Avvocati di famiglia n.7 settembre-ottobre 2007
periodico dell’Osservatorio Nazionale del diritto di famiglia
(associazione di professionisti legali)
Intervista all’Avv. Arduino Aldo Ciappi,
Presidente della sezione pisana dell’ Unione dei Giuristi Cattolici Italiani (U.G.C.I.)
La nostra società è mutata radicalmente negli ultimi decenni: da una situazione in cui l’istituzione familiare costituiva il fondamento primario indiscusso del tessuto sociale, si è giunti rapidamente alla sua pretesa “liquidazione”, col tentativo di oscurarne la specifica funzione di luogo naturale in cui si affacciano e si formano le nuove generazioni. Quindi, prima di affrontare le pur appassionanti questioni che riguardano il diritto di famiglia, non ci si può esimere dal domandarsi quale sia l’oggetto effettivo dei nostri studi.
Non si può, infatti, affrontare una qualsiasi discussione non avendo ben chiara la nozione di cosa sia l’istituto familiare, oggi come ieri: una società naturale (ossia a misura della specie umana in ogni sua epoca storica, come la scienza antropologica dimostra) fondata su una promessa solenne di vicendevole sostegno morale e materiale formulata da un uomo e da una donna, aperto alla procreazione di nuovi individui e alla loro educazione e formazione anche come cittadini.
Questa è la definizione recepita nella nostra costituzione (art. 29 e ss.), come espressione di una sensibilità culturale e giuridica propria non soltanto della tradizione cattolica ma dell’intera comunità civile e radicata profondamente in un sostrato di senso comune e di adesione al dato naturale, come tale universalmente riconoscibile senza doversi far riferimento a convinzioni religiose di sorta.
Sottrarre l’argomento al tentativo di ridurlo ad una presunta quanto fuorviante querelle tra “cattolici”, da una parte, e “laici”, dall’altra, portandolo all’attenzione di tutti come questione che, se affrontata in termini puramente pragmatici, potrebbe portare (e i sintomi sono sotto gli occhi di tutti) ad una catastrofe epocale (ossia al definitivo tramonto della nostra civiltà), è l’obiettivo primario che l’U.G.C.I. (raccogliendo l’invito accorato del Magistero in tal senso) si pone in questi frangenti.
Ma come si fa, nel dibattito istituzionale e giuridico, a non tenere adeguatamente conto della mutata realtà sociale che vede la famiglia tradizionale in grave crisi e nuovi modelli di unioni affettive che non confluiscono nel matrimonio affermarsi sempre più?
La funzione dell’ordinamento giuridico non è quello di ratificare le tendenze, quand’ anche maggioritarie, che emergono e si affermano nella società; se fosse così non vedo come si possa criticare l’ideologia nazionalsocialista e le leggi che vi si ispirarono, essendo state esse approvate da organismi legislativi regolarmente eletti dalla maggioranza del popolo tedesco.
La funzione dell’ ordinamento statuale è, bensì, quello di ricercare e promuovere il bene comune dei cittadini, con la promulgazione e la difesa di leggi equilibrate che tutelino i diritti fondamentali della persona tra i quali deve ricomprendersi il diritto di ogni figlio ad avere una famiglia, cioè un padre e una madre, uniti in un vincolo dotato di una tendenziale stabilità, i quali si occupino di lui curandone amorevolmente e responsabilmente la crescita non solo materiale ma anche educativa e morale.
Tale diritto, intrinseco alla dimensione di ogni essere umano – e quindi anteriore ai (e prevalente sui) singoli ordinamenti statuali – è sancito in documenti approvati dalla comunità internazionale (Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20.11.1989) e ratificati dal Parlamento Italiano (L. 27.05.1991 n. 176).
Questo dato impone al nostro legislatore, per prevalenti finalità di natura pubblica, il dovere di respingere ogni tentativo di relativizzare l’istituto della famiglia assimilandolo ad altre forme di convivenza che, in virtù del principio di libertà individuale (anch’esso costituzionalmente protetto, sebbene nei limiti dei doveri sociali che ad ogni cittadino competono), possono costituirsi e sciogliersi senza alcuna formalità.
Le libere convivenze tra due persone di sesso diverso devono essere come tali rispettate, ovverosia lo Stato deve disinteressarsi di esse e ogni ingerenza può essere giustificata solo nell’ interesse dei figli naturali nati da esse.
Allorché, tuttavia, i conviventi intendessero, rinunciando a tale libertà, ricevere un riconoscimento giuridico e pubblico della loro unione vi è uno, ed uno solo, strumento per ottenerlo: la celebrazione del matrimonio, ossia dell’impegno solenne, espresso dinanzi alla comunità civile, di assumere i diritti-doveri che lo stato di coniugio comporta.
Ma oltre che sulle unioni “more uxorio” (di cui, peraltro, l’ordinamento si è già occupato con leggi e pronunce ad hoc) l’attuale dibattito verte su quelle omosessuali le quali, rebus sic stantibus, resterebbero prive di ogni riconoscimento giuridico con ciò che ne deriva sotto il profilo della carente tutela sociale verso tali soggetti. Che cosa si dovrebbe fare per esse?
In effetti il vero obiettivo del dibattito sulle unioni civili è quello del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali. La questione, peraltro, è prevalentemente ideologica se è vero, come è vero, che nei comuni in cui sono stati istituiti registri per le unioni civili, pochissime sono le coppie che hanno richiesto la registrazione.
Per esempio, a Pisa, ad oltre 10 anni dalla sua istituzione, solo una quarantina di coppie risultano iscritte e tra queste soltanto due omosessuali. Non vi è pertanto alcuna pressante “emergenza” e gli stessi omosessuali non sembrano avere un particolare interesse verso tale strumento. E’ dunque una questione di “principio”.
Ma, su questo piano, vi è da dire, senza discriminazione per alcuno, che la rilevanza istituzionale della famiglia per l’ordinamento non è affatto legata alla sussistenza di un legame affettivo-sentimentale nella coppia che intende costituire un nuovo nucleo familiare.
Sentimenti quali l’amore, la riconoscenza, l’affinità intellettuale, ecc., non hanno di per sè alcuna rilevanza sul piano del diritto; possono, questo sì, costituire il presupposto per dare vita a rapporti giuridici ed è il diritto privato ad offrire ai soggetti interessati gli strumenti per regolarli (si pensi alle figure del curatore o del procuratore per certi affari, alla quota disponibile testamentaria, all’associazione in partecipazione, alla comunione volontaria, alla contitolarità nei contratti, all’assicurazione a favore di terzo, ecc. ecc.)
Insomma, è possibile prevedere le più svariate disposizioni a favore di una (o anche, perché no, di più persone) cui si è legati da vincoli affettivi, così consentendo alle parti di provvedere ad ogni tipo di bisogno e senza dover intaccare il sistema dei benefici (assegni, reversibilità, alloggi, mutui agevolati, ecc.) riservati alla famiglia in ragione della propria insostituibile funzione sociale (cura dei figli) e coerentemente negati a quelle situazioni che non sono oggettivamente equiparabili: o per esplicita rinuncia della coppia che preferisce non vincolarsi (nelle unioni eterosessuali), o per evidenti ragioni fisiologiche (in quelle omosessuali).
Quindi, secondo lei, non vi è alcuna necessità di intervenire sull’attuale assetto normativo del diritto di famiglia?
Tutte le proposte di legge (i cd. PACS, i DI.CO i CUS…), al di là delle differenze sulle modalità per essere riconosciute come forme di convivenza assimilate, a certi fini, alla famiglia, hanno la comune caratteristica di mettere sullo stesso piano le coppie etero ed omosessuali.
L’effetto di scardinamento, in caso di approvazione di una di esse, sarebbe duplice: da un lato, la scelta del matrimonio come vincolo stabile, con assunzione di specifici reciproci doveri, sarebbe sempre più legata alle convinzioni religiose dei nubendi, e, dunque, diventerà desueto come istituzione civile essendo assai più agevole e meno impegnativo (sia per la costituzione che per la “liquidazione) ricorrere alle unioni riconosciute; dall’altro, equivalendosi le unioni etero ed omosessuali, si aprirà inevitabilmente (Spagna docet) la strada all’adozione dei minori da parte delle seconde, nonostante tutti gli studi rivelino i gravi danni che l’assenza di due distinte figure genitoriali provoca sulla loro psiche in formazione.
Credo sia compito di tutti, ed in primis di coloro che hanno eletto il diritto di famiglia come oggetto principale dei propri interessi professionali, denunciare i rischi di deriva insiti in ogni tentativo di stravolgimento di istituti di così solida tradizione.
Non si tratta di difendere interessi di bottega; qui la posta in gioco è la sopravvivenza o l’estinzione di un pluri-millenario modello di civiltà.