International Family News 1 febbraio 2020
Oggi la Chiesa Cattolica celebra la Giornata della vita. Noi la storia incredibilmente credibile di Carmen
di Cristina Tamburini
Vederla sorridere è come un raggio di luce che entra, nell’inverno nebbioso della Pianura Padana, dentro la stanzetta che il Liceo Linguistico William Shakespeare di Crema, dove lei lavora, ci ha messo a disposizione.
Abbiamo dovuto sfruttare un’ora “buca” per incastrare il tempo necessario a un dialogo intensissimo, di quelli che non scordi più. Carmen è una donna piena di vita, forse proprio perché «vivere significa necessariamente essere figli, accolti e curati, anche se talvolta in modo inadeguato», come afferma il messaggio della CEI per la 42esima edizione della Giornata Nazionale per la vita.
Moglie, mamma (di una donna sposata e di due adolescenti), professoressa di liceo, mamma affidataria (di due bimbetti color caramello). Quello che ti manca è il tempo per annoiarti…
La mia vita non è facile, certo, le giornate sono tutte piene. Ma quello che salva, che permette di non affogare nelle “cose da fare” è la carica che trovo proprio in tutto quel che faccio, dalla vita familiare al lavoro: è tutto compimento di quello che ho iniziato, di quel che è iniziato in me fin da bambina.
La vita è stata intensa fin da subito: anche da piccola hai avuto poco da annoiarti. Quali ricordi ti sono più vivi?
Fin da bambina ho desiderato quella che definirei una famiglia “normale”. Mia mamma era gravemente malata. Io sono nata il 1 agosto, ma l’11 agosto mia mamma, senza che fossimo ancora tornate a casa, era stata ricoverata in psichiatria per la prima volta. Quindi mio papà è tornato a casa con me di dieci giorni da solo. Mi hanno cresciuta baby-sitter e tate, papà è sempre stato assente, non fisicamente ma nell’accudimento sì. Sono stata circondata da tante persone, alcune si sono occupate di me, altre mi hanno fatto del male.
Laura, la tua prima figlia, è arrivata molto presto: si può dire che diventare mamma ti ha fatto desiderare di essere figlia?
In realtà coltivavo questo desiderio fin dall’infanzia, tant’è vero che quando, a quindici anni, ho scoperto di essere incinta, ho trovato in me una forza che non mi sono mai spiegata, l’avevo e basta. Mio papà non era solo favorevole all’aborto: era un vero e proprio attivista. E io ho tenuto nascosta la gravidanza fin che ho potuto, fino all’ottavo mese, perché non volevo assolutamente perdere la bambina.
Ero disposta a tutto, anche a darla in adozione, se fosse stato necessario. Nella consapevolezza che il posto migliore per un bambino è a fianco a sua mamma, ho sempre pensato che piuttosto mia figlia sarebbe stata cresciuta da qualcun altro, ma doveva nascere. Non ho fatto visite, esami, corsi preparto, nulla: venti minuti prima di partorire un meraviglioso ginecologo, «Giangi», mi ha dato tutte le istruzioni per “un parto perfetto”.
Mi ha insegnato come affrontare il dolore attraverso la respirazione, e io l’ho fatto, ho “imparato subito” e ho avuto un parto fantastico. Image by Carmen
Hai trovato un papà in sala parto?
Più che un papà, un fratello. L’ho poi incontrato di nuovo l’estate successiva la nascita di mia figlia Laura, ed è stata una cosa incredibile. Tre mesi dopo il parto mio padre è mancato. Mi sono trovata madre, a quindici anni, orfana di padre e con la mamma in istituto psichiatrico.
Sono stata accolta da una comunità di religiose, sul lago di Como e da lì ho iniziato a chiedere una famiglia. Volevo che il mio desiderio di bambina trovasse compimento. Così sono arrivata a Castelleone, in provincia di Cremona, dalla famiglia Bellani.
Uno dei fratelli maggiori nella mia nuova famiglia studiava medicina, e, raccontando del mio parto, ho scoperto che «Giangi» era un suo compagno di università, anzi un amico carissimo. Quello che considero un padre, invece, è il dottor Lonardo Aletti.
Non ha assistito lui al mio parto, ma è venuto a salutarmi, dopo, e mi ha dato un bacio in fronte [mentre lo racconta, Carmen si tocca la fronte, più volte, il sigillo di quel bacio è ancora lì] dicendomi: «Sei stata fortissima, hai tenuto la tua bambina».
Il liceo, l’università (la passione per il tedesco), il lavoro, il matrimonio, l’affido: da dove ti viene questa gioia?
Dalla famiglia Bellani ho imparato a essere madre e a essere figlia. Mentre mi insegnavano a occuparmi di Laura, mi permettevano di vivere la vita di una ragazza, spensierata, con la scuola, gli amici, tutto. Nel tempo è poi incontrato un uomo che sarebbe divenuto un marito fantastico: ha abbracciato tutto di me, compresa mia figlia Laura.
Per Laura mio marito è padre vero, pieno di attenzione e di delicatezza, e assieme della fermezza necessaria. Dal nostro matrimonio sono nate poi Benedetta e Francesca, un altro tassello del mio compimento. Così il mio lavoro, la scuola, fa pure parte del mio compimento.
Fin dalla più tenera età mi è stato chiaro di avere un talento, la predisposizione ad apprendere le lingue, vuoi per le numerose baby-sitter di diverse nazionalità, vuoi perché l’aveva anche mia mamma. Anche in questo mi trovo addosso qualcosa che non mi sono data da sola. L’affido, poi, che non è una piccola sfida, è per me come una “seconda parte” della mia esistenza: una conseguenza dell’accoglienza che ho imparato quando sono stata accolta io.
Cos’è per te la paura? Oggi ne siamo intrisi. Paura di sbagliare, di essere “trattati male”, di offendere e di essere offesi. Le “fobie” sono diventate materia di legge… Tu ne hai passate tante, ma la paura non ha vinto. Perché?
È stata più forte la certezza che tutto sarebbe andato bene. Certo, quando guardo le mie figlie oggi un po’ di paura, da mamma, istintivamente ce l’ho. Ma non paragono la mia vita alla loro. Quando avevo otto anni mio papà mi faceva fare il bagno alla mamma.
Succedeva quando la portava a casa dalla clinica psichiatrica, dove poi rientrava per l’ennesima crisi. Fin da quando ero bambina non mi ha mai potuta vedere: mi considerava responsabile della sua condizione.
Ci sono voluti anni per costruire un rapporto, e sono stata educata a starle vicino, aspettando i suoi tempi e le sue modalità. Poi da grandi ci siamo riabbracciate e abbiamo ricuperato tutto. Eppure, nonostante apparentemente non ci fosse nessuno a occuparsi di me, una mano che mi proteggeva io l’ho avuta sempre.
Anche se tra le varie esperienze ricordo ancora una notte, al parco Lambro, a Milano: erano gli anni 1980, quelli dell’eroina. Eppure, a me non è venuta mai nemmeno la tentazione, nemmeno dell’alcool, nonostante una delle mie tate fosse un’alcolista. Avevo troppa paura di perdere il controllo, e l’unica che poteva difendermi, l’unica responsabile di me, ero io.
Sai riconoscere l’origine di questo desiderio di occuparti di te stessa?
Mio papà, nonostante tutto, mi ha sempre fatta sentire voluta bene.
Cosa ti preme comunicare a chi legge la tua storia?
Quando è nata Laura nessuno mi ha detto “ce la farai”: era dentro di me. Intessuto nelle mie viscere, come la bambina che portavo in grembo, c’era anche quella forza. Un dono, per usare la parola più corretta, qualcosa che è mio, ma che non mi sono data da sola.