In Terris Giovedì 24 maggio 2018
Daniel Mattson racconta il suo incontro con la fede e l’impegno nell’apostolato Courage
di Andrea Acali
La castità è una proposta realmente praticabile per chi ha tendenze omosessuali? E cosa si può fare per aiutare queste persone? Il dibattito, dentro e fuori la Chiesa cattolica, è sempre molto vivace e le soluzioni proposte a volte fanno discutere. Daniel Mattson, musicista americano, il più piccolo di quattro fratelli (uno dei quali è poi diventato sacerdote) è un omosessuale che in questi giorni si trova in Italia per presentare il suo libro “Perché non mi definisco gay” in cui racconta la sua storia.
Una vicenda che parte dalla scoperta della sua attrazione per persone dello stesso sesso ad appena 6 anni, passa attraverso il bullismo dei compagni di scuola, le inquietudini legate anche alla sua fede (la famiglia, inizialmente cattolica, era diventata protestante, prima di tornare al cattolicesimo) e la dipendenza dalla pornografia, arriva fino alle esperienze omosessuali, “un frutto proibito che è risultato vuoto e amaro, perché la felicità non sta nel cogliere il frutto proibito.
Mi ha rubato la dignità”. Infine, la scoperta dell’amore di Dio e la comprensione che solo in questo amore si trova la vera felicità, grazie all’ascolto di un’omelia del cardinale Sean O’Malley, l’arcivescovo di Boston. Un percorso favorito dall’incontro con Courage, un apostolato cattolico nato nel 1980 su iniziativa dell’arcivescovo di New York, cardinale Terence Cooke, che fu un precursore dell’attenzione pastorale per le persone omosessuali, in un contesto, quello della Grande Mela, in cui la rivoluzione sessuale scoppiata alla fine degli anni ’60 aveva raggiunto limiti intollerabili e che si preparava ad affrontare la pandemia di Aids.
Il motivo per cui Mattson non si vuole definire gay è che non è oggettivamente vero: “Focalizzarsi sui sentimenti porta le persone lontano dalla loro realtà di figli di Dio nati maschi e femmine”. Non ci si può basare sui sentimenti, perché altrimenti, spiega, per esempio passeremmo con il semaforo rosso solo perché ce lo “sentiamo”.
Il 17 maggio scorso è stata celebrata la Giornata internazionale contro l’omofobia e In Terris ha incontrato Mattson in occasione della sua conferenza presso l’Università della S. Croce; l’autore ha risposto ad alcune domande scegliendo di condividere la propria esperienza personale.
Uno dei grandi problemi delle persone omosessuali è il rapporto con la propria famiglia. Quali sono stati i suoi?
“Grazie a Dio sono stati sempre positivi. Quando stavo combattendo con la mia sessualita non volevo stare con loro ma nei periodi in cui ho avuto i maggiori problemi relativamente alle mie tendenze sessuali mi hanno sempre sostenuto e hanno mantenuto un atteggiamento amorevole nei miei confronti. Sapevo che non avrebbero appoggiato il mio comportamento, la mia decisione di vivere con un altro uomo e quindi non li ho messi di fronte a questa situazione che mi ha coinvolto per circa un anno. Ma ogni volta che le mie relazioni si sono interrotte e mi hanno causato sofferenza, la mia famiglia era sempre lì a sostenermi, mi è stata vicina e ora abbiamo un rapporto meraviglioso, sono grato a Dio che ci siamo pienamente riconciliati. La separazione era dovuta più alla mia rabbia”.
Cioè?
“Ero arrabbiato con Dio. All’inizio pensavo che lui mi avrebbe risolto i problemi, mi avrebbe tolto quell’attrazione verso gli uomini, che mi sarei fatto una famiglia, poi ho visto che invece non era così e me la sono presa con lui. Ogni volta che passavo davanti alla chiesa della mia città volevo mandarlo… E’ successo anche quando è finita la mia relazione con Jason (l’uomo con cui ha vissuto per un anno, ndr). Ed è finita perché mi sentivo finalmente attratto da una donna. Volevo una famiglia, dei figli. E invece lei, Kelly, non voleva avere bambini. La nostra storia è terminata per questo e per me è stata un’altra delusione enorme. Ma da lì ho capito che il disegno di Dio per me era un altro, che mi ama così come sono ma che la vera felicità posso trovarla solo rispettando la sua volontà, vivendo una vita casta”.
Dunque è possibile per una persona omosessuale vivere la castità come dice la Chiesa? E come spiegarlo a chi fatica a comprendere che questo è l’atteggiamento giusto?
“Oggi le persone non credono che sia possibile vivere una vita senza sesso ed essere felici. Ma quando arriviamo a comprendere l’effettivo progetto, la funzione della sessualità umana, la finalità iscritta da Dio nella sessualità umana, ci rendiamo conto che praticare l’attività sessuale, che deve essere aperta alla vita, al di fuori del matrimonio, ci conduce lontano dalla nostra felicità. E’ molto difficile da comunicare questa verità nel mondo odierno, e non è una vita facile da vivere ma questo è l’insegnamento della Chiesa che invita a prendere la propria croce e a seguire Gesù e dal punto di vista della croce di Cristo, comprendiamo come il nostro sacrificio può essere la via per la felicità, la speranza e la vera libertà”.
Pensa che la Chiesa stia facendo abbastanza per la comprensione delle persone omosessuali o che si sentano ancora troppo spesso giudicati?
“Ritengo che siano due questioni distinte, quella dell’accoglienza per persone che hanno attrazioni omosessuali e quello dell’atteggiamento di giudizio nei loro confronti. Per quanto riguarda la cura pastorale penso che la Chiesa debba fare di più. La dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede del 1986 sulla cura pastorale delle persone omosessuali dovrebbe essere la guida di questa accoglienza. Lì è detto chiaramente che solo la verità può essere effettivamente pastorale, e la verità oggettiva è che siamo maschi e femmine. Penso che la Chiesa dovrebbe sostenere di più le atttività dell’apostolato Courage perché è guidato dalla pienezza dell’insegnamento della Chiesa. Per la seconda questione, invece, non ritengo che nei miei confronti la Chiesa abbia assunto un atteggiamento di giudizio. La Chiesa riconosce la bellezza di chi sono in quanto creatura di Dio e saggiamente fa una distinzione tra quei comportamenti che sono buoni per me e quelli che non lo sono. E questo mi sembra un giudizio giusto e saggio”.
Spesso le persone omosessuali lamentano una grande solitudine. Cosa possono fare concretamente i sacerdoti per aiutarle?
“Ritengo che la solitudine sia qualcosa che riguarda tutte le persone a un certo punto della loro vita, penso agli anziani, ai single, ai divorziati. Penso che la Chiesa potrebbe favorire l’aggregazione di tutti coloro che si sentono soli, inclusi gli omosessuali, e uno degli obiettivi di Courage è proprio quello di costituire relazioni di amicizia sane. La Chiesa dovrebbe rivendicare ad alta voce la bellezza dell’amicizia cristiana. Il catechismo dice che la castità fiorisce nell’amicizia. Sulla solitudine posso portare la mia testimonianza personale e vorrei citare la preghiera semplice di S. Francesco là dove dice ‘cerco di consolare piuttosto che essere consolato’. La solitudine che ho sperimentato è diventata un dono che mi consente di andare incontro ad altre persone che soffrono di solitudine e in questo modo la mia solitudine svanisce”.