Nel “[…] clima di “crisi” che attualmente investe […] le istituzioni pubbliche […] sulle quali la convivenza umana si fonda” (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla prima sessione della Conferenza permanente del Ministero dell’Interno della Repubblica Italiana su La cultura della legalità, dell’8-7-1991, n. 1, in L’Osservatore Romano, 8/9-7-1991), il sesto e ultimo capitolo dell’opera Da representação política, Saraiva, San Paolo 1972, pp. 111-133. La traduzione è redazionale.
Cristianità n. 213-214 (1993)
[“Sulla rappresentanza politica” VII]
José Pedro Galvão de Sousa
La Costituzione inglese e il principio rappresentativo
Dopo aver preso in esame, nei capitoli precedenti, i diversi aspetti della rappresentanza politica – da quello “esistenziale” a quello “trascendente”, per usare il linguaggio di Eric Voegelin -, e dopo aver fatta la distinzione fra istituzioni rappresentative e governo rappresentativo, concentriamoci ora sull’origine e sul significato di queste istituzioni. In questo modo potremo concludere con un parallelo fra il governo rappresentativo tradizionale e i governi rappresentativi moderni
Questi ultimi si sono costituiti in Europa e in America a partire dall’indipendenza degli Stati Uniti e dalla Rivoluzione francese, sotto la marcata influenza dei princìpi che hanno ispirato il movimento rivoluzionario del 1789. Ma la tradizione rappresentativa risale a epoche molto precedenti. Si tratta di un prodotto tipico del Medioevo europeo, che l’ha trasmesso al mondo moderno. È sorta nelle condizioni peculiari all’organizzazione politica della società di ceti di quei tempi. Eclissatasi – come abbiamo visto – nell’epoca delle monarchie assolute, è sopravvissuta in Inghilterra, dove lente trasformazioni hanno dato al sistema rappresentativo il carattere attuale di governo rappresentativo.
Generalmente si indica l’Inghilterra come culla di questo sistema. Perciò Adhémar Esmein, studiando la costituzione inglese come “un elemento della libertà moderna”, fa la storia del principio rappresentativo limitandosi al suo svolgimento nel diritto britannico (1).
Ma non bisogna dimenticare che lo stesso principio era già stato delineato nella Spagna visigotica e che, senza ombra di dubbio, trovò per la prima volta la sua piena realizzazione nei regni della penisola iberica, con la partecipazione dell’elemento popolare nelle assemblee rappresentative.
Il fatto che il prestigio raggiunto dall’Inghilterra nella storia del regime rappresentativo abbia oltrepassato quello di altri popoli, è perfettamente spiegabile, posta la circostanza già indicata: mentre tale regime si debilitava negli altri paesi, continuava a felicemente vigente nell’isola sulla Manica. Subito dopo la conquista normanna, vi abbiamo visto l’unione dell’aristocrazia con il popolo, per impedire il rafforzamento eccessivo del potere regale.
Poiché ha mantenuto il potere nei limiti derivanti dall’influenza esercitata dall’alta nobiltà e dalla gentry – dal canto suo legata alle popolazioni delle città -, l’Inghilterra è riuscita a passare oltre l’assolutismo monarchico, diversamente da quanto accaduto in Francia, dove, unendosi alla classe popolare, il re faceva prevalere la sua autorità sui potenti signori feudali, soggiogati a poco a poco, mentre la monarchia procedeva verso l’assolutismo e verso la centralizzazione.
Questo stato di cose si rifletteva sul sistema rappresentativo, al punto che – com’è stato ricordato nel capitolo precedente – gli Stati Generali, convocati nel 1789, erano a riposo da oltre centosettant’anni, mentre le due Camere del Parlamento inglese conservavano inamovibilmente la loro continuità, dopo essersi assicurate una preponderanza politica a partire dal 1688, anno della cosiddetta Gloriosa Rivoluzione
In Inghilterra, la nobiltà feudale e la classe media si erano unite di fronte al potere regale, elemento di oppressione per entrambe. Ne risultò una progressiva limitazione di questo potere, le cui prerogative vennero a poco a poco ridotte. In Francia, in un modo diverso, esso arrivò a sentirsi sempre più libero dalle limitazioni che ne condizionavano l’azione nei primi tempi, servendosi dell’appoggio della classe media borghese e riuscendo a imporsi in un modo incontrastabile a molti di quei signori feudali, che in altri tempi giungevano a fargli ombra.
Perciò Adhémar Esmein conclude: “L’Inghilterra, dopo la conquista normanna, cominciò a essere monarchia quasi assoluta, e forse per questo si convertì, nel secolo XVII, in monarchia rappresentativa. La Francia feudale cominciò con una regalità quasi completamente impotente, e probabilmente per questo, nel secolo XVII, finì nella monarchia assoluta” (2).
Quando, sul continente europeo, le monarchie entravano nell’età dell’assolutismo, a causa dell’impoverimento e perfino del collasso delle istituzioni rappresentative, queste raggiungevano in Inghilterra un’espressione molto più vigorosa, in una fase di passaggio verso un regime di autentico governo rappresentativo.
Tutto questo ha contribuito a dare a tale paese il prestigio di cui gli autori francesi, dopo Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, sono stati i grandi strumenti. Nato dalla tradizione britannica e poi trasferito su un piano di sistematizzazione dottrinale nella Francia rivoluzionaria, il governo rappresentativo, nelle sue versioni moderne, è frutto di questa doppia origine, l’una empirica e a base storica, l’altra teorica e intrisa di astrattismo.
Ma le istituzioni rappresentative, nelle loro prime modalità, erano fiorite molto prima. Ascoltiamo in proposito quanto ci dice uno degli autori che ha studiato meglio l’argomento.
2. Da Tacito a Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, e a François-Pierre-Guillaume Guizot
Ministro di un governo rappresentativo e storico, François-Pierre-Guillaume Guizot scrisse sulle origini della rappresentanza politica in Europa due volumi, che riassumono tutta la materia delle lezioni tenute in un corso sull’argomento fra il 1820 e il 1822. L’illustre scrittore aveva allora lasciato la vita pubblica, dopo aver contribuito all’instaurazione di del governo rappresentativo in Francia.
Vedendo cadere nell’ostracismo uomini che condividevano la sua prospettiva politica e che si battevano per la causa che aveva servito, cercò di rafforzare, fra i suoi concittadini, la credenza nelle virtù di un regime, nel quale vedeva la protezione delle libertà allora in pericolo.
Si presti attenzione al titolo dell’opera, frutto non soltanto delle convinzioni politiche dell’autore, ma anche della sua propensione per gli studi storici: Histoire des origines du gouvernement représentatif et des institutions politiques de l’Europe depuis le début de l’Empire romain jusqu’au XIVème siècle.
Basta aver presente l’epoca scelta dall’autore per le sue ricerche – per altro, un lungo periodo di nove secoli – per concludere immediatamente che l’opera si interessa delle istituzioni rappresentative, che si sono sviluppate in diversi paesi in questo periodo, e non propriamente del governo rappresentativo.
Se è vero che, nel secondo volume, tutto dedicato all’Inghilterra, analizza istituzioni e avvenimenti politici nei quali si può vedere l’origine remota del governo rappresentativo più tardi istituito in tale paese, di fatto François-Pierre-Guillaume Guizot non va oltre il secolo XV, arrivando fino alla guerra delle Due Rose e al dispotismo dei Tudor, che arrestò la marcia del sistema rappresentativo nel regno insulare, ripresa con forza nel secolo seguente. E l’autore chiude mostrando che la “grande rivoluzione” nello stato della società, sotto Carlo I, “determinò la rivoluzione politica che, dopo centocinquant’anni di lotta, fondò finalmente in Inghilterra il governo rappresentativo” (3).
Questa conclusione di François-Pierre-Guillaume Guizot è decisamente significativa, perché conferma la distinzione fra governo rappresentativo e istituzioni rappresentative. Anche se in Inghilterra tali istituzioni esistevano dal Medioevo e le procedure in uso derivavano dalla regalità sassone, non si può però parlare di governo rappresentativo.
Tutto quanto è stato scritto, da François-Pierre-Guillaume Guizot e da altri storici o giuristi, sulla rappresentanza politica fra i popoli germanici primitivi e nei regni medioevali, riguarda le istituzioni che realizzarono il principio rappresentativo, senza che vi sia stata ancora la definitiva strutturazione di un governo rappresentativo. Indubbiamente Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, esagerava dicendo, nel capitolo VI del libro XI di De l’Esprit des Lois, che le pagine di Tacito sui costumi dei germani ci mostrano da dove gli inglesi hanno tratto l’idea del loro governo. “Ce beau système a été trouvé dans les bois…” era una frase propria dello stile tanto apprezzato dell’importantissimo scrittore, ma che non corrisponde esattamente alla verità storica.
In epoche tanto remote non possiamo trovare un governo rappresentativo nel significato moderno dell’espressione, e neppure un sistema di istituzioni rappresentative perfettamente strutturato. Inoltre, fra i popoli germanici potrebbero essere segnalate tanto procedure di un’incipiente rappresentanza politica, quanto della democrazia diretta, dal momento che le assemblee si esprimevano sugli argomenti comuni ma importanti alla presenza di tutti gli uomini validi (4).
L’organizzazione politica dei popoli dell’antica Germania, descritta da Tacito, superava già i limiti della vita tribale. Ma le assemblee popolari erano lontane dal poter essere paragonate, per esempio, ai comizi organizzati di Grecia o di Roma. Gli uomini presenti si limitavano ad ascoltare le proposte del re oppure dei capi, rispondendo, con un mormorio nel caso le rifiutassero, oppure con un rumore di armi, per manifestare la loro approvazione.
Il re non poteva intraprendere nulla senza l’assenso dei sacerdoti, che traevano gli auspici, e dei capi militari, dai quali dipendevano i guerrieri o uomini liberi. Quindi doveva consultarli, dal momento che essi costituivano una sorta di senato aristocratico.
Nelle assemblee, secondo la descrizione di Numa-Denis Fustel de Coulanges, possiamo immaginare due gruppi precisamente differenziati. Nella piana sta la massa dei guerrieri, e su un’altura oppure su un piano sopraelevato si trovano riuniti il re, i sacerdoti e i grandi del regno. Queste piccole assemblee deliberano anticipatamente, mentre l’assemblea maggiore si limita a dare il proprio assenso o la propria disapprovazione. Tacito nota con assoluta chiarezza che gli affari erano realmente discussi fra il re e i capi (5).
Quindi, il sistema rappresentativo, come si è realizzato nel Medioevo, non ebbe nessuna derivazione diretta dalle istituzioni germaniche e non giunse, nelle sue prime manifestazioni, a costituire un autentico governo rappresentativo.
3. Origini remote
Fra le “istituzioni politiche dell’Europa”, cui fa riferimento l’opera di François-Pierre-Guillaume Guizot, cioè le istituzioni prese in esame dall’autore “dalla caduta dell’impero romano”, vi erano già alcuni elementi utili come punto di partenza per giungere, più tardi, a un sistema organico di rappresentanza.
Sistema, nel suo significato etimologico, è un insieme armonico di elementi concatenati con una coerenza interna, così che si può parlare di princìpi coordinati in modo da costituire un corpo di dottrina.
Le istituzioni rappresentative sono venute sorgendo in modo spontaneo, nascendo dalle circostanze del tempo e per soddisfare le necessità pratiche. All’inizio non vi è stata l’intenzione di creare un sistema politico né di pianificare un regime di governo.
Fra gli elementi rudimentali di un sistema organico costituito posteriormente si trovava la Curia regis, consiglio nel quale il re riuniva elementi accreditati nella società del tempo, per farsi illuminare circa la situazione del regno e le misure da prendere. In tempi più lontani, le assemblee dei popoli germanici sono evocate da alcuni autori come origine remota del sistema rappresentativo.
Quando la vecchia eptarchia anglosassone si unì in un solo regno, cominciò a esistere un’assemblea generale, la Witenagemot, della quale facevano parte i magnati del regno. Circa la natura di questa istituzione sono state date diverse interpretazioni, e François-Pierre-Guillaume Guizot pensa che in essa non vi era nessuna idea di rappresentanza, perché quanti avevano diritto di partecipare a tali riunioni vi si presentavano solamente a titolo personale – vescovi e abati, duchi e conti -, benché le deliberazioni fossero prese “coram proceribus aliorumque fidelium infinita multitudine” (6).
Edward A. Freeman giunge a sostenere che questa costituzione sociale e politica non è soltanto patrimonio della razza teutonica, ma di tutta la famiglia ariana. Nell’entusiasmo di poter far risalire le istituzioni rappresentative inglesi a tempi così remoti, giunge al punto di affermare che la Camera dei Lord non solo deriva dal Witenagemot, ma è lo stesso Witenagemot. Ma egli stesso riconosce che nessun documento antico ci fornisce un’esposizione chiara e autentica circa che cosa sia stata la costituzione della citata assemblea (7).
Il fatto è che la rappresentanza, in Inghilterra come negli altri regni medioevali dell’Europa, benché presenti analogie con le istituzioni o le procedure dei germani primitivi, è nata da situazioni specifiche del quadro politico di un’epoca (8).
Nel caso della rappresentanza politica è accaduto la stessa cosa che con il regime corporativo. Si sono costituiti entrambi in paesi diversi, senza una pianificazione preventiva, derivando dal perseguimento di obbiettivi pratici, dai costumi, dal diritto storico.
Solamente molti anni dopo lo sviluppo delle istituzioni hanno cominciato a fare la loro comparsa le prime elaborazioni teoriche del sistema. E spesso si tratta di autori di un’epoca molto posteriore, che, piegati sui fatti di un’epoca remota e riflettendo sulle esperienze realizzate, ci danno una visione delle istituzioni di tali tempi in un corpo dottrinale.
Di questo genere sono la Teoria das Cortes Gerais, contenuta nelle Memorias del 2° Visconte di Santarém e rielaborata, con le prospettive di un uomo del secolo XX, da Antonio Sardinha; la Teoria das Cortes nos reinos de Leao e Castela, scritta da Martinez Marina con i criteri di un liberale del secolo XIX; le magnifiche sintesi del regime tradizionale in Spagna di Francisco Elías de Tejada y Spínola, di Rafael Gambra Ciudad e di Marcial Solana; la classica opera di Otto von Gierke Das deutsche Genossenschaftsrecht; i volumi dei fratelli Robert W. e Alexander J. Carlyle, che fanno in modo magnifico la storia delle idee politiche del Medioevo; oppure i solidi studi di Otto Hintze sulla costituzione per ceti e la rappresentanza politica.
Si deve notare che gli uomini del Medioevo non conoscevano l’ideologia, nel senso cui siamo abituati oggi. Il diritto si formava e si sviluppava sul piano delle esperienze collettive, senza uniformizzazioni derivanti da rigide direttive dottrinali.
Di tutto questo si deve tener conto in un confronto delle istituzioni rappresentative medioevali con quelle moderne.
4. I Concili di Toledo
La struttura politica dei popoli dell’Europa, nell’epoca feudale, ebbe come base la costituzione della società divisa in stati od ordini, chiamati in Francia i tre “stati” e in Portogallo gli “stati” o “bracci” del regno. Queste categorie sociali servirono da base sulla quale si elevò l’edificio del regime rappresentativo.
Dopo la caduta di Roma e con l’invasione dei germani – come sarebbe successo più tardi, quando saraceni, ungari e normanni avrebbero iniziato a devastare regioni europee -, si ruppero i legami sociali e, a causa dell’assenza dell’autorità, le lotte private si moltiplicarono, fra individui, famiglie e città. In mezzo al disordine generalizzato e alla mancanza di sicurezza, spesso gli uomini si trovavano senza neppure un magistrato davanti al quale dare soluzione alle proprie liti. Allora ricorrevano alle autorità ecclesiastiche, le uniche sopravviventi, attribuendo loro la funzione di arbitro in questioni di diritto civile. Dopo la costituzione delle nuove monarchie, i re trovavano presso i dignitari della Chiesa e i chierici consiglieri dotati di prudenza e di cultura, e si avvalevano della loro consulenza.
In Spagna, sotto la dominazione dei visigoti – e, più tardi, nei regni della Reconquista -, la preponderanza del clero era accentuata. Gama Barros ricorda che il codice visigotico, cioè il Forum Iudicum, elaborato sotto questa influenza, introdusse l’opera dei sacerdoti in un grande numero di atti civili (9). A partire dalla conversione di Recaredo, la società romano-gotica fu guidata in questo modo, dal momento che la stessa predominanza continuava nei nuclei che, dopo l’occupazione araba, vennero formando nuovi regni nella parte settentrionale della penisola (10). I ministri della Chiesa esercitavano anche la giurisdizione civile, e i vescovi svolgevano la funzione di giudici d’appello nelle province più lontane (11).
I Concili di Toledo mostrano abbondantemente l’influenza del clero, benché, d’altra parte, significassero l’interferenza del potere civile negli affari della Chiesa. All’inizio si trattò di assemblee esclusivamente ecclesiastiche che, dopo Recaredo, acquisirono un carattere misto. A esse prendevano parte magistrati e signori, membri dell’Ufficio palatino designati dal sovrano, posto che i laici presenti dovevano trattare soltanto affari relativi all’ordine civile e politico. Il re esercitava le facoltà legislative degli imperatori. Dalla sua autorità emanavano le leges, constitutiones, sanctiones o sententiae, al cui proposito gli storici non riescono a distinguere con precisione fra queste modalità di norma giuridica. La legislazione era legata alla persona del sovrano, che ascoltava, nelle materie di maggiore importanza, gli elementi rappresentativi della comunità.
Di fronte all’opera dei Concili di Toledo, Lord John Emerich Edward Dalberg Acton afferma che tali assemblee “diedero alla Spagna la struttura del suo regime parlamentare, il più antico del mondo” (12). Ma non vi è continuità fra i Concili e le prime Cortes. Dissolte le istituzioni dei visigoti, nella penisola iberica, subito dopo l’invasione dei mori, le assemblee rappresentative costituite posteriormente nei regni cristiani, nella parte settentrionale della penisola, sarebbero nate nuove condizioni sociali, nelle quali l’influenza della nobiltà militare diventava più forte e in cui anche il popolo delle città avrebbe avuto la sua parola da dire.
5. La rappresentanza nel quadro del feudalesimo
Il regime feudale nacque dalle circostanze specifiche di quel periodo di incertezze e di insicurezza, nel quale le contese private dissolvevano i legami sociali. Fu il mezzo per restaurare, in forme nuove, l’autorità, per ristabilire la pace e per ridare a tutti, per quanto possibile, la sicurezza.
Il rapporto di sovranità e di vassallaggio, caratteristico del feudalesimo, si riflette nelle relazioni fra il re e i sudditi. Il carattere contrattuale di tali relazioni si trova già nel giuramento di fedeltà dei tempi della regalità franca. Per altro, questo giuramento era praticato presso altri popoli germanici, come i visigoti, gli ostrogoti e i longobardi. Carlo il Calvo, nell’843, l’anno del Trattato di Verdun – con il quale aveva ricevuto parte dell’Impero di Carlo Magno – si predisponeva al feudalesimo quando, a Coulaines, alla presenza dei grandi signori laici ed ecclesiastici, assumeva l’impegno formale di procedere secondo ragione e secondo equità, e di concedere a ciascuno, “qualunque fosse il suo ordine o la sua dignità, il diritto di conservare la propria legge” (13). Quindi, il giuramento di fedeltà diventava reciproco. Giuravano i sudditi e giurava anche il re, così che il contratto diventava da unilaterale a sinallagmatico.
Questa reciprocità di obblighi fu molto accentuata nella concezione del potere regale delle organizzazioni politiche che sorsero nella penisola iberica quando, scomparsa la monarchia visigotica, a causa dell’invasione musulmana, si formarono nuovi regni. Così, il sovrano aragonese, al momento dell’intronizzazione, giurava di mantenere i diritti acquisiti e riceveva il giuramento di fedeltà prestato dalle Cortes.
Prima dell’unione alla Corona di Aragona, la Contea di Barcellona aveva la stessa pratica, dal momento che il principe giurava davanti alle Cortes di rispettare gli Usatges, le Costituzioni delle Cortes Generali, i privilegi, gli usi e i costumi. Relativamente al Portogallo, M. A. Coelho da Rocha avanza l’ipotesi che il duplice giuramento che si prestava in occasione dell’intronizzazione del nuovo re – quello di vassallaggio e di omaggio da parte dei ceti del regno, e quello di rispettare e di mantenere i diritti acquisiti della nazione, da parte del monarca – fosse una reminiscenza delle antiche forme elettive dei visigoti e della monarchia di León (14).
Nella primitiva Curia regia il re ascoltava gli uomini di rilievo del regno circa gli affari più importanti. Con il passare del tempo, la Curia cominciò a diventare un Consiglio di proporzioni maggiori, dal quale sarebbero derivate le assemblee rappresentative. I grandi signori, vassalli del re, avevano il dovere di prestare al sovrano il servizio militare e di ascoltarlo alla sua corte. Quindi si trattava di un obbligo imposto dal monarca piuttosto che di un diritto rivendicato dai signori.
Si comprende facilmente come, con la crescita del potere dei baroni, la loro presenza presso il sovrano non avesse soltanto lo scopo di dare il proprio parere, ma anche quello di proporre certe misure, quando non di esigerle. Contratta l’abitudine di prendere decisioni ascoltando i magnati del regno, egli finiva per riconoscere il potere di questi suoi sudditi, che, nelle condizioni della società feudale, condividevano la sovranità.
A poco a poco, la corte del monarca diventava un grande Consiglio, e ne sarebbero derivati le Cortes generali spagnole e il Parlamento inglese. Guglielmo il Conquistatore era solito riunire la sua corte tre volte l’anno, cioè a Pasqua a Winchester, a Pentecoste a Westminster e a Natale a Gloucester, una consuetudine che fu conservata dai suoi successori delle dinastie normanna e angioina. A queste riunioni, alle quale presenziavano arcivescovi, vescovi e abati, duchi, conti e cavalieri, all’inizio venne dato il nome di colloquium e poi quello di parliamentum, come si legge nella Historia Anglorum, di Matthew Paris, datata 1237 (15).
6. La partecipazione popolare e i precedenti spagnoli
Alla rappresentanza del clero e della nobiltà si aggiunse quella del popolo. L’incremento della vita urbana, le regalie concesse agli abitanti delle città, le organizzazioni corporative nella piccola industria manifatturiera e nel commercio, tutto questo venne attribuendo alle popolazioni dei villaggi e dei borghi maggior significato e influenza.
Questo potere si è affermato ora attraverso la lotta in difesa delle libertà locali, ora per mezzo di una collaborazione con il potere regale. In Portogallo la parte del popolo divenne sempre più rilevante con la salita al trono del Mestre de Avis, i cui diritti davanti alle Côrtes erano sostenuti dal dottore João das Regras e da altri legisti provenienti dalle classi popolari. Nei regni spagnoli, i fueros di lunga data furono concepiti come limitazioni del potere regale e come garanzie delle comunità che facevano parte del regno.
In Francia, le libertà comunali furono conquistate talora in difficili campagne nella lotta contro la feudalità e soprattutto contro gli abusi dei funzionari che rappresentavano i signori. Il self-government britannico risale ai tempi dell’eptarchia anglosassone. E in Germania – che conservava il ricordo delle geldes, associazioni di carattere religioso generalmente fra gli uomini della stessa professione, in uso fra gli antichi germani – le franchigie derivavano dalla concessione fatta dai signori o dal re, di una fiera o di un mercato (ius mercatum habendi).
Con il rafforzamento dell’autonomia locale e dell’organizzazione delle corporazioni di mestiere, si affermavano elementi di decentralizzazione sociale e anche politica. Funzioni che più tardi – con la monarchia assoluta – sarebbero passate al potere regale, e che oggi siamo abituati a veder esercitare dallo Stato, spettavano ai privati, nell’intensa vita associativa del tempo. Non solamente l’amministrazione della città, ma la regolamentazione del lavoro, delle professioni e del commercio.
In questo modo, la classe popolare assumeva, accanto all’aristocrazia feudale e al clero, responsabilità di direzione sociale. Veniva imposta la presenza di suoi rappresentanti fra i consiglieri del monarca. Era necessario che i suoi interessi avessero dei patrocinatori davanti al potere. E quando i procuratori delle città si sedettero accanto agli ecclesiastici e ai nobili nelle Cortes di León, nel 1188, il sistema rappresentativo giungeva al suo completamento.
Di fronte a quella assemblea re Alfonso IX assumeva l’impegno di non far guerra, firmare pace, né concludere qualunque patto (placitum) senza il consenso dei prelati, dei nobili e degli uomini retti. Poi, si vengono delineando le competenze delle Cortes in materia di successione del regno, di leggi fondamentali, di tributi e di diritto delle genti (16).
In Catalogna, le antiche riunioni feudali di pace e tregua, ampliamento della Cort o Consiglio reale, diventano autentiche Cortes quando, nel 1214, rappresentanti della nobiltà, del clero e delle città regali si riuniscono a Lerida. Nel 1283, con due importanti costituzioni, Pedro III d’Aragona e II di Barcellona stabilisce la convocazione annuale delle Cortes – trasformata in triennale da Jaime II, nel 1301 – e la partecipazione delle assemblee popolari al potere legislativo del monarca. Il vigoroso sistema rappresentativo catalano giunge all’apogeo nel secolo XIV, quando, durante il regno di Pedro III di Catalogna, le Cortes, in cinquant’anni, si riunirono più degli Stati Generali di Francia dalla loro nascita, nel 1302, fino alla loro estinzione, nel 1789 (17).
Bisogna sottolineare, di fronte a istituzioni così solide, la ricchezza dottrinale dei giuristi catalani del secolo XV, studiati esaurientemente da Francisco Elías de Tejada y Spínola. Così, Tomás Mieres, il maggior espositore del suo tempo, e Jaume Marquilles, nei suoi commentari agli Usatges, giungono a una concezione dello Stato di diritto, con garanzie per i cittadini attraverso norme giuridiche previe e precise. Giustificano limitazioni di vario tipo al potere regale.
Fra le limitazioni politico-giuridiche, è fondamentale, per Jaume Marquilles, la collaborazione dei bracci con il potere legislativo del monarca, attraverso l’azione congiunta nelle Cortes, in modo che le norme legali ricevano il consenso popolare, che dà forza alle regole di diritto scritte e consuetudinarie (18).
In Portogallo, nell’anno 1211, al tempo di re Alfonso II, vengono pubblicate le prime leggi generali nella Cortes di Coimbra, e altre sono promulgate in quelle celebrate in seguito, entrando in questo modo a far parte del corpo degli Ordinamenti. Non dobbiamo dimenticare che le prime istituzioni rappresentative brasiliane fanno la loro comparsa nell’ambito municipale, come filiazioni del regime dei consigli portoghesi.
Istituendo il primo municipio in Brasile, a São Vicente, cellula mater, Martim Afonso de Sousa faceva elevare l’edificio della Camera e raccoglieva gli homens bons per l’elezione degli assessori. Nello Stato del Brasile continuava la tradizione rappresentativa lusitana, mentre veniva applicato il principio dell’autonomia municipale. Regime simile fu quello dei viceregni dell’America spagnola con i cabildos chiusi e aperti.
7. Il Parlamento britannico
Nel corso del secolo XIII si trovano in altri paesi, oltre alla Spagna e all’Inghilterra, assemblee rappresentative delle diverse categorie sociali. Così, vediamo Federico II convocare rappresentanti delle città con lettere dirette alle autorità di Siena, di Genova e di Ravenna, e applicare più tardi lo stesso sistema nel regno di Sicilia. Per la Dieta del 1274, Rodolfo d’Asburgo convoca cittadini e corporazioni di città imperiali. Finalmente, all’inizio del secolo seguente, in Francia si riuniscono per la prima volta gli Stati Generali.
In Inghilterra, il conte di Leicester, Simon di Montfort, divenne figura di rilievo nella storia del parlamento. Era molto legato alla Francia meridionale e alla Spagna, poiché suo padre, conquistatore della Linguadoca, si era reso famoso nella Crociata contro gli Albigesi. Governatore della Guascogna, fu lui a convocare, in Inghilterra, cavalieri e borghesi per l’assemblea parlamentare del 1265, alla quale presero parte rappresentanti delle contee, delle città e dei villaggi. Secondo William Stubbs, le istituzioni rappresentative maturarono, in Inghilterra, nelle mani di Simon di Montfort (19).
Fu lui a porsi alla testa dei baroni scontenti di re Enrico III, per il fatto di non aver rispettato il giuramento di osservare la Magna Charta. Dopo la sconfitta del conte di Leicester e la sua morte sul campo di battaglia, non per questo l’idea, per la quale si era impegnato tanto, cessò di prevalere. E nel 1269 il Parlamento Modello apriva definitivamente le porte ai deputati delle città. Mentre l’alto clero, cioè l’insieme dei signori spirituali, prendeva posto accanto ai signori temporali, i cavalieri delle contee si associavano ai rappresentanti delle città e dei villaggi. In questo modo, il Parlamento inglese si divise in due organismi che conserva ancor oggi: Camera dei Lord e Camera dei Comuni.
Il Parlamento del 1265 si componeva dei seguenti elementi: 1. il re e il suo consiglio; 2. i grandi baroni; 3. i vescovi e gli abati; 4. rappresentanti del clero; 5. cavalieri delle contee; 6. borghesi delle città. Nel 1297 veniva confermata la Magna Charta e il Parlamento otteneva dal monarca importanti concessioni.
In virtù del principio secondo cui i tributi dovevano avere il consenso dei contribuenti – affermato con enfasi da sir John Fortescue nel De Laudibus Legum Angliae -, di fronte a spese che non gli era possibile soddisfare con le risorse ordinarie della Corona, il re si vedeva costretto a convocare il Parlamento. Dal canto loro, i sudditi volevano veder corretti certi gravami, come la violazione dei costumi antichi, la non ottemperanza delle leggi, il mancato rispetto dei privilegi, gli abusi dei funzionari del potere, le difficoltà e i ritardi nell’amministrazione della giustizia e altri.
Dalla sua costituzione, il Parlamento divenne centro della vita politica in Inghilterra. Già nel secolo XIV faceva sentire la sua grande forza destituendo dal trono Edoardo II e Riccardo II. Perfino anche nell’età dei Tudor, questi monarchi, di accentuato tratto assolutistico, cercavano di governare con il Parlamento, nel quale Thomas Smith, segretario della regina Elisabetta, dichiarava essere “il potere più elevato e assoluto del regno” (20), benché questo potesse venir detto solamente per salvare le apparenze, come deduciamo dal servilismo parlamentare davanti a Enrico VIII.
Alcuni autori hanno avanzato l’ipotesi di un’origine rivoluzionaria delle istituzioni parlamentari britanniche. Invero, i dissensi e le lotte dei tempi del conte di Leicester non giunsero a essere una rivoluzione, come accadde più tardi, cioè negli anni dal 1648 al 1688, rispettivamente con Oliver Cromwell e con l’avvento della dinastia di Orange. In Inghilterra, nello stesso modo che presso gli altri popoli europei, il sistema rappresentativo si venne costituendo con una lenta e graduale trasformazione delle istituzioni, con la partecipazione dell’elemento popolare, dopo il suo rafforzamento economico e politico.
8. Sir William Blackstone ed Edmund Burke
Questo processo di trasformazione, nella linea del diritto storico, proseguì in Inghilterra, senza le rotture provocate in altri paesi, in primo luogo dall’assolutismo monarchico e poi dalle rivoluzioni che instaurarono un nuovo tipo di regime rappresentativo. Dal 1688, le istituzioni britanniche ricevettero la forma attuale del parlamentarismo e del governo di Gabinetto.
Ed è interessante notare che la stessa idea del mandato parlamentare si è venuta modificando completamente, in rapporto al mandato imperativo dominante nel sistema tradizionale, prima che nella Francia rivoluzionaria venisse proclamato il principio del mandato rappresentativo. È pure interessante osservare che Edmund Burke – un maestro del pensiero contro-rivoluzionario e implacabile nel condannare la libertà astratta del 1789 – fu uno dei primi e ardenti difensori dell’idea poi espressa dalla teoria del cosiddetto mandato rappresentativo.
Nella celebre lettera ai suoi elettori di Bristol, Edmund Burke scriveva: “Certamente, signori, deve tornare a felicità e gloria di un rappresentante il fatto di vivere nell’unione più stretta, nella più totale corrispondenza e nella più limpida comunicazione con i propri elettori. Egli deve tenere in gran conto i loro desideri, in gran rispetto le loro opinioni, e deve prestare incessante attenzione ai loro affari. È suo dovere sacrificare il proprio riposo, i propri piaceri, le proprie soddisfazioni alle loro; soprattutto, sempre e in ogni caso, preferire i loro interessi ai propri. Tuttavia egli non deve sacrificare a voi la sua opinione imparziale, il suo maturo giudizio, la sua illuminata coscienza. Né a voi, né a nessun uomo o gruppo di uomini”. E ancora: “Formulare un’opinione è diritto di ogni uomo. Quella degli elettori ha il suo peso, è degna di rispetto e un rappresentante deve sempre rallegrarsi di ascoltarla e tenerla nella massima considerazione. Tuttavia istruzioni con carattere obbligatorio, mandati che il membro del parlamento sia tenuto ciecamente e implicitamente ad obbedire, a votare e a sostenere, anche se contrari alla limpida convinzione del suo giudizio e della sua coscienza, queste sono cose affatto sconosciute alle leggi di questa terra, e che nascono da un fraintendimento fondamentale di tutto lo spirito e il tenore della nostra costituzione”. Concludeva dicendo che “il parlamento non è un congresso di ambasciatori di interessi diversi e ostili”, ma “un’assemblea deliberativa di una nazione, con un solo interesse” (21).
Si trattava della stessa tesi sostenuta da sir William Blackstone nei suoi Commentaries on the Laws of England, nei quali mostrava che ogni rappresentante in Parlamento, benché scelto da un distretto particolare, rappresenta tutto il regno. “Infatti, il fine per cui è mandato non è particolare, ma generale: non è soltanto l’interesse dei suoi costituenti, ma quello della comunità. Di conseguenza, non è obbligato, come deputato delle Province Unite, a consultare i suoi costituenti e a chiedere il loro parere su qualche punto determinato” (22).
Così, prima di essere elaborata da Emmanuel-Joseph Sieyès e di diventare teoria ufficiale in Francia a opera della Rivoluzione, la dottrina del mandato rappresentativo era riconosciuta in Inghilterra, e aveva a proprio favore uno dei maggiori nemici della Rivoluzione.
Quindi, l’empirismo inglese e l’astrattismo francese, la tradizione rappresentativa dell’Inghilterra e le innovazioni rivoluzionarie della Francia convergevano, e la teoria moderna del governo rappresentativo finì per essere il denominatore comune dei regimi democratici, nonostante la divergenza dei giuristi, nelle interpretazioni nelle quali è stato formulato, dalla scuola classica francese fino alla corrente organicistica tedesca, con i contributi originali di un Léon Duguit, di un M. Hariou, di un L. Sánchez Agesta, di Vittorio Emanuele Orlando.
Per quest’ultimo, nell’elezione non si dà delega di potere, ma semplice designazione da parte dell’elettorato (23). La rappresentanza, non trattandosi di un mandato, equivale a un voto di fiducia. Secondo Otto Hintze “la costituzione rappresentativa, che oggi dà la sua fisionomia particolare alla vita politica di tutto il mondo civile, risale nella sua origine storica alla costituzione per ceti del Medioevo, e questa ha le sue radici nei rapporti politici e sociali del sistema feudale, se non ovunque e in modo esclusivo, almeno nei paesi più importanti e in un ambito non insignificante” (24).
Lo stesso autore segnala “una forte opposizione di principio” fra la costituzione per ceti medievale e la costituzione rappresentativa moderna, ma non per questo smette di riconoscere, nel passaggio dall’una all’altra, “un ciclo coerente di sviluppo storico”. Nel caso dell’Inghilterra, è difficile determinare la linea divisoria con la quale si produce questa transizione. Nella Rivoluzione francese, da un lato esiste la continuità storica – quando sono convocati gli Stati Generali – e dall’altro l’opposizione di principio – quando gli Stati Generali si trasformano in Assemblea Nazionale (25).
9. Dal sistema rappresentativo tradizionale al governo rappresentativo moderno
Dopo aver preso in considerazione la genesi delle istituzioni rappresentative – dalla quale deriva la loro ragion d’essere, come mezzo per limitare il potere politico e assicurare il soddisfacimento degli interessi di tutta la società -, e avendo presenti le spiegazioni precedenti sul significato della democrazia rappresentativa nella storia contemporanea (26), possiamo tracciare il seguente schema per un confronto finale dei due sistemi antagonistici:
Sistema rappresentativo tradizionale:
1. Rappresentazione sulla base di gruppi (società: insieme gerarchico di gruppi).
2. Rappresentante = mandatario di una categoria sociale.
3. Mandato imperativo.
4. Funzione prevalentemente consultiva delle assemblee (spetta, talora, la deliberazione, per esempio nel caso di leggi fondamentali, di tasse).
5. Rappresentanza dipendente dal potere, che la convoca.
Governo rappresentativo moderno:
1. Rappresentanza a base individualistica (società politica: somma di individui).
2. Ogni deputato = rappresentante di tutta la Nazione.
3. Mandato rappresentativo ampio e libero.
4. Funzione deliberante delle assemblee, nell’esercizio del potere legislativo.
5. Rappresentanza indipendente (separazione dei poteri) e, con il parlamentarismo, il governo alle dipendenze della rappresentanza.
Il punto più debole del sistema tradizionale è l’ultimo indicato. È stato il suo tallone d’Achille. Poiché la convocazione dell’assemblea è alla mercè del monarca, questo può, quando ha ritenuto opportuno evitarla, proseguire tranquillamente sulle vie dell’assolutismo. L’Inghilterra si è liberata subito da questo difetto e, per qualche tempo, la Catalogna, con la periodicità obbligatoria delle convocazioni.
Quanto alla concezione moderna, ha un punto di partenza inaccettabile. Almeno implicitamente, ammette il falso presupposto sociologico della società come aggregazione inorganica di individui. Fa di ogni cittadino un Robinson Crosue e, di conseguenza, prescinde dai corpi intermedi nella strutturazione del sistema, in questo modo preparando lo Stato di massa.
Per quanto concerne il mandato, è indubbio che il mandato imperativo – benché potesse avere degli inconvenienti – istituiva un maggior legame fra i rappresentanti e i rappresentati, dando quindi più autenticità alla rappresentanza. Per altro, questo viene riconosciuto sempre più, tanto che, attualmente, si introduce un nuovo tipo di mandato, attraverso un legame partitico e programmatico.
Finalmente, nella valutazione di questo confronto, rimane da concludere a proposito delle funzioni attribuite agli organismi rappresentativi. Distinguendo fra l’autorità e la rappresentanza, e fra la funzione legislativa e la funzione rappresentativa (27), niente caratterizza meglio quest’ultima del suo ulteriore sdoppiamento in due compiti essenziali, cui si riferiscono le seguenti parole di Juan Vasquez de Mella y Fanjull: “Le Cortes non governeranno, ma aiuteranno a governare, perché hanno due funzioni da svolgere: aiutare il Potere pubblico, mostrandogli come in uno specchio le necessità della nazione, e contenerlo, impedendo i suoi abusi” (28).
Quando i popoli cercano un modello diverso per la democrazia, bisogna affrontare il problema delle istituzioni rappresentative, sottoponendole a una revisione che permetta di fare veramente della rappresentanza l’anello fra la società e il potere, ossia uno strumento efficace delle aspirazioni popolari e un baluardo delle libertà concrete degli uomini nella loro esistenza reale.
Note
(1) Adhémar Esmein, Éléments de Droit Constitutionnel Français et Comparé, 8a ed. riveduta da Henry Nézard, Recueil Sirey, Parigi 1927, vol. I, Prima parte, Tit. 1°, Capitoli I e II.
(2) Ibid., p. 87.
(3) François-Pierre-Guillaume Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif et des institutions politiques de l’Europe depuis le début de l’Empire romain jusqu’au XIVème siècle, Didier, Parigi 1855, vol. II., p. 431.
(4) Cfr. Tacito, Germania, 11: “De minoribus rebus principes consultant, de maioribus omnes”.
(5) Cfr. ibid.: “ita tamen ut ea quoque quorum penes plebem arbitrium est apud principes pertractentur”. Quanto a Numa-Denis Fustel de Coulanges, cfr. Histoire des Institutions Politiques de l’Ancienne France, vol. II, L’Invasion Germanique et la Fin de l’Empire, Librairie Hachette et C.ie, Parigi 1891, pp. 271-281. In nota a p. 278, seguendo l’opinione dello storico M. A. Geffroy (Rome et les Barbares. Étude sur la Germanie de Tacite, Didier, Parigi 1874, p. 214), Numa-Denis Fustel de Coulanges, osserva che i principes non eletti, cui fa riferimento Tacito, “non possono rappresentare neppure un abbozzo del regime rappresentativo”. Mostra anche come Ammiano spieghi il pensiero di Tacito quando dice che fra i quadi, uno dei popoli germanici, tutto doveva essere deciso ex communi procerum mente. Secondo Georg Waitz – che nelle assemblee popolari vede il centro (Mittelpunkt) di tutta la vita politica dei germani – il pertractare di Tacito è usato nel senso di ante tractare: cfr. Deutsche Verfassungsgeschichte [Storia costituzionale germanica], 3a ed., Ernst Hormann, Kiel 1880, vol. I, p. 351.
(6) Cfr. F.-P.-G. Guizot, op. cit., vol. I, pp. 69-70.
(7) Cfr. Edward A. Freeman, Le Développement de la Constitution Anglaise depuis les temps les plus reculés jusqu’à nos jours, trad. francese e introduzione di Alexandre Dehaye, Guillaumin, Parigi 1877, cap. II. Dopo essere salito al trono d’Inghilterra – osserva Edward A. Freeman -, Guglielmo il Conquistatore convocava il suo Witan, come aveva fatto prima di lui re Edoardo. Lo stesso storico riconosce che i Grandi Consigli, dopo la conquista, presentano anche il carattere incerto e fluttuante dei Gemots degli anni più remoti. Da parte sua Maitland considera il Witenagemot un’istituzione instabile e indefinibile (cit. in sir Courtenay P. Ilbert, El Parlamento. Su Historia, Constitución y Practica, trad. spagnola di Julio Calvo Alfaro dell’8a ed. inglese, Labor, Barcellona 1930, p. 10).
(8) Cfr. Robert W. Carlyle e Alexander J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, sezione V, Le dottrine politiche del tredicesimo secolo, parte I, cap. IX, trad. it., a cura di Luigi Firpo, vol. III, Laterza, Bari 1967, p. 139: “il sistema rappresentativo non solo nacque quando la civiltà medievale era all’apice, ma fu anche il risultato logico e naturale delle sue condizioni e delle sue stesse idee politiche”.
(9) Cfr. H. Gama Barros, Historia da Administração Pública em Portugal nos Séculos XII a XV, 2a ed. diretta da Torquato de Sousa Soares, Livraria Sá da Costa Editôra, 11 tomi, Lisbona 1945-1954, vol. II, p. 17.
(10) In tali regni si venne accentuando con più forza l’influenza degli uomini ricchi, che formavano la nobiltà e comandavano le truppe. In una società organizzata per la guerra, era naturale che i capi militari venissero a predominare.
(11) Cfr. Forum Iudicum, libro VII, titolo I, legge 1. Dal III Concilio di Toledo passò al Codice la sovrintendenza attribuita ai vescovi sui magistrati, perché modificassero sentenze comprovatamente ingiuste: cfr. ibid., libro II, titolo I, legge 28, De data episcopis potestate distringendi iudices nequiter iudicantes. Nella versione in castigliano fatta nel secolo XIII, Fuero Juzgo, si deve notare la traduzione dell’espressione latina dell’originale, idoneis aliis viris, con omnes buenos, gli homens bons del linguaggio più tardi generalizzato nel diritto portoghese e trasmesso ai municipi brasiliani.
(12) Cfr. John Emerich Edward Dalberg Acton, Essays on Freedom and Power, The Beacon Press-The Free Press, Londra 1949, pp. 61 e 62.
(13) Édouard Perroy, Le Moyen Âge. L’expansion de l’Orient et la naissance de la civilization occidentale, tomo III della Histoire Générale des Civilizations, diretta da Maurice Crouzet, PUF, Parigi 1955, p. 140.
(14) Cfr. M. A. Coelho da Rocha, Ensaio sobre a Historia do Governo e da Legislação de Portugal, 6a ed., Imprensa da Universidade, Coimbra 1887, p. 49; cfr. Otto Hintze, Las Condiciones Historicouniversales de la Constitución Representativa, in Idem, Historia de las Formas Políticas, trad. spagnola, Ediciones de la Revista de Occidente, Madrid 1968: “Nel diritto germanico è configurata con speciale forza e chiarezza l’idea della reciprocità del vincolo obbligazionale fra il governante e i sudditi, in contrapposizione all’unilateralità del vincolo fra il diritto del governante e l’obbligo di ubbidirgli; cioè l’idea che il rapporto di dominazione politica è sottoposto ai limiti del diritto oppure della tradizione” (p. 112).
(15) Cfr. Hugh McDowall Clockie, The Origins and Nature of Constitutional Government, George G. Harrap & Co., Londra 1936, pp. 20-21.
(16) Gli autori inglesi, che hanno trattato abbondantemente l’argomento, riconoscono il primato della Spagna quanto al perfezionamento della rappresentanza politica con l’accesso dei mandatari del popolo alla Curia generale. William Stubbs e Hugh McDowall Clockie dicono che questo si verificò per la prima volta nelle Cortes di Aragona, nel 1162 (cfr. H. McDowall Clockie, op. cit., p. 16). Secondo J. B. Trend, professore a Cambridge, se, in quell’anno, i “rappresentanti delle città” non si posero nelle Cortes accanto ai “prelati, nobili e cavalieri”, furono presenti l’anno seguente a Saragozza (The Civilization of Spain, 2a ed., Oxford University Press, Londra-New York-Toronto 1967, p. 39). Quanto alla partecipazione popolare alle Cortes de León, non vi è nessun dubbio (cfr. R. W. Carlyle e A. J. Carlyle, op. cit., sezione V, Le dottrine politiche del tredicesimo secolo, parte I, cap. IX, trad. it., a cura di Luigi Firpo, vol. V, cit., p. 146.
(17) Osservazione di Lluis Nicolau D’Olwer, in F. Elías de Tejada y Spínola, Historia del Pensamiento Político Catalán, tomo I, La Cataluña Clasica (987-1479), Ediciones Montejurra, Siviglia 1961, p. 50
(18) Cfr. Jaume Marquilles, Commentaria, 310 e 316, sintetizzato in F. Elías de Tejada y Spínola, op. cit., p. 331, ma cfr. tutto il capitolo XIV. Di questo stesso autore, sulle libertà regionali, profondamente radicate nelle popolazioni della Spagna settentrionale, cfr. El Señorío de Vizcaya, Minotauro, Madrid 1954; e Idem, La Provincia de Guipuzcoa, Minotauro, Madrid 1965.
(19) William Stubbs, The Constitutional History of England in its Origin and Development, Clarendon Press, Oxford 1906, 4a ed., reprint, vol. II, pp. 103-104: “Comunque, l’idea di un governo rappresentativo è maturata nelle sue mani; e quantunque il germe dello sviluppo fosse posto nelle primitive istituzioni del paese, Simon ha il merito di essere stato uno dei primi a vedere le utilità e le magnificenze in cui avrebbe potuto finalmente svilupparsi”.
(20) Sir C. P. Ilbert, op. cit., p. 24.
(21) Edmund Burke, Speech to the Electors of Bristol, 1774, in Burke’s Political Writings, a cura di John Buchan, Nelson, Londra s. d., pp. 28-31, trad. it. in La rappresentanza politica, antologia a cura di Domenico Fisichella, Giuffrè, Milano 1983, pp. 65-66.
(22) Cit. in Georges Burdeau, Traité de Science Politique, vol. IV, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, Parigi, p. 237.
(23) Cfr. Vittorio Emanuele Orlando, Diritto Pubblico Generale, Giuffrè, Milano 1940, pp. 343-456, dove, sotto il titolo Lo Stato rappresentativo e i suoi organi, si parla di “designazione di capacità”.
(24) O. Hintze, op. cit., p. 103.
(25) Ibidem.
(26) Vedi capitoli II e III. Dalla democrazia rigidamente individualistica – con i partiti ai margini della legge, cioè non riconosciuti dall’ordinamento giuridico – si è passati alla democrazia dei partiti o “Stato dei partiti”; da qui allo “Stato di massa”, o democrazia totalitaria con un partito unico.
(27) Vedi Cap. IV.
(28) Juan Vázquez de Mella, Obras Completas, Casa Subirana, Barcellona, vol. XVI, p.9
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Leggi anche:
- L’idea di rappresentanza nel diritto
- La rappresentanza della società politica -1
- La rappresentanza della società politica -2
- La rappresentanza politica nello Stato dei partiti e nella società di massa
- Autorità e rappresentanza
- La rappresentanza come valore simbolico che manifesta un ordine trascendente