Pierdomenico Perata, rettore della Sant’Anna di Pisa, smonta tutte le leggende sugli organismi “giornalisticamente modificati”. Ma ammette: «Purtroppo in questo campo chi fa disinformazione è più abile di chi informa»
Emmanuele Michela
Si potrebbe parlare di Ogm partendo da Eric-Gilles Séralini, il ricercatore francese che nel novembre 2012 aveva dimostrato che un certo mais transgenico induceva tumori, salvo poi essere scaricato dalla Food and Chemical Toxicology, rivista che a inizio dicembre ha ritirato lo studio in oggetto per evidenti lacune metodologiche. Oppure, si potrebbe ricordare la posizione statuaria dell’Italia di fronte alle biotecnologie, che sul nostro territorio non possono essere usate per coltivare.
O ancora, si potrebbe guardare all’Expo 2015, evento che verterà attorno alla nutrizione del mondo, tema che però gli ambientalisti vorrebbero ridurre solo al biologico e alle pratiche agricole minimaliste, escludendo gli sviluppi più freschi del settore agroalimentare. Tutte tematiche che lasciano intendere quanto sia urgente un dibattito non ideologizzato sull’argomento: «Ma purtroppo chi fa disinformazione in questo campo è più abile di chi invece fa informazione».
C’è fastidio e rassegnazione nelle parole di Pierdomenico Perata, docente ordinario di Fisiologia vegetale e ricercatore nel settore delle biotecnologie, e dalla scorsa primavera rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (ha preso il posto di Maria Chiara Carrozza, diventata ministro dell’Istruzione).
Sorride al ricordo di quel soprannome con cui la scienza motteggia l’atteggiamento molto scoopistico con cui i media guardano agli Ogm: organismi giornalisticamente modificati. Nel clima di sospetto che verte attorno ai cibi transgenici la stampa ha giocato un ruolo chiave, e a Tempi Perata cerca di fare luce sui tanti limiti e pericoli addebitati a questo genere di colture. «Ai giornalisti piace inventare titoli a effetto. E così nascono anche leggende che non esistono, come la “fragola-pesce”, o la storia che i semi Ogm sarebbero sterili».
Eppure, tra ricercatori, scienziati e biotecnologi il fronte sembra compatto nel guardare con favore agli Ogm.
Tutte le accademie scientifiche nazionali hanno preso posizione: non esiste un problema Ogm a livello scientifico. Ormai non sono considerati una minaccia per la salute delle persone o dell’ambiente, su questo proprio non c’è più dibattito. Può starci invece la considerazione che a ciò debba fare seguito una liberalizzazione del commercio di questi prodotti, ma non si capisce perché la politica deve offrire pseudo-ragioni scientifiche per supportare la propria obiezione agli Ogm, e non possa usare invece argomentazioni politiche. È scorretto trasmettere un’immagine di pericolo all’opinione pubblica per giustificare queste scelte politiche. Forse a livello economico non conviene aprire agli Ogm, o forse sì, però sta qui il punto del dibattito.
A fine novembre sul Corriere della Sera gli accademici dei Lincei lanciavano l’allarme: il no italiano agli Ogm mette in pericolo l’economia italiana.
Sì, e il primo danno è per gli agricoltori: molti, specie nel nord Italia, dicono che coltivare Ogm sarebbe un grande vantaggio per loro. D’altronde, c’è un motivo per cui alcuni organismi geneticamente modificati, penso al mais Bt o alla soia, hanno avuto un enorme successo a livello planetario. Non vengono attaccati dagli insetti, consentono pratiche agricole più agevoli. Impedire ai nostri agricoltori di sfruttare queste tecnologie significa metterli in una posizione di inferiorità competitiva rispetto a quelli degli altri paesi. Il fatto che la soia è comunque necessaria per l’alimentazione del bestiame, innesta un corto circuito: in Italia non coltiviamo quella transgenica, ma alla fine la importiamo per darla ai nostri maiali. È abbastanza stupido. Preoccupanti sono poi le previsioni sul lungo periodo.
In che senso?
La ricerca biotech in Italia è ormai inesistente, non è più finanziata. Il nostro paese ha ancora delle competenze residuali rimaste dall’ultimo decennio, ma nell’arco di 10-20 anni perderemo tutto e saremo totalmente inermi di fronte alle nuove tecnologie transgeniche portate avanti da altre nazioni. Non solo non saremo più in grado di proporle noi italiani, ma non saremo neanche in grado di valutare quelle che ci verranno proposte. Non si vuole comprendere che il progresso di questo settore è talmente veloce che nell’arco di uno o due decenni avremo tecnologie di modifica delle piante totalmente diverse da quelle odierne: il nostro paese non avrà altra scelta se non adottarle. Da acquirente però, non da venditore.
Parliamo dello studio di Séralini ritirato dalla rivista Food and Chemical Toxicology. Come spiega questo stop?
La storia della pubblicazione di Séralini è un pasticcio combinato in prevalenza dalla rivista. È abbastanza inusuale che un articolo venga ritirato su basi che avrebbero giustificato una non accettazione dello stesso all’origine. Spesso è stato criticato proprio sul piano metodologico, la retraction di oggi sembra un goffo tentativo per rimediare all’errore precedente. Vorrei poi ricordare una cosa: ciò che scrive un ricercatore su una rivista scientifica non rappresenta la verità, ma rappresenta un punto di vista basato più o meno su risultati scientifici.
Ciò che conta è l’opinione che la comunità scientifica ha di quei risultati, e la verifica degli stessi col tempo. Un lavoro come quello di Séralini ha richiesto anni, per cui servirà tempo perché ricercatori indipendenti lo verifichino. Rimandando quindi il giudizio su questo studio, ciò che risulta bizzarro è che un singolo lavoro è riuscito a determinare posizioni politiche sugli Ogm. A differenza di altri temi come il cambiamento climatico, sulle colture transgeniche la politica decide in base all’opinione del 5 per cento dei ricercatori, ignorando i migliaia di articoli che invece mostrano quanto innocue siano queste coltivazioni.
Per quanto riguarda l’Expo, come giudica questa paura nei confronti degli organismi geneticamente modificati? Teme che questo possa ritardare gli investimenti di espositori stranieri?
Non lo so, non sono convinto che l’Expo avrebbe avuto dalle multinazionali del transgenico delle iniezioni di liquidità così consistenti. Si può credere a un contrasto dell’Europa (non solo dell’Italia) agli Ogm anche a causa dell’origine di queste tecnologie, prevalentemente americane. Come se ci fosse un protezionismo, magari anche giustificato: siccome gli Ogm sono nelle mani delle multinazionali americane, perché dovremmo dargli spazio?
È anche vero, però, che l’Europa fin qui ha giocato malissimo: vi sono realtà importanti dell’industria tedesca, come la Basf che ha spostato all’estero tutta la sua ricerca biotech. Quindi il nostro continente perde tanto in ricerca quanto in aziende, e da questo punto di vista l’Expo può essere un’occasione per dibattere di colture transgeniche. Purtroppo non so se verrà fatto. Temo invece che ci sarà offerta una visione più bucolica dell’agricoltura, non industriale. Un’agricoltura che esiste solo nella testa degli italiani, quella secondo cui nel secolo scorso si coltivava meglio di oggi, cosa ovviamente non vera.
Ma un evento simile dedicato al cibo può permettersi di chiudere totalmente gli occhi davanti a queste innovazioni?
Il mio timore è che l’Expo diventi un’occasione persa per affrontare uno dei temi principali della nutrizione, ossia la mancanza di cibo in una quota considerevole del mondo. Nei prossimi cinquant’anni la popolazione aumenterà, e con essa la carenza alimentare, specie nei paesi dove già non si è in grado di sfamare la gente. Senza un dibattito su ciò, l’Expo rischia di diventare una vetrina delle eccellenze agroalimentari solo dei paesi ricchi. Non so se sarà così, se lo fosse sarebbe un grave errore.
Ma siamo sicuri che lo sviluppo degli Ogm possa davvero ridurre i problemi di nutrizione nel mondo? In fondo, la fame è dovuta alla povertà, non alla carenza di risorse alimentari.
Nei paesi poveri la fame dipende dal fatto che la produzione agricola non è in grado di soddisfare la richiesta interna, figuriamoci se sono in grado di acquistarne altrove. Ma se la produttività agricola degli stati sviluppati è già al massimo, in quelli poveri c’è una potenzialità enorme, ed è qui che serve l’utilizzo di tutte le tecnologie. Gli Ogm sono incidentalmente la meno costosa: è più facile ed economico sviluppare una pianta resistente agli insetti piuttosto che comprare e distribuire l’antiparassitario.
Per quest’ultimo servono trattori, macchinari e competenza, per gli Ogm basta sapere piantare. Il loro alto costo è legato alle procedure di registrazione: è la burocrazia a renderli onerosi. E bisogna aggiungere che la questione delle sementi è un falso problema: i semi sterili non esistono. Al massimo possiamo dire che qualunque mais coltivato in Italia è ibrido: dai suoi semi si ottiene la segregazione dei diversi caratteri presenti nella pianta, e in questo modo ciò che nascerà sorà diverso da ciò che abbiamo seminato in origine. Ma questo accade con tutti i moderni ibridi, non solo con gli Ogm.
In questo modo, però, se vuole ottenere piante commerciabili, l’agricoltore è obbligato a rivogersi all’azienda da cui ha acquistato le sementi: è la tanto contestata brevettatura dei semi.
Ma l’agricoltore è già vincolato alle aziende. I coltivatori della Pianura Padana comprano i semi dalle multinazionali americane e se vogliono una determinata produttività devono rimanere legati a quell’azienda. Se volessero utilizzare i semi prodotti dalla pianta non ci sarebbero problemi per le multinazionali. E per gli agricoltori? Semplicemente raccoglierebbero prodotti diversi, proprio per la segregazione dei caratteri.
Un altro punto contestato è che queste colture porterebbero alla perdita progressiva delle tipicità di casa nostra.
Sfido chiunque a dire che soia e mais sono prodotti tipici italiani. Sono specie che vengono da altri continenti (America e Asia), non vedo in che modo il mais Ogm può colpire la tipicità italiana. Se andiamo invece su altre colture bisogna fare un discorso a sé. Il pomodoro San Marzano, ad esempio, non lo coltiva più nessuno perché è terribilmente suscettibile ai virus. È stato soppiantato da altre varietà non transgeniche, prodotte da multinazionali non italiane. Attualmente il pomodoro da industria, il perino, non è più San Marzano. Non c’è bisogno di evocare gli Ogm per ipotizzare una perdita di agrobiodiversità, che invece è insita nel concetto di agricoltura: da sempre varietà meno produttive sono sostituite con varietà più produttive.
È possibile che gli Ogm vengano incontro a queste varietà italiane, come accaduto con la papaya delle Hawaii, salvata proprio con colture transgeniche?
Potrebbero sicuramente. Ad esempio, alcuni centri di ricerca della zona di Napoli avevano proprio pensato a un pomodoro San Marzano resistente ai virus, che quindi potesse essere coltivato senza problemi. Ma in Italia non si possono coltivare gli Ogm, e quindi lo studio non ha avuto futuro.
Perché la scienza fa così fatica a comunicare con l’opinione pubblica italiana?
Perché il ricercatore, purtroppo, tende ad adottare nella comunicazione lo stesso rigore metodologico che segue nel fare ricerca. E quindi di fronte alla domanda: «Gli Ogm fanno bene o fanno male?», l’attivista risponde: «Fanno male», lo scienziato inizia a fare dei distinguo, e a quel punto la comunicazione è già persa. E così il timore arriva alla gente, dove c’è un’innegabile paura di quel che si mangia: probabilmente l’uomo è arrivato fino a oggi perché ha sempre avuto paura di cibarsi di ciò che non conosceva. E mentre siamo pronti a comprare un nuovo modello di cellulare perché su queste tecnologie non abbiamo alcuna diffidenza, nei confronti del cibo abbiamo invece migliaia di anni di evoluzione che ci hanno educato a diffidare dei prodotti che non conosciamo.
E gli agricoltori? Come guardano agli Ogm? Da una parte la Coldiretti è sempre rigida nel suo no, dall’altra ci sono coltivatori come Silvano Dalla Libera e gli altri di Futuragra, apertissimi alle innovazioni…
Bisognerebbe chiedere a questi agricoltori cosa coltivano. Se seminano mais è probabile che siano a favore degli Ogm, se coltivano pomodori non gli costa nulla essere contro, dato che non ci sono pomodori geneticamente modificati in commercio. Probabilmente sta anche qui l’origine della posizione della Coldiretti: i loro agricoltori sono coltivatori di mais o no? Oggi in Italia la questione Ogm riguarda mais e soia, nient’altro. Mi chiedo quante di queste posizioni riflettono gli interessi dei propri associati.