di Stefano Magni
Pronti per una guerra in Siria? Dopo mille contrordini, che non sono ancora finiti, il segretario di Stato americano John Kerry e il segretario alla Difesa Chuck Hagel, si dicono pronti a colpire. Rischiamo di dimenticare un elemento importante, in tutta questa vicenda: alla testa dell’amministrazione statunitense c’è Barack Hussein Obama, premio Nobel per la Pace.
L’assegnazione del Premio Nobel, nel 2009, nei primi mesi di amministrazione, era dovuta a: «sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Sforzi straordinari che, allora, erano ancora, in gran parte, sulla carta. Obama si era insediato da 10 mesi.
In molti altri casi, il comitato del Nobel ha compiuto scelte discutibili. Nel 1973 diede il premio ex aequo a Henry Kissinger e Le Duc Tho, rispettivamente segretario di Stato statunitense e ministro degli esteri vietnamita. Entrambi avevano le mani grondanti di sangue, giusto per usare questa pittoresca metafora pacifista: Kissinger aveva appoggiato il golpe militare in Cile, appena un mese prima.
Le Duc Tho era uno dei protagonisti delle sanguinosissime purghe del Partito Comunista nordvietnamita, fautore della logica secondo cui sei colpevole se il Partito ti giudica tale. In ogni caso, questi due uomini avevano raggiunto un accordo di pace, a Parigi, con cui ponevano fine alla Guerra del Vietnam. L’accordo si rivelò illusorio (durò appena 2 anni), ma almeno lo sforzo ci fu.
Altra scelta discutibile fu l’assegnazione del premio, sempre ex aequo, a Shimon Peres e Yassir Arafat . Quest’ultimo era già responsabile di un ventennio di guerriglia contro Israele, dichiaratamente condotta con metodi terroristici contro i civili. Il premio venne assegnato nel 1994, dopo gli accordi di Oslo del 1993, che parevano aver posto fine alla lunga guerra mediorientale. Yassir Arafat, appena sei anni dopo, buttò al macero gli accordi di Camp David e riprese la guerra. La II Intifada, che ne seguì, fu un bagno di sangue.
Il Comitato del Nobel si divise e propose di ritirare il Nobel al solo Shimon Peres. Nel 2004, in compenso, il Nobel per la Pace venne assegnato a Wangari Muta Maathai, per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace». Non è chiaro a quali guerre abbia posto fine, considerando che Wangari Maathai, biologa keniota, si è semmai distinta come attivista politica ecologista radicale, convinta che l’Aids sia stato confezionato nei laboratori occidentali “per sterminare i neri” e le sue più note azioni politiche erano rivolte contro il disboscamento, più che contro le guerre africane.
Questi precedenti già spiegano molto sulle idee dominanti nel Comitato del Nobel. Ma ancora non danno una risposta sul perché sia stato premiato Obama. Almeno Kissinger, Le Duc Tho, Arafat e la Maathai, nel bene o nel male, avevano “combinato” qualcosa. Obama no. Il premio gli è stato assegnato sulla fiducia. Meritata? Nel 2011 (meno di due anni dopo il Nobel), Barack Obama ha approvato l’intervento militare in Libia, promosso soprattutto dalla Francia.
Almeno nella prima fase (l’Operazione Odissey Dawn), fu un’azione militare quasi interamente americana. Nei mesi successivi, i Paesi della Nato che parteciparono al conflitto (fra cui l’Italia) combatterono soprattutto con armi americane. Furono otto mesi di bombardamenti, non sempre selettivi, con perdite civili stimate attorno ai 1000 morti, che provocarono una destabilizzazione totale dell’area.
Il conflitto nel Mali, nell’Africa occidentale, fu una diretta conseguenza di quella guerra: le armi degli ex arsenali di Gheddafi si riversarono tutte nelle mani dei Tuareg, le milizie jihadiste tornate dalla Libia alimentarono il focolare di rivolta nell’Azawad, preludio della nuova guerra. Al Qaeda nel Maghreb Islamico si è arricchita e rafforzata. Altre centinaia di armi sono sparite, senza lasciar traccia, nei meandri del contrabbando. Si è trattato, decisamente, di “sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”. L’ambasciatore statunitense a Bengasi ci ha rimesso anche la pelle, vittima di una milizia terrorista che fino a pochi mesi prima era stata sostenuta dall’intervento Nato.
Prima durante e dopo la guerra in Libia, Obama ha continuato a combattere una guerra segreta contro i terroristi. Gli omicidi mirati di terroristi, che sotto l’amministrazione Bush erano 52, con Obama sono cresciuti a 318. In queste 318 missioni, condotte soprattutto con aerei senza pilota (droni) sono morti anche 286 civili e 270 persone di cui non è nota l’identità (stime della New America Foundation, ente non ostile a Obama, considerando che è di tendenza progressista).
Se Bush era contestato per i “rapimenti” dei terroristi e per la loro deportazione al carcere militare di Guantanamo, Obama usa una “kill list”, come ha rivelato la stampa statunitense un anno fa: i sospetti terroristi si uccidono. Punto. Sono anche questi “sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”? Proprio per questi continui raid, gli Usa hanno quasi del tutto rovinato le loro relazioni con il Pakistan, teatro di gran parte degli omicidi mirati.
È poi molto lungo l’elenco dei Paesi che, grazie all’opera diplomatica dell’amministrazione Obama, sono precipitati nel caos. Basti nominarne uno: l’Egitto, divenuto una trappola mortale per i cristiani (10% della popolazione), dominato dal partito emanazione dei Fratelli Musulmani per un anno, dopo Obama aveva scaricato il regime di Mubarak.
Ora che i Fratelli Musulmani, dopo aver creato caos politico, crisi economica e collasso dell’ordine pubblico, sono stati cacciati da un golpe militare effettuato a furor di popolo, Obama pare reiterare nell’errore di prima, difendendo i Fratelli Musulmani. Gli altri protagonisti della Primavera Araba, a partire dalla Tunisia (per non parlare della Libia) paiono voler seguire lo stesso copione egiziano. È questo il risultato degli “sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli” del presidente Obama.
Unico merito “pacifista” di Obama è quello di aver annunciato il ritiro dall’Afghanistan (no, il ritiro dall’Iraq non è merito suo: era già stato deciso dall’amministrazione precedente). Ma cosa ha prodotto questo annuncio? Forse è la prima volta che un presidente dice al nemico la data in cui non ne potrà più di combatterlo. E, proprio perché fatto in pubblico, e in anticipo, questo annuncio ha galvanizzato il morale dei Talebani. Col risultato che le vittime in Afghanistan sono cresciute esponenzialmente, con picchi senza precedenti nelle estati del 2011, del 2012 e in questo inizio 2013.
Se dovesse anche lanciarsi in una guerra in Siria, per reagire al presunto uso (tutt’altro che dimostrato) di armi chimiche da parte del regime di Assad, Obama compirebbe il suo capolavoro “diplomatico”. Come reagirebbe l’Iran, alleato della Siria? Come reagirebbe la Russia, che mantiene truppe e basi sul territorio? Cosa succederebbe mai, se un soldato russo dovesse morire sotto le bombe americane? Che fine faranno i cristiani locali (15% della popolazione), che per ora sono vivi solo grazie al regime di Assad?
Qualunque cosa succeda in Siria, possiamo anche star certi che a Obama non verrà mai ritirato il premio Nobel per la Pace. Facile prevederlo. Basta leggere il resto della motivazione: «Per 108 anni il Comitato ha cercato di stimolare proprio quella politica internazionale e di quegli atteggiamenti di cui Obama è il portavoce a livello mondiale. Il Comitato condivide l’appello di Obama: “È giunto il momento per tutti noi di assumerci la nostra parte di responsabilità per una risposta globale alle sfide globali”».