LA STORIA Mamma Donatella ci racconta la vita del giovane, dalle difficoltà dell’infanzia fino all’impiego nel Comune di Pisa
di Andrea Bartelloni
Ma io che centro? Perché lock down?». Una domanda che Matteo si è posto nel marzo scorso quando la pandemia ci chiuse tutti in casa e questa parola veniva ripetuta quasi ossessivamente. Matteo è nato con la sindrome di Down, è adulto, scherza e, a volte, ironizza sulla sua condizione. Sua mamma, Donatella Agostinelli Del Rosso lo tranquillizzò subito: nessuno ce l’aveva con lui.
Da lì nacque la sua voglia di uscire e documentare una città, Pisa, deserta e, approfittando della sua grande passione per la fotografia, scattare delle immagini raccolte poi in un volume su Pisa al tempo del coronavirus intitolato «Con altri occhi» (Dedizioni editore in collaborazione con Donatella Puliga).
Della professoressa Puliga sono le didascalie che accompagnano le immagini che Matteo ha scattato con grande sensibilità e attenzione. La passione per la fotografia gli dà anche la possibilità di lavorare all’Ufficio stampa del Comune e vivere una vita il più possibile normale.
«È sempre stato il nostro unico sforzo – ci dice mamma Donatella – quello di farlo sentire un ragazzo normale». Infatti la scuola, lo sport (nuoto, vela), la fotografia, il lavoro gli consentono una vita con grandi soddisfazioni. Le difficoltà non mancano specialmente quando, crescendo, molti suoi amici, hanno preso altre strade e la situazione attuale è abbastanza pesante.
«Matteo è il nostro terzo figlio, certamente quando è nato abbiamo capito che ci sarebbe stato molto da fare: ma non come per aggiustare un giocattolo rotto, bisognava aiutarlo a superare le sue difficoltà reagendo a un mondo che riteneva come unica soluzione l’isolamento.
Abbiamo incontrato l’Associazione italiana persone down che rispondeva alle nostre aspettative, l’abbiamo costituita a Pisa con altre 6 famiglie (ora sono più di 80) mettendo in comune le nostre esperienze. Abbiamo incontrato medici e terapisti che hanno creduto nelle potenzialità dei nostri figli nonostante le molte difficoltà che si presentavano a causa di una mentalità piuttosto chiusa.
Non siamo genitori speciali, eravamo certi che Dio ci stava aprendo una strada sconosciuta e bellissima, volevamo aiutare Matteo e gli altri bambini come lui a raggiungere una vita quanto più autonoma e serena». Oggi siamo lontani anni luce dagli stereotipi del bambino Down, ma le difficoltà sono state molte: le istituzioni, la stessa medicina non credevano che ci potessero essere possibilità di crescita e sviluppo verso una condizione di vita come quelle che vediamo oggi.
E se questo è stato possibile si deve anche a famiglie come quella di Matteo che hanno combattuto per ottenere che i loro figli fossero considerati e aiutati a crescere. «L’associazione aiuta i ragazzi a conquistare quell’autonomia che oltre a permettere loro una vita più indipendente migliora la qualità anche per le loro famiglie. Fin da piccoli si insegna loro a prendere un pullman, orientarsi in città, fare la spesa, gestire le cose di ogni giorno, anche il loro tempo libero, poi in futuro anche a vivere fuori dal contesto familiare se lo desiderano.
L’associazione è presente nel percorso scolastico, negli inserimenti lavorativi, nello sport e molto altro. Lì si creano legami di grande amicizia e solidarietà». Il nome Matteo significa «dono di Dio» e così è stato visto dai suoi genitori e dai suoi fratelli più grandi e dai nipoti, un regalo come quelli che si ricevono magari incartati male ma che poi aprendoli sono preziosissimi.
«Matteo ci ha insegnato ad avere misericordia, attenzione e ascolto verso chi è più debole o appare tale! Una volta si chiamavano “infelici”, ma qual è una vita felice? Quella di chi è bello alto giovane e prestante? Vedo tanta banalità intorno a noi!».
Matteo è rimasto molto colpito dalle immagini che ha visto per il giorno della memoria e che hanno suscitato in lui molti interrogativi. «Non so cosa abbia capito di quella tragedia, ma non ho mai avuto il coraggio di dirgli che tra quelle persone che ha visto in film e documentari c’erano anche ragazzi come lui che avevano la sola colpa di essere nati con gli occhi a mandorla! Come posso dirgli che ci sono ancora persone che vittime di una mentalità perversa non hanno diritto di vivere? Come posso parlargli di una società che si crede evoluta e democratica ed è invece pervasa da un’enorme ipocrisia, sepolcri imbiancati che parlano di “vita” e sono dominati da una cultura di morte?».
Le moderne tecniche diagnostiche consentono di poter anticipare ai futuri genitori eventuali malattie genetiche, la Sindrome di Down è la più ricercata con l’indicazione dell’interruzione della gravidanza: una «selezione genetica» come avviene, di fatto, già da molto tempo, ma che in futuro potrà poggiarsi su sistemi apparentemente più sicuri che porteranno anche il nostro paese a raggiungere il traguardo già raggiunto dalla Danimarca: ovvero essere una nazione che non vedrà più nascere dei bambini come Matteo