Chiesa.espressonline 14 febbraio 2011
Su “L’Osservatore Romano” il cardinale Ravasi e l'”archistar” Paolo Portoghesi criticano i nuovi edifici sacri costruiti in Italia col patrocinio della conferenza episcopale. Perché rompono con la tradizione e deformano la liturgia. Un commento di Timothy Verdon
di Sandro Magister
La domanda è d’obbligo: edifici moderni come il terzo sopra raffigurato sono in continuità o in rottura con la tradizione architettonica, liturgica e teologica della Chiesa?
Varie chiese moderne sono costruite in forma circolare. Così come è il cerchio a caratterizzare i due esempi antichi di arte sacra sopra riprodotti. Ma basta questo a garantire la continuità con la tradizione?
O bastano i criteri estetici per giudicare la qualità di una nuova chiesa?
In questo inizio d’anno, a Roma e in Italia la polemica è esplosa vivace. E non soltanto tra gli specialisti. È entrato in campo “L’Osservatore Romano”, il quotidiano della Santa Sede, che in ripetuti interventi ha criticato severamente alcuni dei più celebrati esempi di nuova architettura sacra patrocinati dall’episcopato italiano.
Ha cominciato il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio per la cultura, con una “lectio magistralis” alla facoltà di architettura dell’università “La Sapienza” di Roma riprodotta integralmente dal giornale vaticano del 17-18 gennaio.
Ravasi ha calato fendenti su quelle chiese moderne “nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare”.
Niente nomi. Ma il 20 gennaio, di nuovo su “L’Osservatore Romano”, l’architetto Paolo Portoghesi ha preso esplicitamente di mira le tre chiese vincitrici del concorso nazionale indetto dalla conferenza episcopale italiana nel 2000, realizzate a Foligno da Massimiliano Fuksas, a Catanzaro da Alessandro Pizzolato e a Modena da Mauro Galantino.
Portoghesi è lui stesso un “archistar” di fama mondiale: la Grande Moschea di Roma porta la sua firma. Da tempo critica alcune delle nuove chiese costruite da architetti di grido col plauso delle gerarchie. Tra le più famose e discusse si possono citare quella di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, sulla tomba di Padre Pio, e quella di Richard Meier nel quartiere romano di Tor Tre Teste.
Questa volta, su “L’Osservatore Romano”, Portoghesi se la prende soprattutto con la chiesa di Gesù Redentore a Modena, ideata da Galantino. Ne riconosce i pregi estetici, l’armonia dei volumi, la pulizia razionalista. Riconosce anche l’intenzione dell’architetto di “dare maggior dinamismo all’evento liturgico”.
Poi però chiede: “Dove sono i santi segni che rendono riconoscibile la chiesa?”. All’esterno – osserva – nessuno, a parte le campane “che però potrebbero trovarsi anche in un municipio”. Mentre all’interno “il ruolo iconologico è affidato a un “orto degli ulivi” sistemato dietro l’altare in un esiguo cortiletto e alle “acque del Giordano” ridotte a un canaletto di acqua stagnante stretto tra due muri che termina nel battistero”.
Ma il peggio, a giudizio di Portoghesi, appare durante la celebrazione della messa: “La comunità dei fedeli è divisa in due schiere contrapposte con al centro un grande vuoto ai cui due estremi si collocano l’altare e l’ambone. Le due schiere contrapposte e il vagare dei celebranti tra i due poli mettono in crisi non solo la tradizionale unità della comunità orante ma anche quella che è stata la grande conquista del concilio Vaticano II, l’immagine assembleare del popolo di Dio in cammino. Perché ci si guarda in faccia? Perché non si guarda insieme verso i luoghi fondamentali della liturgia e l’immagine del Cristo? Perché i luoghi della liturgia, l’altare e l’ambone, sono contrapposti anziché affiancati? Imprigionati nei banchi, divisi in settori come le coorti di un esercito, i fedeli sono costretti, rimanendo immobili, a cambiare la direzione dello sguardo ora a destra ora a sinistra. La figura del Crocifisso è collocata dalla parte dell’altare e in corrispondenza della schiera di sinistra, con l’inevitabile conseguenza di non essere raggiungibile dallo sguardo di molti dei fedeli se non a rischio di torcicollo”.
Portoghesi cita frasi di Benedetto XVI e così prosegue: “È da augurarsi che questi puntuali interventi dalla cattedra di San Pietro facciano capire a liturgisti e architetti che la rievangelizzazione passa anche attraverso le chiese con la ‘c’ minuscola e richiede sì lo sforzo creativo dell’innovazione, ma anche un’attenta considerazione della tradizione, che è sempre stata non pura conservazione, ma consegna di un’eredità da mettere a frutto”.
E conclude: “La nuova chiesa di Modena è la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell’architettura non basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a sentirsi pietre viventi di un tempio di cui Cristo è la pietra angolare”.
A queste critiche hanno replicato, sul “Corriere della Sera” dell’8 febbraio, sia l’architetto Galantino, sia il vescovo Ernesto Mandara, responsabile delle nuove chiese nella diocesi di Roma.
Galantino ha difeso le proprie scelte architettoniche, sostenendo di aver voluto disporre i fedeli “come intorno al tavolo, ricostruendo idealmente l’ultima cena”. E ha ricordato di di aver maturato le sue riflessioni negli anni Ottanta a Milano, con il cardinale Carlo Maria Martini.(Tra parentesi. La chiesa milanese dell’illustrazione in cima a questa pagina è uno dei prodotti di quella temperie.
Progettata dagli architetti Giancarlo Ragazzi e Giuseppe Marvelli, fu dichiaratamente concepita come “luogo di incontro e di preghiera per i credenti di tutte le religioni”, privo di segni specifici sia all’esterno che all’interno. La sua aula può essere divisa con pareti mobili in tre comparti: quello centrale per i riti cattolici e i due laterali pensati per ebrei e musulmani. L’attuale parroco sta faticosamente restituendo la chiesa a un suo uso integralmente cattolico, con due croci all’esterno, con vetrate e immagini cristiane all’interno e con un grande Cristo crocifisso sopra l’altare).
Anche il vescovo Mandara ha difeso l’operato suo e della conferenza episcopale italiana: “Probabilmente se guardiamo al passato troviamo esempi di costruzioni non riuscite che danno ragione al cardinale Ravasi, ma dei risultati degli ultimi anni sono profondamente soddisfatto. Le chiese realizzate esprimono molto bene sia il senso del sacro sia quello dell’accoglienza”. Il 9 febbraio “L’Osservatore Romano” ha riportato entrambe le dichiarazioni di Galantino e Mandara.
Ma ha ridato anche la parola a Portoghesi, il quale ha detto: “Dopo il Concilio ci sono state molte fughe in avanti, in diverse direzioni. La chiesa ha perso specificità, è diventata un edificio come gli altri. La riconoscibilità, invece, è un fatto fondamentale, una tappa di quella ricristianizzazione dell’occidente di cui parla il papa. Quanto all’orientamento della preghiera liturgica, il popolo di Dio in cammino verso la salvezza non può essere statico, si muove verso una direzione; l’ideale sarebbe orientare la chiesa a est, dove il sole nasce. Non dobbiamo aver paura di quella modernità che la Chiesa stessa ha contribuito a creare; ogni generazione ha il dovere di rileggere i contenuti del passato, ma considerando la tradizione come un elemento di forza a cui attingere”.
Non solo. Lo stesso 9 febbraio e il giorno successivo “L’Osservatore Romano” è tornato sul tema con due dotti interventi di due esperti, entrambi finalizzati a mostrare i caratteri distintivi della tradizione architettonica delle chiese cristiane.
Il primo dei due interventi è di Maria Antonietta Crippa, ordinario di architettura al Politecnico di Milano.
Essa mostra come la preminenza data dall’architettura cristiana alle chiese a forma di croce latina si ispira sia alla classicità (Vitruvio con l’analogia tra le proporzioni del corpo e del tempio) sia soprattutto alla visione della Chiesa come corpo di Cristo, e di Cristo crocifisso.
Ma assieme al quadrato, anche il cerchio entra in questa tradizione architettonica. Secondo gli autori medievali, le chiese cristiane “hanno forma di croce per mostrare che il popolo cristiano è crocifisso al mondo; oppure di cerchio per simbolizzare l’eternità”.
O anche di croce e di cerchio insieme. Come è avvenuto nel Cinquecento col prolungamento della navata della nuova basilica di San Pietro, inizialmente a pianta centrale nel progetto di Michelangelo.
Il secondo e ancor più mirato intervento, su “L’Osservatore Romano” del 10 febbario, è di Timothy Verdon, americano, storico dell’arte e sacerdote, professore a Princeton e direttore dell’ufficio per l’arte sacra dell’arcidiocesi di Firenze.
Il suo articolo è riprodotto integralmente qui sotto. E mostra come le prime grandi chiese a Roma furono costruite, nel secolo IV, proprio assumendo in chiave cristiana due modelli dell’architettura classica: quello longitudinale delle basiliche e quello circolare, a pianta centrale.
A Gerusalemme, la chiesa del Santo Sepolcro edificata dall’imperatore Costantino associa entrambi i modelli. Ma anche a Roma la prima grande chiesa a pianta centrale, quella di Santo Stefano Rotondo del secolo V – il cui interno è visibile nell’illustrazione in cima a questa pagina – sorge entro un grande cortile rettangolare.
In ogni caso, le chiese a pianta centrale non sono prive di orientamento, né tanto meno fanno sì che l’assemblea dei fedeli si ripieghi su se stessa. I fedeli vi entrano come in un cammino di iniziazione, fino alla colonna di luce che è al centro dell’edificio e che è Cristo “lux mundi”.
Quel Cristo che nel coevo portale di Santa Sabina – vedi l’illustrazione – appare al centro del cerchio celeste e riceve la preghiera “orientata” della donna al di sotto di lui, la Chiesa incoronata come sua sposa.
Questa è la grande tradizione architettonica, liturgica e teologica delle chiese cristiane. Di ieri, di oggi e di sempre.
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L’Osservatore Romano 10 febbraio 2011
LA TRADIZIONE EUROPEA DELLE GRANDI CHIESE.
Dagli angoli della vita al cerchio dell’eternità:
di Timothy Verdon
Tra le caratteristiche distintive del cristianesimo occidentale vi è la volontà di costruire grandi chiese: ancor oggi, in un’Europa che non vuole riconoscere ufficialmente le sue radici cristiane, gli edifici storici più imponenti delle città sono cattedrali, chiese monastiche o santuari. Come nasce questa tradizione?
L’idea cristiana del luogo di culto subisce una prima fondamentale trasformazione in Italia e specificamente a Roma a partire dall’epoca costantiniana.
Precedentemente, come apprendiamo dalle lettere di san Paolo, a Roma come in altre città evangelizzate, la Chiesa era strutturata in piccole comunità identificabili in base alle case private in cui i membri si riunivano. Nella sua lettera ai Romani, ad esempio, salutando i suoi amici Aquila e Prisca, Paolo saluta anche “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Romani, 16, 3-5).
Tra le case utilizzate a Roma nel I secolo, c’erano però anche delle “domus” patrizie e forse perfino il “palatium” imperiale: scrivendo da Roma ai credenti di Filippi tra il 61 e il 63, san Paolo dirà: “Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare” (Filippesi, 4, 22).
Con la conversione alla nuova fede dei massimi ceti sociali tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, alcune “case” che vennero destinate permanentemente al servizio della “ecclesia” erano grandi e lussuose: tra queste c’era un’aula di rappresentanza della residenza dell’imperatrice madre Elena, il Palazzo Sessoriano, poi divenuta la basilica di Santa Croce in Gerusalemme.
Sarà soprattutto il figlio di Elena, l’imperatore Costantino, a dare dignità ufficiale a questa tendenza, esaltando la nuova fede mediante la costruzione di una vera e propria rete di grandi chiese sul modello architettonico delle aule pubbliche o regie dell’impero: le basiliche.
Come per trecento anni le comunità cristiane avevano celebrato i riti in sale ordinarie, in case private e nelle “insulae” delle città greco-romane, senza avvertire una particolare necessità di distinguere i loro luoghi di culto dal mondo che li circondava, così, anche dopo l’ascesa sociale della Chiesa, le grandiose strutture fatte costruire dal governo imperiale s’inserivano nell’esistente tessuto architettonico delle città in cui si trovavano.
Le fondazioni costantiniane e quelle del V secolo erano molte e molto grandi: San Giovanni in Laterano, forse già avviata nel 312-13, aveva dimensioni titaniche: 98 per 56 metri; la basilica cimiteriale di San Sebastiano, sulla via Appia, era lunga 75 metri; l’originaria basilica di San Lorenzo sulla via Tiburtina era lunga 98 metri.
C’era una basilica sulla via Labicana, attigua al “martirion” dei santi Marcellino e Pietro contenente il mausoleo dell’imperatrice Elena, e ce n’era un’altra sulla via Nomentana, vicino alla memoria di sant’Agnese, dove la figlia di Costantino, Costanza, aveva fatto costruire il suo mausoleo, l’attuale chiesa di Santa Costanza.
Soprattutto l’antica basilica di San Pietro era colossale, con una facciata larga circa 64 metri e un portico profondo 12. Le navate, esclusa l’area presbiteriale, erano lunghe 90 metri e quella centrale larga 23,50 con un’altezza di 32,50, mentre le navatelle laterali avevano altezze, rispettivamente, di 18 e 14,80 metri.
Nell’ambito della corte imperiale viene fatto poi un passo carico di significato per la storia dell’architettura cristiana: l’adattamento a scopi liturgici dell’edificio circolare o cilindrico tipico nel mondo tardo-antico dei mausolei di personaggi illustri.
Per la sensibilità greco romana, la forma cilindrica-chiusa infatti suggeriva il mistero della morte; proprio questa configurazione era stata usata nel iV secolo a Gerusalemme per la struttura costantiniana della “Anastasis”, contenente la tomba vuota di Cristo. La stessa forma venne poi utilizzata dalla figlia di Costantino per il proprio mausoleo sulla via Nomentana, accanto all’antica basilica cimiteriale di Sant’Agnese.
Simili strutture circolari hanno un simbolismo particolare. Mentre le più comuni basiliche longitudinali implicano un cammino – dall’ingresso all’altare – la forma circolare, senza inizio e senza fine, ha dell’infinito: giungere al suo centro connota la fine della ricerca, l’arrivo nel porto sospirato.
Al Santo Sepolcro di Gerusalemme, dove prima si passava per una basilica longitudinale per poi – attraversato un cortile – penetrare nella struttura circolare, l’esperienza spaziale complessiva era quasi una metafora di ricerca e scoperta: del cammino di fede e della certezza con cui Dio pone fine alla ricerca dell’uomo, ammettendolo nella luce infinita.
Nel V secolo la più grande chiesa romana a pianta centrale, Santo Stefano Rotondo, proporrà un’esperienza nuova. La basilica longitudinale diventa un immenso cortile rettangolare intorno all’elemento circolare, che a sua volta diventa un labirinto concentrico con più ingressi. Dalle cappelle si passa successivamente nel penultimo anello, più alto di quelli esterni e più luminoso, che infine dà accesso all’altissimo spazio cilindrico centrale, un pozzo di luce al cuore dell’edificio.
A Santo Stefano Rotondo il senso del cammino cristiano veniva cioè articolato in termini mistagogici, di iniziazione al mistero: non più come movimento lineare e neanche come semplice arrivo, ma nell’esperienza di una penetrazione per gradi: dall’esterno verso il centro, dalle tenebre verso la luce, metafora forse, questa, per la vita di una Chiesa che ormai trovava la ragione della sua comunione non solo nella radice storica di una condivisa “romanitas”, ma nella convergenza verso Colui che è luce degli uomini.
È suggestivo infatti mettere la pianta circolare di questa chiesa a confronto con una coeva immagine di Cristo che ascende nel circolare “clipeus” simboleggiante la luce, in uno dei pannelli lignei delle porte della basilica di Santa Sabina, sull’Aventino.
È il Cristo dell’Apocalisse, l’Alfa e l’Omega della storia umana, presentato tra i simboli dei quattro evangelisti, con – sotto di lui – i santi Pietro e Paolo che innalzano un serto sulla testa di una donna. Questa, che con le braccia alzate in preghiera, simboleggia la stessa Chiesa che anela al suo Sposo.
A Roma per la prima volta la Chiesa si è identificata plasticamente con Colui che, immolato, è ora “degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (Apocalisse, 5, 12). Ha occupato spontaneamente, trasformandoli, gli spazi architettonici e concettuali dell’antico impero, persuasa che Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d’Israele, s’era manifestato anche nello splendore materiale di Roma. La marmorea magnificenza della città un tempo pagana fu letta come adombramento della città dell’Apocalisse, la Gerusalemme celeste le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose.
Roma è infatti la città dell’Apocalisse – dello svelamento del senso nascosto della storia – e dal V secolo in avanti i messaggi comunicati nei programmi iconografici delle più importanti chiese romane sono “apocalittici”.
Cristo rivestito della toga dorata come “Dominus dominantium”, Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l’adorano, versando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi: sono queste le immagini realizzate nei presbiteri delle grandi nuove basiliche.
In diverse di queste chiese, poi, le scene rivelatrici dell’eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come risoluzione della vicenda terrestre.
A San Pietro in Vaticano questo messaggio venne anticipato già all’esterno, con un monumentale mosaico che ricopriva la parte superiore della facciata della basilica (disegnata in un codice dell’XI secolo proveniente da Farfa e attualmente conservato all’Eton College di Windsor), mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l’Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide” (Apocalisse, 7, 9).
Pure questa caratteristica della vita dell’antica capitale, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana. La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventerà la Roma papale che regolarmente accoglie uomini e donne “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Apocalisse, 7, 9). Fenomeno, questo, che spiega la creazione – prima al Laterano e poi al Vaticano – di spazi adeguati ad accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo, spazi che esprimono continuità con l’antico impero: la basilica San Pietro e l’antistante piazza infatti ricoprono un circo realizzato nel I secolo dagli imperatori Caligola e Nerone.
I giganteschi teatri e anfiteatri dell’Urbe, che ancor oggi testimoniano la capacità dell’impero di convogliare folle oceaniche verso un punto, fanno parte dell’esperienza della primitiva Chiesa di Roma. Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.
Ciò significa che non solo l’idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo – di raduni per vedere insieme eventi che uniscano mediante l’emozione condivisa da centinaia di migliaia di persone – faceva parte del bagaglio culturale ed umano della primitiva Chiesa romana.