Il Sabato n. 50 10 Dicembre 1988
Cosa veramente accadde in quell’anno cruciale dell’ultima Guerra? Come si arrivò al drammatico armistizio? Franco Bandini riapre in queste pagine uno scottante capitolo della storia del nostro secolo. Protagonisti: un regime agli sgoccioli, un alleato inglese votato alla distruzione dell’Italia, un antifascismo azionista e un po’ maniacale. Il prezzo: tanto sangue che avrebbe potuto essere risparmiato. Se le cose, in quei mesi, fossero andate in maniera più logica
di Franco Bandini
E’ del tutto impossibile capir qualcosa della complicata tragedia del nostro armistizio del 1943, se prima non si traccia, almeno sommaria, la linea evolutiva del pensiero politico-militare della monarchia, dell’Esercito e della Marina dal 1940, con quel tanto di contraddittorio supporto che potè aggiungersi da una classe dirigente per la verità non solo poco brillante, ma anche non avvezza, sul piano culturale, a fare i conti giusti con le realtà internazionali: limitazione già ben visibile prima del Fascismo, che il Fascismo aveva però aumentato, non foss’altro che per il fatto di essersi trovato a gestire la politica estera italiana in un periodo di forte transizione, ed anzi di sconvolgimento, negli assetti di relazione tra le potenze, nelle nuove ed incredibili possibilità della tecnica, nella stessa difficoltà di assimilare ed immettere in nuovi ordinamenti gli insegnamenti della Prima guerra.
Pochissimi si accorsero, ad esempio, che caduta di schianto l’Austria-Ungheria, e con essa quella ipoteca militare sulle frontiere di nord-est che aveva costituito l’incubo dei nostri nonni, l’Italia era divenuta una Nazione militarmente disoccupata, avendo a che fare, presumibilmente, solo con eserciti balcanici, o, al massimo, con quello francese.
Dal che derivava che una politica mediterranea, o africana, o anche soltanto diretta a ragionevoli soluzioni del problema delle materie prime, avrebbe sempre incontrato una forte resistenza britannica. Questo problema non fu neppure intravisto, e pertanto non ci fu nessuna seria discussione, durante il ventennio, sulla curva evolutiva degli avvenimenti e sugli obiettivi di medio e lungo percorso per i quali si sarebbe dovuto lavorare.
Avremmo potuto «fare una Svizzera» in grande, si sarebbe potuto puntare ad una politica mediterranea di ampio respiro, si sarebbe potuto puntare sulla guerra grossa. Ognuno di questi obiettivi avrebbe comportato mezzi e disposizioni radicalmente diverse, ed orientamenti psicologici ben precisi: in realtà, non ne venne scelto alcuno, per cui il 1939 sorprese l’Italia, da Mussolini fino all’ultimo contadino, in condizioni di estremo disagio mentale. Improponibile l’obiettivo «Svizzera», svanita all’orizzonte una attiva politica mediterranea, improponibile anche la guerra grossa, la qual cosa, del resto, ci accomunava alla generalità dei popoli europei troppo scottati dal fiume di sangue della precedente.
Lo stesso errore del ’15
I fatti parvero aiutarci, parvero assecondare l’indubbia prudenza con la quale ci mettemmo alla finestra, per guardare da che parte tirava il vento. Avevamo fatto così nel 1914, salvo poi piombare a capofitto nella tragedia, nel momento in cui ritenemmo che la guerra stesse per finire. Fu un bell’errore di valutazione, e non c’è dubbio che Vittorio Emanuele III e Mussolini se ne ricordarono col nodo al fazzoletto, nel 1940.
Ma siccome le stesse situazioni, nella Storia, non si presentano mai due volte in modo identico, il 1940 ci riserbò l’entusiasmante trappola della conquista della Norvegia e della caduta della Francia nel giro di sei settimane. La prima operazione poteva significare che l’assioma della potenza navale britannica non era più vero, e l’altra che l’esercito tedesco poteva fare quello che voleva, e con il braccio sinistro.
Per chi non abbia vissuto quei giorni è molto difficile, se non impossibile, comprendere la specialissima folgorazione che istupidì tutti quanti: persino Roosevelt scrisse a Churchill che la cosa più opportuna era riparare la flotta inglese in Canada, tanto l’invasione delle isole gli sembrava certa.
Anche Churchill non era di parere granché diverso; a luglio del 1940 vennero approntati piani per lo sgombero in Canada della famiglia reale, del governo e degli Stati Maggiori, ed un convoglio potentemente scortato portò via dall’Inghilterra tutte le riserve auree, nonché tutte le azioni e titoli dei privati cittadini britannici, i quali seppero di questa rapina statale soltanto nel 1956, e per caso. Perciò ripetemmo l’errore del 1915, benché si debba dire che sia Vittorio Emanuele che Mussolini esitarono a lungo su questo «passo estremo».
Dopodiché la nostra strana guerra venne condotta sul presupposto che noi non avevamo nulla a che vedere coi tedeschi e che, comunque, ci saremmo accontentati di pochissimo, al tavolo della pace. Insomma, volevamo rimanere amici con tutti se appena fosse stato possibile.
Furono mesi, quelli tra il luglio 1940 ed il dicembre, nei quali perdemmo una quantità di occasioni per il semplice desiderio di far ben capire al provvisorio avversario che le nostre intenzioni erano oneste, da bravi ragazzi usi a considerare la guerra, con Clausevitz, come la continuazione della politica con altri mezzi.
Ma gli inglesi, o non avevano ben capito Clausevitz, o avevano troppo ben capito che l’Italia era il provvidenziale Paese capace di regalare loro vittorie molto facili, e di sicuro successo pubblicitario. In più, contavano ovviamente molto sulla Russia, sapevano che Hitler avrebbe prima o poi dovuto regolare i conti con lei, e sapevano che in quel momento il conflitto sarebbe divenuto generale.
Perciò, aiutati potentemente da insperati allucinanti errori italiani, attesero con pazienza che la situazione volgesse a loro favore. Non c’è alcun dubbio che l’Italia perse la «sua» guerra nel dicembre del 1940. La flotta era stata ridotta alla metà a Taranto un mese prima, ed il 4 dicembre mancò poco che dovessimo chiedere un armistizio ai greci, nella più stupida impresa politico-militare nella quale potessimo cacciarci.
Il 9 dicembre, il maresciallo Graziani, «leone di Neghelli», perse un’intera armata, attaccata da un piccolo corpo inglese, il cui obiettivo era soltanto una «ricognizione in forze».
Il golpe di Mussolini
Dall’una e dall’altra tragica situazione ci trassero d’impaccio i tedeschi, con il che la linea di condotta di una guerra parallela scese nella tomba.
Pochi, ancora oggi, si rendono conto che in quel preciso momento l’Italia perdette di fatto la sua autonomia politica e che le prospettive di vittoria apparvero, nello stesso momento, ipotecate da una alleanza che era divenuta una onerosa tutela. In più, non si trattava di un’alleanza qualsiasi, ma di un’alleanza tedesca: e questo poneva innumerevoli problemi, primi fra tutti quelli psicologici.
Anche meno dubbi vi sono sul fatto che nel gennaio 1941 Mussolini effettuò un vero e proprio colpo di Stato. Spedì ai fronti più di 200 tra Consiglieri nazionali, gerarchi, persone scomode, avvicendò generali ed ammiragli per esser libero di compiere la sua prima scelta decisiva, la collaborazione coi tedeschi: gli altri, in difetto di alternative praticabili, lasciarono fare, ma è significativo che il conte Grandi abbia steso proprio in Albania la bozza di quello stesso ordine del giorno che il 25 luglio 1943 determinò la caduta di Mussolini.
La “finta” di Salerno
Benché a questo proposito i documenti siano avarissimi, pare assai probabile che un orientamento «armistiziale» abbia cominciato a germinare nel gruppo di potere italiano attorno al gennaio-febbraio del 1942, in dipendenza della prima controffensiva sovietica sotto le mura di Mosca, e dell’entrata in guerra degli Stati Uniti.
Sui particolari del complicato tableaux mondiale c’era parecchio da discutere, ma semplificando al massimo, la conclusione non poteva essere dubbia: anche a non voler contare i cinesi, da una parte c’erano in ballo un miliardo e mezzo di uomini e donne, dall’altra nemmeno 200 milioni.
I rapporti industriali, economici, di approvvigionamento in materie prime ed anche di semplice ricchezza nazionale, erano ancora peggiori, per cui, alla lunga, e nel più favorevole dei casi, si sarebbe potuti arrivare ad una pace negoziata. Illusione che era costata cara durante la Prima guerra, e che non ebbe neppure il tempo di nascere nella Seconda.
I contatti italiani con gli alleati cominciarono nel luglio 1942, sulla base di un presupposto che le storie di comodo tentano tenacemente di ignorare. Si propose, come condizione per un armistizio, che esso sarebbe stato possibile soltanto dopo uno sbarco nemico su suolo italiano, perché i tedeschi non avrebbero mai accettato una nostra uscita dal conflitto, se non fossimo stati in condizione di ricevere subito potenti aiuti dai nostri interlocutori.
Ma questi aiuti non potevano arrivare dal di là del mare, ad un colpo di campanello: occorreva che il nemico-amico si trovasse già su suolo nazionale. Dunque, era necessario uno sbarco preliminare. Per molto tempo, si è fatto finta di credere che tale sbarco «contrattato» sia stato quello di Salerno.
Ma la verità è molto diversa: esso fu quello di Sicilia, del 10 luglio 1943, operazione alla quale gli americani si rassegnarono con grande riluttanza, e soltanto perché ricevettero dai cugini inglesi la «assoluta garanzia» che questo avrebbe provocato la caduta di Mussolini, e la resa dell’Italia.
E difatti, proprio questo accadde: quindici giorni dopo lo sbarco, il cavalier Benito Mussolini venne sostituito da Pietro Badoglio. Ora, i presupposti per un armistizio si erano «quasi» realizzati. Quasi. Perché, nel frattempo, le condizioni generali erano mutate grandemente, e sfavorevolmente per noi. Stalingrado aveva segnato nel gennaio un «punto di non ritorno» per la Wehrmacht, ed in aprile gli alleati avevano definitivamente vinto la battaglia dell’Atlantico contro i «branchi di lupi» di Doenitz.
L’Africa del Nord era caduta in mano alleata, e i giapponesi avevano superato da un pezzo la curva ascendente della loro guerra, disperata e sfortunata. Tutto sommato, il vecchio progetto di chiamare inglesi ed americani sul suolo italiano, per poter trasbordare senza troppi danni nelle loro braccia, era stato un grosso errore di valutazione: ora, bisognava pagarlo.
Era un frangente di rara difficoltà, e l’unico punto a favore era che Mussolini si era tirato da parte con buona grazia, persino mettendosi a disposizione del nuovo governo. La Nazione era ancora compatta e disciplinata, benché le ultime speranze di vittoria, e persino di un accomodamento si fossero dileguate da tempo.
I proconsoli di Hitler
I tedeschi sembravano incerti, comunque troppo occupati dai loro grandi guai in Russia per poter impedire con forze sufficienti il nostro cambio di fronte. C’era anche il briciolo di fortuna rappresentato da una specie di «ritiro spirituale» di Hitler; per la prima volta dall’inizio della guerra, si era assentato dalla direzione delle operazioni, e ne aveva lasciata la cura ai suoi generali.
Contro il suo parere, che era quello di attendere l’offensiva estiva sovietica, essi ottennero di scatenare un «attacco guastatore» contro il saliente di Kursk, dove perì il più ed il meglio della forza corazzata, tra il 4 e il 12 luglio 1943. E’ probabile che la decisione di defenestrare Mussolini sia stata presa, a Roma, proprio sulla base dell’idea che alla Wehrmacht fossero venute a mancare riserve strategiche abbastanza grandi da opporsi davvero al nostro «salto della rana».
Ci furono anche altri vantaggi, ed abbiamo la prova che il nostro Stato Maggiore se ne accorse e tentò di sfruttarli. Infatti, Hitler aveva affidato l’Italia a due proconsoli, che nutrivano idee diverse sul come risolvere la situazione. Al Nord, Rommel riteneva che si sarebbe potuta tenere, in caso di defezione dell’Italia, al massimo la linea degli Appennini.
Al Sud, Kesselring pensava che con un po’ di fortuna si sarebbe potuti rimanere anche nel Meridione, salvo ritirarsene combattendo se le circostanze si fossero rivelate troppo sfavorevoli. I vasti movimenti di grosse unità militari attuati da Badoglio ed Ambrosio dopo il colpo di Stato, dimostrano che lo Stato Maggiore contava seriamente sulla possibilità di mantenere il controllo sul territorio dalla Toscana in giù.
Silenzi ed equivoci.
Tuttavia, nonostante questi piccoli vantaggi, ed al contrario di quanto per solito si sostiene, le propensioni della Monarchia e delle Forze armate per un armistizio erano considerevolmente diminuite, dopo la defenestrazione di Mussolini, poiché la partita passiva appariva sempre meno accettabile.
Avevamo 34 divisioni in Balcania e 4 in Francia, ancora altre in Corsica e Sardegna: nessuna di queste unità avrebbe potuto essere recuperata, e questa perdita secca avrebbe, tra l’altro, diminuito fin quasi a zero il valore di quella cobelligeranza che era stata messa come condizione fin dai primi abboccamenti del 1942 con gli alleati.
Ma a pesare di più furono due altri fattori, dei quali oggi si preferisce non parlare, l’indifferenza assoluta degli alleati, prima di ogni altra quella inglese, e il tassativo rifiuto delle forze antifasciste a collaborare per la risoluzione al meglio della gravissima crisi.
In quei terribili 45 giorni parve quasi che fosse più importante distillare avvocatesche norme sui «profitti di regime», o preoccuparsi del dilemma Repubblica o Monarchia, che dare una mano disinteressata e generosa per il salvataggio non solo della Nazione, ma anche della sua immagine futura, del suo prestigio, infine a gestire con capacità politica situazioni che non erano affatto nuove, per nessuna altra Nazione, sul piano della Storia.
Sul silenzio inglese grava uno straordinario equivoco, nato dalla generale convinzione che le trattative di armistizio siano state una conseguenza del colpo di Stato, mentre ne furono la condizione. In realtà, giuste o sbagliate, le segrete intese duravano da un anno, e dunque non c’era alcuna ragione per non dar loro, da parte britannica, un’esecuzione immediata.
Purtroppo, e qui si nasconde uno dei misteri più fitti di quella straziante vicenda, dall’altra parte della barricata stava Sir Anthony Eden, un uomo che aveva concepito e continuava a nutrire un vero e proprio odio «viscerale» per tutto ciò che fosse italiano.
Lo studio dei documenti del Foreign Office dal 1941 al 1943, porta a conclusioni terrificanti in Eden, e per ragioni ancora oggi sconosciute, noi trovammo «fra tutti i nemici il nemicissimo», animato da una così intensa e caparbia determinazione nel volere la distruzione morale, ed anche materiale dell’Italia, da sopravanzare e battere anche la più duttile ed umana linea di Churchill.
Avversario durissimo finché era necessario, ma disposto a «servirsi del diavolo e di sua nonna» quando questa necessità veniva meno. Conseguenza diretta della aridità mentale e della corta vista edeniana, fu il gigantic bluff di Salerno, un’operazione che venne decisa soltanto nell’ultima decade dell’agosto 1943, impiegando forze insufficienti, quasi vergini di esperienza bellica, e di morale molto basso.
Pochi sanno che una parte rilevante di tre o quattro reggimenti inglesi si ammutinò sulle tormentate spiagge salernitane e rifiutò di salire in linea: con un successivo processo militare a Costantina, e 161 condanne. L’unico scopo dell’operazione fu in realtà quello di intrappolare noi italiani, forzandoci a fare quello che, a carte scoperte, non avremmo mai fatto, o avremmo fatto in altro modo e tempo.
L’errore britannico
A quasi mezzo secolo di distanza, con animo ormai placato, è giusto dire oggi che si trattò di un gioco spregevole, ed anche miope. Una buona parte dell’assetto europeo postbellico ne risultò condizionato gravemente senza alcun vantaggio né per l’Inghilterra, né per l’Europa e tantomeno per noi italiani.
E ben vero che il trasformare l’Italia in un campo di battaglia lentamente rotolante verso Nord servì ad attrarre forze tedesche, che poi mancarono nel 1944 sul fronte dei grandi sbarchi di Normandia. Ma queste forze vennero a mancare anche sul fronte russo, con effetti complessivi perniciosi su tutto l’Oriente europeo, ancor oggi gravato gratuitamente da pesi politici che ci paiono trascurabili solo perché riguardano altri popoli.
La Storia di domani ci spiegherà un po’ meglio, forse, quale fu la ragione vera per la quale gli inglesi perseguirono in Italia fini per noi così nefasti, ed in ultima analisi anche nocivi per loro stessi. Forse vollero punire in noi una Nazione che non aveva accettato un concetto di «sovranità limitata» avanti lettera.
«Purificare con il sangue»
Forse fecero un semplice errore passionale, e forse, fu il loro temperamento isolano a consigliarli di non curarsi troppo di guai continentali, a favore di un prolungamento della propria autonomia. Forse, però, l’errore fu più profondo ancora: cioè quello di confondere tra fascismo e popolo italiano, quasi si trattasse di una inscindibile unità.
E questo era vero e non vero nello stesso tempo, perché il popolo italiano è senza dubbio di singolarissima natura, di antichissima esperienza politica, e di una capacità di sopravvivenza unitaria senza rivali. Se questo fu l’errore, bisogna dire che esso fu enormemente facilitato dall’antifascismo militante, rimasto ancorato, salvo rarissime eccezioni, all’idea che occorresse «liberare» gli italiani da una mala bestia che poteva essere asportata come una verruca.
Senza mai comprendere che questa visione un po’ paranoica della realtà, non era certo quella dei provvisori alleati, i cui fini erano ben diversi, spregiudicati e duri di quel che si prestava loro. Nel rifiutare la corresponsabilità della liquidazione della guerra «fascista», gli antifascisti commisero un errore probabilmente fatale, a loro stessi prima ancora che all’Italia. E pazienza non avessero collaborato.
In realtà, inseguendo con fissità maniacale la loro vecchia ossessione del «bagno di sangue purificatore», della «Repubblica dura e pura», e dei «quattrocentomila italiani da fucilare» di Concetto Marchesi, furono i primi a non distinguere tra fascismo e popolo, e ad insinuare nell’animo degli alleati che nulla di buono poteva provenire dagli italiani rimasti in Italia, che erano o fascisti, o cripto-fascisti, o simpatizzanti, o, nel migliore dei casi, malfidi.
Scottati dal fatto che fosse stato possibile eliminare Mussolini ed il fascismo con un paio di Regi Decreti, ancor più scottati che la mala bestia, per mano stessa del dittatore, si fosse dichiarata disposta a collaborare col nuovo governo, gli antifascisti non tennero in alcun conto gli interessi permanenti dell’Italia, che eran quelli di uscire da una guerra infelice col minor danno possibile, e puntarono diritto non solo al sabotaggio — bisogna dirlo — della credibilità della monarchia e del Governo Badoglio, ma anche alla pessima idea di maggiori pressioni per accelerarne le cautelose esitazioni.
«Pace subito, a qualunque costo» fu il loro grido di battaglia: ma le dimensioni di questo costo non vennero mai preventivate allora, né contabilizzate poi. Le colpe fittizie e marginali di quello spaventoso settembre furono addebitate a quattro o cinque generali, alla mancanza di ordini, alla vigliaccheria di questo o di quello: imbastendo processi vergognosi, col primo dei quali mancò un pelo non si spedisse al muro Vincenzo Azzolini, governatore della Banca d’Italia, reo di aver consegnato le riserve auree ai carri armati del colonnello Kappler.
Serenità storica vuole che sulla bilancia vengano messe le colpe di tutti, monarchia, Badoglio, le Forze armate, la diplomazia e, prima di ogni altra, la sequela di errori, alcuni dei quali, del resto, inevitabili, commessi dal fascismo. Ma con la stessa serenità occorre dire che quand’anche un diverso atteggiamento dell’antifascismo non avesse spostato di un millimetro la curva degli avvenimenti, rimane pur sempre da valutare, censurare ed infine accettare, come parte d’un tutto, la sua indubbia taciuta percentuale d’errore, ed il suo scarso titolo a rappresentare davvero gli interessi permanenti di quell’infelice, saggio e straordinario Paese che è l’Italia.
Un errore che nasceva di lontano, dalla inconcludenza, vacuità ed anche cinismo delle classi politiche prefasciste, dall’incapacità dell’antifascismo tra le due guerre di rappresentare agli occhi degli italiani un’alternativa persuasiva, ed infine da quell’oltranzismo mentale che è il più fulminante veleno per una politica delle cose reali. Asciuttamente, una volta Benedetto Croce disse a certi uomini di un certo Partito, «Vi manca un pensiero»: giudizio, ed epitaffio.