di Francesco D’Agostino
La vicenda, di per sé, ha un rilievo tutto sommato limitato: a quanto si è letto sui giornali, due ragazze pisane hanno cercato – una a notte fonda, l’altra sul far della sera – di farsi prescrivere il Norlevo (cioè la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, di cui ancora non si è assodato se sia un semplice anticoncezionale, o un vero e proprio farmaco che uccide la vita di un embrione già concepito).
Limitiamoci a stabilire alcuni punti fermi.
Primo punto: la ‘pillola del giorno dopo’ non è un farmaco “da banco”, posto liberamente in vendita su semplice richiesta del “paziente”. È indispensabile che un medico lo prescriva. Questa è stata la decisione delle autorità sanitarie competenti e dobbiamo rispettarla, fino a quando non venga eventualmente mutata.
Secondo punto: nessun medico è “obbligato” a prescrivere qualsiasi farmaco, per il quale sia necessaria una ricetta, qualora egli non ne ravvisi l’opportunità e l’utilità. Esiste una libertà di scienza, prima ancora che di coscienza, che ha un essenziale valore epistemologico e deontologico: il medico è un “alleato” del paziente e deve sempre cercare di operare per il suo bene, secondo le sue competenze professionali; non è e non deve mai diventare il cieco esecutore di una richiesta, di qualsiasi richiesta farmacologica il paziente possa avanzare. È per questa ragione che siamo tutti convinti che è biasimevole la prassi di alcuni medici, peraltro purtroppo diffusa, di prescrivere farmaci “alla cieca”, senza neanche visitare il malato.
Terzo punto: questa particolarissima autonomia del medico è ribadita espressamente dal codice deontologico e non ha nulla propriamente a che vedere con l’obiezione di coscienza (è stata questa anche l’opinione del Comitato nazionale per la Bioetica). Potremmo parlare piuttosto di “obiezione di scienza”: al paziente che gli chiede un certo farmaco, il medico potrà (se questo sarà il caso) opporre un rifiuto in quanto medico, prima ancora che in quanto “cattolico”.
Naturalmente sarà professionalmente responsabile se il suo rifiuto sarà la causa determinante di un danno alla salute (si badi: alla salute!) del paziente, ma la sua responsabilità non sarà morale, bensì scientifica: lo si potrà cioè accusare sul piano della perizia professionale, non su quello etico.
Quarto punto: va stigmatizzato il medico che non intende prescrivere il Norlevo? Perché dovrebbe esserlo? Sul piano scientifico, egli opera una scelta in prima battuta “medica”, nella serena coscienza che il rifiuto di un anticoncezionale di emergenza (peraltro facilmente procurabile per altre vie, come appunto è avvenuto nel caso di Pisa) molto, ma molto difficilmente può produrre un danno alla salute di una donna. Non si ha alcun diritto, una volta riconosciuto che la decisione del medico è per l’appunto specificamente “medica”, procedere a valutazioni “etiche” nei suoi confronti.
Quinto punto: l’obiezione di coscienza all’aborto è (come ogni altra autentica obiezione) cosa molto seria, che da troppo tempo i laicisti banalizzano e avviliscono e contro la quale è chiaramente in atto un’aggressione mediatica.
Non confondiamo il semplice rifiuto di prescrivere una pillola contraccettiva, in quanto potrebbe in linea di principio avere effetti nocivi sulla salute femminile (e questo è un giudizio medico insindacabile!), con l’obiezione di coscienza, che non è in prima battuta un problema medico, ma un problema morale. E smettiamola di indicare quei medici cattolici che si proclamano obiettori come i primi responsabili di alcune difficoltà che concernono la pratica dell’aborto legale.
Facendo obiezione, i medici (non solo quelli cattolici!) difendono l’onore ippocratico della loro professione. Difendono paradossalmente l’onore anche di quei medici che non sono obiettori: fino a quando, infatti, sarà possibile obiettare, si avrà la testimonianza che il primo dovere di un medico è quello di lottare per la vita.