Tempi n.26 del 22 giugno 2006
Tifa per terroristi e dittatori, prende lezioni di democrazia in Corea del Nord, ha rinnegato e fatto fuori persino il suo maestro Cossutta. Diliberto, il comunista cagliaritano che sputa sugli eroi della sua patria.
di Alessandro Giuli
C’è già andato vicino quando s’è presentato, pochi giorni fa, avido di flash, alla camera ardente di Alessandro Pibiri, l’ultimo dei nostri abbrustolito dai tagliagole iracheni. Ha pronuncialo le solite sconcezze pacifiste ma è stato fortunato, Diliberto, perché il dolore del lutto ha fatto sì che il fratello di Alessandro, Mauro, ex soldato, si limitasse all’invettiva: «Ma cosa ne sa, ma cosa sta dicendo? Mio fratello laggiù era andato per aiutare gli iracheni, non per fare la guerra».
Gli è andata bene pure quando ha apostrofalo come «mercenario» Fabrizio Quattrocchi, il body guard siciliano rapito e macellalo dai terroristi nell’aprile del 2004. E purtroppo nessuno ha liberato una voce di sconcerto abbastanza forte quando il segretario dei Comunisti italiani ha sfregiato con parole di vergogna quella medaglia alla memoria che l’ex capo di Stato, Carlo Azeglio Ciampi, ha finalmente assegnato a Quattrocchi. Ma cosa ne sa il ricco bibliofilo Diliberto di un inferno mesopotamico scelto per il pregio d’essere generosi e onorare una bandiera? O anche solo per guadagnarsi il salario e mettere su famiglia?
Cosa può saperne di violenza uno come lui, che sostiene di conoscere la violenza attraverso i film di Sergio Leone? Invece eccome se ne sa, il comunista cagliaritano la cui favella tradisce sprezzatura sanguinolenta (perfino per i quasi consanguinei abitanti di Sassari, derubricati come barbari della Corsica).
Il fatto è che ha studialo per decenni la difficile arte della dissimulazione moscovita. Sicché si manifesta con rasature impeccabili, scarpe lucide, il toscano spento per non infastidire le signore, l’aura del collezionista di libri che di volumi ne ha compulsati a centinaia (è ordinario di Diritto romano), gli occhiali leggeri su un volto da roditore inurbato (con un complesso da ultimo sopraggiunto però: «Non potrei vivere se non in una città. E una forma di stress adrenalinico»).
Oliviero è talmente presentabile che discetta di vini emozionandosi per il Turriga cagliaritano «prodotto dal matrimonio del vitigno tradizionale Cannonau con il Sangiovese di Montalcino» (120 euro a boltiglia).
II gusto di ammazzarsi a vicenda
II suo eloquio è sempre scorrevole ed è una fortuna per quando va in televisione. Per nostra fortuna l’abilità nel costruirsi immagini credibili è sovrastata dalla vanità, una forma d’irresistibile autocompiacimento che lo porta a svelarsi per ciò che è. Un uomo di odi profondi e quasi ossessionato dal sangue. Uno che disprezza e respira nella metafora o nella pratica dell’eliminazione.
Bisognava rendersene conto fin dal 1998, se non prima, quando da ministro di Grazia e Giustizia si vantava con un periodico femminile: «Quello d’ammazzarsi reciprocamente è un gusto dei comunisti». Chissà se Armando Cossutta, maestro rinnegato e pensionato di fresco da Oliviero, avrà richiamato alla mente questa frase che suonava allora come un presagio. Del resto quando un discepolo è pronto lo è anche il maestro.
Certamente Cossutta avrebbe capito le intenzioni del materiale umano che stava covando se avesse meditalo su un altro vezzo dilibertiano: scuoiare e arrostire capretti morti: «E’ una delle esperienze più belle che possano capitare. Mia moglie lo tira per le zampe e io zac, elimino le viscere e poi lo scuoio, piano piano, un’operazione che va fatta senza fretta, da soli».
Praticamente senza testimoni, dice il comunista cui le prime sue vittime umane, ai tempi in cui dirigeva Liberazione (e aveva già fatto fuori Garavini), affidarono il “lieve” soprannome di Dili-Beria per richiamarne la comunanza sostanziale con il capo della polizia sovietica Lavrentij Berija. Vicenda nemmeno tanto antica, quella, durante la quale il roditore rosso già giovane comunista a 17 anni (nel 1974), oggi autoproclamatosi orfano di Mao Tse Tung (ma si consola godendo sfacciatamente in pubblico del Mao tatuato sul bicipite di Mike Tyson), trovò il modo di andare a prendere lezioni di totalitarismo asiatico in Corea del Nord.
Gli omaggi a Hezbollah e Castro
Eccolo, in poche immagini, l’uomo Diliberto, il ministro che di fronte al sottosegretario alla Difesa Marco Minniti intento a recuperare la scrivania di Italo Balbo (1996). s’intestardì per raccattare dagli scantinati di via Arenula la scrivania di Palmiro Togliatti, e poi lisciarsela e farne «fonte costante d’ispirazione».
Oggi Oliviero Diliberto è tornato a governare le leve politiche dell’Italia, e se non lo fa tra i ministri prodiani è soltanto per avere le mani più libere. Cosa c’è nelle mani dell’onorevole Diliberto? Forse la stessa passione per la libertà e la vita umana contenuta dalle dita più rozze (ma cosa cambia?) degli Hezbollah libanesi o dei castristi salutati a Cuba in alcuni dei suoi viaggi lungo la ragnatela della tirannide.
Il che non gli ha impedito di commentare così l’incontro tra Silvio Berlusconi e George W. Bush durante la recente visita dell’allora premier italiano al Congresso degli Stati Uniti: «È uno schifo, è raccapricciante. Sono andati a stringersi mani grondanti di sangue». Visto il quasi silenzio con il quale, nei giorni scorsi, ha seguito l’incontro tra Massimo D’Alema e Condoleezza Rice, si dovrebbe dedurre che per Diliberto il sangue si raggruma e scompare quando viene accarezzato da chi abbia un passato marxista.
Ma neppure questa certezza gli ha impedito di sbarazzarsi della questione irachena con la consueta eleganza: «II governo di AI-Maliki può farcela da solo?». «In tutta franchezza, e un problema che non mi pongo. In Irak c’è un governo, se la veda da solo».
L’avanguardia della mezzaluna
Attentissimo a prendere le misure della fuga imposta ai militari italiani impegnati nelle missioni di soccorso internazionale, l’onorevole Diliberto è come se irradiasse una forma antica d’impazienza per gli affari interni del nostro paese. Finché la Corea del Nord e la Cina non galopperanno verso Occidente per rinnovare i fasti della barbarie asiatica, il comunista nostrano cercherà di non rendere vana l’attesa.
Come? Battendosi affinchè la fiacca Italia si spalanchi all’irruzione cieca dei cosiddetti “migranti”; lottando perché sia chiaro a ognuno che la proprietà privata è un furto e chi produce ricchezza è un semidelinquente; insinuando nelle feritoie delle comunità nazionali il dubbio che la famiglia tradizionale sia un’offesa ai “nuovi diritti” di cui si fanno interpreti i gay; spendendosi perché il paese diventi un avamposto dell’ideologia faustiana applicata al germoglio della vita chiamato embrione.
Questa volta Diliberto può farcela perché il governo di Romano Prodi è un concentrato di debolezze egemonizzate dagli unici due residuati novecenteschi dotati d’identità forte: i radicali, che hanno rinunciato alla difesa delle libertà pur di suonare l’orchestra dei nuovi demoni tecnoscientifici; e i comunisti con la grisaglia, volto presentabile degli aspiranti nuovi padroni che, dall’Asia e dalla Mezzaluna, aspettano soltanto l’ora giusta per venire qui a vendemmiare.