Alfredo Mantovano
La legge 194, che dal 1978 disciplina in Italia l’aborto “legale” è ipocrita. La pillola RU 486, che da circa 15 anni si vuole introdurre nel nostro Paese, dà oggi l’occasione per comprendere se tale ipocrisia può essere sciolta. Motivo le due affermazioni.
Lo sconsigliavano le condizioni politiche dell’epoca; lo escludeva la necessità di convincere i riottosi che era meglio assistere la donna incinta in difficoltà piuttosto che respingerla nell’area della clandestinità; lo impediva una pronuncia della Corte costituzionale che, pur ponendo l’interesse alla vita del concepito in subordine rispetto all’interesse alla salute della donna, comunque non negava l’esistenza del primo. Si è così costruita una legge che:
a) riconduce le cause che inducono una gestante all’aborto (art. 4: “condizioni economiche, sociali e familiari”, “circostanze in cui è avvenuto il concepimento”, “previsioni di anomalie o malformazioni del nascituro”) a un’unica vaga indicazione terapeutica: quelle cause rilevano se provocano un “serio pericolo per la salute fisica o psichica” della donna;
b) impone al consultorio o al medico (art. 5) di espletare una fase di prevenzione/dissuasione dall’aborto, prospettando “le possibili soluzioni dei problemi proposti”, aiutando “a rimuovere le cause” dell’aborto, e promuovendo “ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”;
c) dà facoltà ai consultori (art. 2) di “avvalersi (…) della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”;
d) permette l’ivg (art. 8) solo in una struttura medica, pubblica o – a certe condizioni – privata.
Dov’è l’ipocrisia? Anzitutto in 27 anni (1978-2005) di concreta disapplicazione delle disposizioni di prevenzione / dissuasione. Ma non solo. Anche nella lettera della legge, che (art. 5 co. 3), anche quando il medico e il consultorio non ritengono sussistenti i motivi addotti dalla gestante, sono tenuti a rilasciare il certificato che attesta che la gravidanza è in atto: esso costituisce titolo sufficiente, dopo sette giorni, per abortire.
2. Perchè oggi la RU 486 dà l’occasione per sciogliere questa ipocrisia? Perché impone una scelta alle istituzioni coinvolte nella vicenda: se far prevalere la spinta libertaria che è alla base della 194, ovvero la lettera delle sue disposizioni mai concretamente attuate. Se, come emerge dagli auspici dei laudatores della RU 486, si condivide il primo orientamento, la 194 va però cambiata.
Infatti, la somministrazione della “pillola” andrebbe comunque preceduta (la legge non fa differenza di metodi abortivi) dall’informativa e dal colloquio dissuasivo previsto dall’art. 5; andrebbe assunta in ambiente ospedaliero o paraospedaliero fino al momento della espulsione del nascituro da sopprimere: e questa può realizzarsi anche a distanza di giorni dall’assunzione del “pesticida anti-umano” (così Jerome Lejeune chiamava la RU 486), quindi in un tempo superiore al ricovero previsto per un aborto realizzato con altri sistemi; a chi sostiene che la donna potrebbe andare a casa e rivolgersi al medico nell’ipotesi di complicazioni, è facile obiettare che i tempi di una emorragia non sono sempre compatibili con un ritorno rapido in ospedale, e che qualora per ragioni di urgenza la gestante, in determinate ore della giornata, si imbattesse in ospedale con un obiettore, mai potrebbe costringerlo a intervenire perché si tratterebbe di completare un aborto, e quindi prevarrebbe il diritto del sanitario all’obiezione di coscienza.
Ma in tal caso non trascorrerebbe tempo prezioso prima di trovare un medico disponibile a curarla? Dunque, si tratta di un iter incompatibile con le regole fissata dalla legge del 1978.
Volete la RU 486? Cambiate il totem, cioè la 194, in senso più esplicito e libertario (come volevano fare i Radicali col loro referendum del 1981). Ritenete che la 194 sia intangibile e intoccabile, molto più della Costituzione repubblicana?
Allora rassegnatevi alla materiale impossibilità di adattarne le norme alla RU 486. Eviterei battute sul sadico desiderio di costringere le donne ad “abortire con dolore”: perché intanto le donne non andrebbero illuse con prodotti pieni di controindicazioni (non solo per il fisico), e poi si tratta di capire se le regole valgono solo quando piacciono.
Il ministro della Salute ha avuto il merito di sollevare il problema RU 486, che rischiava di passare nell’indifferenza, e – attraverso la richiesta di sperimentazione – di porre le basi per avere conferma dei danni per la salute della gestante derivanti da quella pillola. Ma non è un solo problema di sperimentazione; va data risposta al quesito: l’aborto è un diritto, che va perseguito con ogni mezzo e – come diceva Totò – a prescindere, o, come hanno sostenuto i relatori alla Camera della 194, è “un male evitabile”?
Non vorrei che si ripetesse, con tutto ciò che vi è di soggettivamente e oggettivamente diverso, l’approccio iniziale della vicenda della scuola islamica di via Quaranta a Milano: pareva che fosse una questione di impianto idraulico e di rispetto dell’igiene, e non di indottrinamento paraterroristico.
All’amico Francesco Storace mi permetto quindi di chiedere, per la parte di sua competenza, di non fermarsi al formale rispetto di una procedura; ma di esigere il formale e sostanziale rispetto dell’intera 194, esortando i consultori al coinvolgimento reale delle “associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”, e verificando altrettanto concretamente se a ogni gestante in difficoltà sono prospettate “le possibili soluzioni dei problemi proposti”, e se viene messo in opera “ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”.
Fedele agli impegni assunti prima del referendum del 12 giugno, non chiedo che si modifichi la 194, pur ritenendola pessima e ipocrita; chiedo che, dopo oltre un quarto di secolo, mi si convinca con gesti concreti che essa ipocrita non è.