendono disumano l’habitat sociale.
Concludo dicendo che forse non mi sbaglio avvertendo nell’opera di don Beniamino Di Martino. l’eco dei postulati della Scuola economica (ma anche filosofico-antropologico-sociale) austriaca – forse sarebbe meglio dire «asburgica», almeno nelle sue origini – e cioè dei Menger, dei Böhm Bawerk (che già alla fine dell’800 letteralmente demolì il Capitale di Marx e la teoria del plusvalore con ragionamento rigorosamente scientifico), dei von Mises e del grande von Hayek. Scuola erede di quella di Salamanca dell’epoca del siglo de oro del regno asburgico di Spagna di Carlo I (V come imperatore) e dei Filippo, e oggi divulgata in Italia da autori come Lottieri, Zanotto, Cubeddu, mentre negli USA essa anima una componente significativa della right nation, tramite gli allievi di Rothbard, tra i quali Th. Woods jr. mi sembra uno degli esponenti più attendibili, soprattutto per la sua opera La Chiesa e il mercato. E di questa Scuola, in conclusione, vorrei enunciare alcuni dei principi di cui troverete, se non sempre l’evocazione esplicita, certamente l’eco nell’opera di don Beniamino
La teoria soggettiva del valore, per la quale le cose valgono per l’apprezzamento soggettivo da parte dell’uomo, e non per un qualche valolore-lavoro in essi oggettivato; la reale correlazione tra costi e prezzi: sono i primi a doversi adeguare ai secondi, e perciò una delle principali virtù dell’imprenditore è capire a quale prezzo potrà vendere i suoi prodotti e servizi e quindi ad essi adeguare i costi d’impresa; la natura dinamica del mercato, per cui il valore dei beni, il «giusto prezzo», lo conosce prima solo Dio (Juan de Lugo [1583-16660]), ed ogni pianificazione in tal senso è fallimentare; il valore della concorrenza dinamica e regolata, che migliora i prodotti e i servizi e riduce i prezzi; il carattere distorcente dell’inflazione (in particolare dell’attività bancaria che crea moneta – e causa inflazione – prestando danaro in eccedenza alla sua riserva di cassa) sull’economia reale; l’impossibilità della pianificazione e della distribuzione del reddito mediante mandati coattivi, cioè attraverso l’intervento autoritario dello Stato, che genera solo mercato nero e illegalità diffusa, e viola il diritto naturale di libertà economica.
Sul diritto di proprietà (in risposta alle domande di un amico)
[testo redatto nel 2005 n.d.r.]
In linea di principio, il diritto di proprietà è un diritto naturale, cioè non concesso da nessuno, ma fondato sull’ordine stesso delle cose create, che va perciò riconosciuto in quanto umano, appartenente all’uomo in quanto tale, in forza della stessa natura umana. Ad esso è correlato il diritto d’intrapresa economica, che consente di trarre profitto dall’investimento di capitali – che possono consistere anche in una conoscenza (il famoso know how) – senza apparentemente «lavorare» (pensa a chi riscuote il prezzo di un affitto o le c.d. royalties su un marchio, sull’uso d’un opera dell’ingegno, a chi gode di una rendita fondiaria, etc.).
Ma nessun diritto dell’uomo è, in senso proprio, assoluto. Assoluto è solo Dio, e quindi i suoi diritti. Per capirci: il diritto di Dio, per esempio, ad essere adorato e rispettato dalla creatura ragionevole non è in nessun modo limitato, non è derogabile, non è prescrittibile, non è condizionato. Ogni diritto umano, invece, persino quello alla vita, tollera di essere, in misura minore o maggiore, «relativizzato».
Per esempio, il diritto alla vita non consente moralmente, a chi venisse minacciato di morte se non bestemmi, se non abiuri la vera rligione o comunque la religione in cui sinceramente crede, di fare queste cose per conservarla. Oppure, non gli impedisce di sacrificarla per una giusta causa non diversamente perseguibile e non temerariamente perseguita. Così, infine, il diritto alla vita dell’ingiusto aggressore o del soldato in guerra è limitato da quello di chi si difende dall’ingiusta aggressione o per il fatto di essere coinvolto nella guerra.
Allo stesso modo il diritto di proprietà – e tutti quelli che ne derivano – è limitato dal principio dell’universale destinazione dei beni materiali: il creato è per tutti gli uomini, non solo per alcuni. Ma la dimensione limitata, individuale e corporea dell’uomo (non s’incontra un’indistinta umanità che nell’insieme possa fruire dei beni materiali, ma solo singoli individui, ben delimitati nello spazio e nel tempo, che hanno necessità di soddisfare qui e ora le proprie esigenze – per cui non si può pensare che «altrove» nel tempo e/o nello spazio sia la loro «porzione» d’universo –, che sono vitali, e che essi sanno non possono essere soddisfatte una volta per tutte, ma si rinnovano, ed in qualche caso aumentano costantemente), tale dimensione, tale natura indica che il modo migliore per attuare l’universale destinazione dei beni è l’appro-priazione individuale.
E poiché quasi sempre i beni che servono all’uomo (dall’abitazione all’abito, dagli alimenti agli strumenti di difesa, quanto meno da un mondo ostile – si pensi ai virus, al clima, agli altri animali) non si trovano in natura, egli deve pensare anche ai mezzi per produrli, per soddisfare in modo permanente le proprie esigenze. E poiché, ancora, l’uomo ha coscienza della propria discendenza, ed affetto per essa, è capace anche di pensare a dotarla di tali mezzi e di tali beni in modo permanente, costituendo un patrimonio familiare, risultato del proprio sforzo e del proprio risparmio, che è giusto trasmettere per via ereditaria al frutto del proprio seme, che è una sorta di continuazione di sé.
Ecco il fondamento naturale
– del diritto di proprietà non solo dei beni di consumo, ma anche di quelli destinati a produrli, o comunque di beni stabili come la casa (il «capitale» è lavoro consolidato che continua a «lavorare»);
– del diritto d’intrapresa per accrescere il proprio patrimonio, degli uni e degli altri beni, sia per soddisfare in via permanente le esigenze primarie, sia per soddisfare altre e superiori esigenze, anch’esse umane, che vanno oltre quelle di sopravvivenza, tra le quali sono annoverabili il desiderio di una vita più confortevole, il desiderio di accrescere le proprie conoscenze, il desiderio d’emanciparsi dal lavoro per dedicarsi all’otium, cioè alla coltivazione di sé, che è la cultura, o a quell’attività sovranamente «inutile» che è il culto, etc.;
– del diritto alla trasmissione ereditaria, e quindi all’eredità, che non è mai qualificabile come ricezione parassitaria, se non chiamando tutti gli uomini parassiti, perché non v’è uomo che non sia erede, e perché essa importa la responsabilità in capo all’erede – debitore del proprio de cuius – di conservare e se del caso accrescere per trasmettere a sua volta, sia in termini materiali, che morali e spirituali, quel che ha ricevuto, per saldare quel debito per interposto e proprio erede.
Detto faticosamente questo, va osservato che l’esperienza ha sufficientemente dimostrato, confermando la teoria, che perché i beni siano il più possibile fruiti da tutti (in tutte le loro dimensioni, persino quelle estetiche, si pensi ad un bel palazzo che rende più gradevole l’ambiente urbano), la via migliore – che non vuol dire la via perfetta – è quella del riconoscimento pieno – che non vuol dire illimitato – del diritto di proprietà e della libera iniziativa economica. Naturalmente SEMPRE l’esercizio di tali diritti ha comportato abusi ed ingiustizie, talvolta anche gravissimi.
Ma questi dipendono più dal cuore dell’uomo che dall’istituto in quanto tale, prova ne sia il fatto che ogni qualvolta si è provato a limitare gravemente se non ad abolire la proprietà privata e la libertà d’impresa, nonché meglio distribuire i beni del mondo e rendere migliore la vita, si è creata solo povertà, e persino bruttezza (basti pensare all’edilizia pubblica) e non solo nei luoghi del socialismo reale, cioè del sistema che si è proposto sintetizzando il proprio programma nella formula «abolizione della proprietà privata» (cfr. Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, II).
Il che non significa ovviamente che il liberismo – inteso, se vogliamo, nel senso di ideologia che considera come «fine» la proprietà e la libertà dell’impresa, anche se questo non è mai stato in verità teorizzato da nessuno – sia invece la ricetta perfetta, come si diceva prima.
Anzitutto, perché la proprietà (rectius: la tutela e la libertà della) non è «fine» della vita sociale, che ha invece come scopo il bene comune, cioè la tutela e la promozione delle condizioni perché ogni uomo ed ogni legittimo gruppo sociale possano esistere e perseguire il proprio perfezionamento naturale e spirituale, quindi anche soprannaturale. Del bene comune sono perciò parte (e non lo esauriscono) il diritto di proprietà e quelli ad esso correlati.
E poi perché ogni libertà assoluta – se per liberismo s’intende questo – è di per sé contraddittoria, perché l’espansione illimitata di una libertà non può che coincidere – in una realtà limitata qual è quella umana – con la compressione d’un’altra libertà.
Ma il liberismo sta al bene comune/proprietà, come la ferita sta alla vita corporale: la guasta ma non la sopprime; il socialismo, invece, è in un rapporto analogo a quello della morte, che la sopprime. Per cui il regime di proprietà vigente nel liberismo, è riformabile, mentre non si può riformare ciò ch’è stato cancellato. E la negazione di un diritto naturale, essendo «contro natura», realizza nonché il bene comune, il male comune, cioè contraddice lo scopo della società civile, altera la convivenza umana fino a farne condizione non di umanizzazione – perfezionamento possibile dell’umano secondo la propria natura e vocazione –, ma di deperimento di esso fino all’imbestiamento, all’inselvatichimento.
Si deve poi considerare che la proprietà ed il diritto d’intraprendere sono presidio materiale di libertà ed indipendenza, tanto che Trotszky disse (soddisfatto) che dove l’unico proprietario dei mezzi di produzione è lo Stato, al vecchio detto «chi non lavora non mangia», si sostituisce il nuovo «chi non obbedisce non mangia».
È non è chi non veda l’ulteriore male sociale che questa condizione comporta. Inoltre, senza una sia pur minima base patrimoniale (che può essere costituita anche dal possesso di un «mestiere»: métier vaut baronnie), non può esserci famiglia nel senso forte, cioè che duri al di là della singola generazione, come autentico coesivo sociale e nazionale: si può dire che il patrimonio sta alla famiglia, come il territorio alla nazione e alla patria.
Ma abbiamo detto che l’esercizio del diritto di proprietà causa ingiustizie anche molto gravi e radicate. È uno (uno) degli aspetti della questione sociale (che comunque non è esaurita dalla sua dimensione socio-economica. Essa in realtà s’identifica con ogni difficoltà nei rapporti di convivenza fra gli uomini: è «questione sociale», per esempio, anche la crisi della famiglia, o della moralità pubblica, o dell’educazione, o dell’autorità, o della religione e così via), che ha le sue radici autentiche nel peccato originale, cioè nella fatica per l’uomo di essere giusto e virtuoso: è uno dei modi di manifestarsi del male nel mondo, ed è in radice ineliminabile, ma solo arginabile.
Ebbene, il liberismo – che vuole «liberare» l’esercizio del diritto di proprietà e d’intrapresa dai vincoli che la morale e l’ordinamento corporativo e municipale gl’ imponevano, affidandosi integralmente alla «mano magica» del mercato –, ed il socialismo – che, nella sua versione comunista, pensa di eliminare il male eliminandone la causa/proprietà e la causa/profitto, ed in quella «democratica» si propone di risolvere la questione restringendo, mediante il dirigismo statale, la libertà d’esercizio del diritto di proprietà e d’impresa fin quasi a soffocarla, affidandosi entrambi alla «mano magica» dello Stato e dei pubblici poteri – sono due risposte sbagliate alla «questione sociale» che concerne il diritto di proprietà e d’iniziativa economica.
Ma mentre la prima risposta (o il primo errore) sta dalla parte, per così dire, della vita, nel senso che lascia in vita un diritto naturale, ancorché «troppo» in vita (si può dire che pecchi per «eccesso di vita»), l’altra sta dalla parte della morte, nel senso che uccide – o riduce in stato comatoso – il diritto (naturale) di proprietà e d’iniziati-va economica.
Lo Stato interventista (risposta socialdemocratica, new deal rooseveltiano, solidarismo «cattolico democratico») pretende di sanare le ingiustizie sociali lasciando teoricamente in vita il diritto di proprietà, ma attribuendosi la funzione di principale, se non unico, distributore della ricchezza che ne deriva, quando non direttamente d’imprenditore.
La politica interventista, che ha una matrice egualitaria, si propone una finalità perequativa, sottraendo ai «ricchi» (proprietari in senso lato), mediante una fiscalità ferocemente progressiva, per distribuire ai «poveri» in termini di servizi (assistenza sanitaria, trasporti, istruzione gratuiti o semi gratuiti), beni (edilizia popolare gratuita o semi gratuita), danaro (pensioni, assegni di mantenimento per disoccupati, assunzioni eccessive – e clientelari –nella P.A. o nelle aziende di Stato etc.).
Così, da un lato, si scoraggia l’iniziativa privata (conviene correre il rischio d’impresa per poi poter godere solo di una minima parte, in taluni casi si giunge al venti, massimo trenta per cento, di quanto prodotto, o conviene farsi assistere?), e si «svuota» il diritto di proprietà (il primato dello Stato – che si ritiene non «egoista» come il privato e che pensa, mediante la pianificazione, di organizzare meglio, e quindi «razionalizzare», quello che, se affidato alle scelte imprevedibili ed «irrazionali» dei singoli o dei gruppi particolari, sarebbe abbandonato al caso ed al caos oltreché all’ingiustizia), pretende di aver l’ultima parola molto spesso anche sull’uso della proprietà e sui diritti che essa comporta (ius aedificandi, ius locandi), nonché si riserva la maggior quota dell’eredità, reputando che questa, per il beneficiario, sia una forma d’arricchimento parassitaria.
Dall’altro, si costruisce per svolgere questa funzione un apparato burocratico mastodontico e – questo sì – alla lunga parassitario. Esso è soprattutto onerosissimo, esige sempre più danaro per mantenersi e da distribuire, danaro che viene «spremuto» attraverso la leva fiscale.
Questa esercita una pressione tale, che finisce per incrinare il patto di solidarietà tra la società e lo Stato, che somiglia sempre più allo sceriffo di Sherwood, ed induce la prima, per l’esagerazione della pretesa, a rifugiarsi nell’illegalità, che da amministrativa e fiscale facilmente trascorre in criminale, per il principio d’inerzia: una volta violata la legge, si è più propensi a continuare a violarla anche in relazione a precetti più gravi ed in vista d’interessi maggiori.
Tra i principali effetti dell’elefantiasi dell’apparato burocratico vi è il suo autoalimentarsi: più è grande, più ha bisogno di drenare risorse da chi le produce; e più cresce la pretesa, più cresce la riottosità sociale a soddisfarla; questa fa crescere viepiù la necessità di un controllo pervasivo, e quindi, a tale scopo, cresce ulteriormente l’esigenza di funzionari, agenti ed impiegati di Stato, cioè di un apparato di controllo e repressione, che fa aumentare a dismisura la necessità di risorse per pagarli (mentre gli stessi vengono sottratti alla produzione di beni reali), e così via.
Questa spirale, che ha effetti di demoralizzazione sociale e – sul piano economico – inflazionistici (pochi beni reali, molto circolante, che quindi perde valore), non soffoca immediatamente l’economia come nel socialismo reale solo perché il controllo non è totalitario. Parte della società riesce – purtroppo, come si è detto, rifugiandosi nell’illegalità (e talvolta per pura esigenza di sopravvivenza) e costituendo la cosiddetta «economia sommersa» – a sottrarsi all’eccesso di pressione fiscale, e perciò contribuisce a produrre beni reali che consentono appunto all’economia di reggere.
È così la mancata applicazione integrale del sistema dello Stato sociale (oltreché l’enfiagione abnorme del debito pubblico, cioè il riversare i suoi costi spropositati sulle future generazioni), che gli consente qualche apparente successo. Ma i nodi delle pensioni d’anzianità (tanto per fare un esempio), pagate con la «persecuzione fiscale» nei confronti di chi produce, prima o poi vengono al pettine. E poi lo sviluppo viene certamente tarpato.
Lo Stato interventista, dunque, funziona o grazie al debito pubblico o grazie alle sue disfunzioni, che però generano ingiustizia ed illegalità. Si dirà, però, che nei paesi scandinavi…
Nei paesi scandinavi la società è morta e demoralizzata. La popolazione è ridotta rispetto alla vastità del territorio, che è ricco di materie prime, che consentono allo Stato capitalista/interventista di avere una fonte primaria di ricchezza: ma comunque anche da lì, chi può se ne va, e chi non può, spesso s’ubriaca, si droga e s’ammazza.
Rimane il problema di come realizzare il principio – vero – per il quale la proprietà non è un fine, ma un mezzo, e non può essere impiegata contro il bene comune (fermo restando che non esiste, se non nei sogni dell’«utopia scientifica», cioè dell’ideologia, «la» soluzione).
Enuncio due modelli, uno di carattere giuridico, l’altro di carattere morale.
Il primo fonda la solidarietà – destinazione universale dei beni – sulla sussidiarietà – diritto dei privati anche ad arricchirsi –: PRIMA la produzione, POI la distribuzione; PRIMA il giardino e le piante, POI il giardiniere.
Cioè: tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario, il che significa che non si punta all’uguaglianza sociale, ma all’autosufficienza, salvo un intervento dall’alto di solidarietà con chi non ce la fa. Intervento che però vede nello Stato (pubblici poteri) l’ULTIMA istanza, preceduta dalla famiglia, dai corpi intermedi, da ogni altro organismo che la società sappia esprimere nell’esercizio della propria soggettività.
Questo significa, ancora, che lo Stato deve fidarsi della società che organizza, e non pensare che un burocrate sappia amministrare la ricchezza meglio di chi la produce (tra l’altro l’amministrazione dell’altrui ricchezza è una fonte inesauribile di tentazione: la quantità enorme di danaro a disposizione della P.A. è stata una delle vere cause di Tangentopoli): basti pensare alla diversa condizione finanziaria delle Casse di previdenza private (ordini professionali, p. es.), rispetto a quelle pubbliche (INPS).
Quindi, piuttosto che sottrarre danaro ai privati con il fisco pretendendo di saperli spendere meglio, perché li spende non «egoisticamente» ma collettivisticamente, lo Stato farebbe meglio a lasciargliene quanto più è possibile, perché possano provvedere da sé a se stessi.
Dunque, non sostituzione da parte dello Stato della società, ma attenzione alle esigenze della giustizia, che non ostacola, anzi favorisce, la formazione di corpi intermedi (dalla famiglia alle associazioni di categoria, alle federazioni tra queste, fino ai municipi quanto più autonomi e «piccoli» possibile), che hanno una naturale vocazione alla solidarietà, ed una naturale capacità di scorgere la necessità dov’è veramente tale, e non la è solo formalmente, cioè burocraticamente (conformità – magari mediante la simulazione e la frode – ad un modello astratto ed ai requisiti che esso prevede).
Ma tutto questo – ed enuncio il secondo modello – non avrebbe alcuna speranza di successo senza un’autentica e profonda riforma culturale, che distolga gli uomini dall’adorazione del vitello d’oro (del cui culto è certamente corresponsabile l’anticultura pseudo solidaristica del marxismo, per il suo ateismo, materialismo e paneconomicismo), e li induca ad affermare il primato della carità.
Solo coniugando giustizia e carità potremo affermare nella pratica sociale i principi di sussidiarietà e solidarietà, limitando le conseguenze nefaste del peccato originale – cioè della cattiva inclinazione del cuore dell’uomo – sull’esercizio del naturale, e dunque in sé benefico, diritto di proprietà e di libera iniziativa economica.
Non è certamente impresa facile, né breve; ma se non sono lunghe e difficili, le imprese non ci piacciono.
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Beniamino Di Martino Note sulla proprietà privata- Longobardi – 2009 – pp. 146