Il Sole 24 Ore 21 dicembre 2003
di Gian Carlo Calza
In Cina, dopo la caduta della “banda dei quattro” con gli assestamenti degli anni Ottanta e poi ancora successivamente. ai fatti di Tiananmen del 1989, una grande quantità di testimonianze sulla “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”, sui suoi eccessi, ingiustizie, violenze presero a comparire in Occidente. Tuttavia da qualche tempo tali libri di denuncia sono sempre meno frequenti. È probabile che il grande pubblico, e quindi anche gli editori, abbiano gradualmente perso interesse per storie il cui andamento appare costruito secondo cliché piuttosto standardizzati, e questo indipendentemente dal fatto che ogni esperienza personale sia comunque una vicenda unica.
Fino agli anni Ottanta continuò a fotografare per il giornale, e cioè per il partito, registrando e documentando di tutto. Ma anziché consegnare i rullini per lo sviluppo dopo ogni servizio, li stampava egli stesso riuscendo in questo modo a tenera per sé i negativi. Li custodiva in buste di carta su cui aveva annotato informazioni tecniche e storiche, nonché commenti personali. Durante la rivoluzione culturale li teneva sepolti sotto il pavimento di casa ad Harbin dove viveva con la moglie e i due figli. Oggi questi negativi sono più di trentamila.
Nel 1988, quando la situazione sociale sembrava si stesse normalizzando – ma dopo un anno ci sarebbero stati i fatti di Tiananinen – una ventina delle sue foto gli valsero il primo premio del concorso fotografico nazionale. Di recente, pur conser vando la cittadinanza cinese, ha portato tutto (e ufficialmente per di più) negli Stati Uniti, dove dal 1996 tiene lezioni sulla rivoluzione culturale ad Harvard e Princeton. È probabile che non esista documentazione fotografica altrettanto dettagliata e completa della rivoluzione culturale di questa di Li Chenzheng.
Certo, si tratta di una rivoluzione culturale dove Pechino compare assai poco, ma Pechino è proprio il luogo su cui si ha maggior materiale, mentre Heiongjiang è una provincia molto importante strategicamente. Harbin fu costruita alla fine dell’Ottocento ed è uno snodo ferroviario determinante per l’area nord orientale dell’Asia. Fu poi un importante centro dello Stato coloniale giapponese del Manchukuo e, dopo il conflitto, negli anni Quaranta, fu per un certo periodo occupato dai sovietici. Da ultimo da Habin mossero le forze comuniste per la riunificazione della Cina.
Il libro è stato preparato facendo una selezione di 320 fotografie, una parte delle quali è ora esposta a Reggio Emilia a Palazzo Magnani. Sono state raggruppate in cinque parti, seguendo un ordine cronologico e, al tempo stesso, le fasi principali della rivoluzione culturale. “È giusto ribellarsi” copre il periodo di preparazione della rivoluzione culturale che va dal 1964 al 1966. Le foto di Li testimoniano della forte pressione ideale anticorruzione. Mao sta lanciando la sua campagna contro lo strapotere del partito.
Vi sono esempi di rieducazione in campagna, cui Li stesso dovette sottoporsi due volte. Le foto hanno un sapore di ideologia pura, di dibattiti e lavoro nei campi. C’è entusiasmo per le politiche di “rieducazione”. Ma il 16 maggio 1966 Mao lanciò la rivoluzione culturale e subito dopo, in agosto, con lo slogan “Bombardare il quartier generale” attaccò i quadri del partito. Questa politica si diffuse come un fuoco di prateria in tutta la Cina e le guardie rosse passarono alla violenza psicologica e a quella fisica e, in una sorta di frenesia ormai incontrollabile, si misero ad abbattere le autorità e a dissacrare i miti.
Alcuni casi sarebbero sconfinati nel ridicolo se non ci fossero state lì delle persone in carne e ossa a pagare un prezzo altissimo. Come quello del governatore del Heiongjiang, Li Wanfu, che venne accusato di voler approfittare della sua somiglianza con Mao per far carriera. È impressionante leggere nelle foto di Li di questo periodo e dei successivi, “Il sole rosso nei nostri cuori (1966-1968)” e “La rivoluzione non è un pranzo di gala (1968-1972)”, il progressivo inasprirsi della violenza, dell’offesa alle persone e ai simboli della civiltà: quelli religiosi (luoghi, persone e oggetti del culto) e quelli della cultura, come i libri.
Queste cose, certo, si sapevano, ma vedersele davanti, grazie alle implacabili macchine fotografiche (tedesche) di Li, è un’altra cosa. Impressionanti sono i volti delle vittime, senza nessuna possibilità di difesa, quasi increduli di fronte a quello che sta loro succedendo; ma non si vedono mai la disperazione, la ribellione, le grida, come se tutti fossero anestetizzati dallo sbigottimento. Neppure quando con l’esercito intervenuto a riportare l’ordine, la gente cominciò a essere condannata e giustiziata, soprattutto per chiarire chi stava riprendendo in mano le redini.
Raramente qualcuno cercherebbe di farsi sentire: terribile la sequenza in cui un figlio che cerca di difendere il padre viene a sua volta accusato e impedito di parlare. O ancor più agghiacciate la sequenza dell’ “epilogo”, del dopo “normalizzazione” con l’esecuzione di una donna, cresciuta con la rivoluzione culturale, e condannata per corruzione.
Ha ragione Jonathan D. Spence, uno dei massimi storici della Cina e prefatore del libro, quando sostiene che in campo storico risulta più semplice “interpretare e comprendere un particolare evento, quanto più tempo è trascorso dal verificarsi dello stesso. Nel caso della rivoluzione culturale cinese (…) al contrario, maggiore è il tempo trascorso, più diventa difficile decifrare uno dei più complessi e catastrofici movimenti di massa”.