Così il magistero giudica la Fratellanza

MassoneriaAvvenire 12 dicembre 1993

I principali pronunciamenti sull’argomento

di Giovanni Cantoni

Sono 586 gli interventi magisteriali dei Pontefici sulla massoneria. Secondo quanto documentato da Giordano Gamberini, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1961 al 1970, la massoneria, come corpo regolare organizzato in logge, è nata il 24 giugno 1717 a Londra «per rispondere a quelle esigenze di universalità che il mondo occidentale si era visto mortificare con lo spegnimento dell’idea imperiale e con la frantumazione della religione cristiana Ossia per offrire un’etica universale in luogo di quella perdutasi poiché era stata fondata su una fede universale di cui era venuta a mancare l’unità».

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Dovremmo querelarci per autodiffamazione

italianoPagine Libere luglio-agosto 1992

È un caso patologico di provincialismo: ci autodenigriamo perché ci vergognamo di non aver avuto la nostra Riforma luterana. Noi, mancati protestanti… E invece la strada è un’altra: valorizzare la nostra identità mediterranea, cattolica, popolare all’insegna di un nuovo e antico viatico: «Grazie a Dio sono italiano».

di Vittorio Messori

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Viaggio nell’«onorata società» dall’unificazione nazionale ad oggi

il Giornale Mercoledì 19 agosto 1992

Viaggio nell’«onorata società» dall’unificazione nazionale ad oggi -1 / La miopia delle autorità sabaude e le spedizioni militari in Sicilia

MAFIA, COME SI LEGALIZZA UN CRIMINE

La Destra storica tenta la via della repressione, la Sinistra chiama a Palazzo gli uomini d’onore

di Marco Travaglio

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Quando Colombo incontrò gli indios

Colombo_indiosIl Messaggero veneto 31 ottobre 1985

Sfatare la leggenda nera spagnola

Marco Tangheroni

«lo, affinché ci diventassero molto amici, poiché conobbi che era gente che meglio si salverebbe e si convertirebbe alla nostra santa fede con l’amore che con la forza, diedi ad alcuni di essi alcuni berretti rossi ed alcune coroncine di vetro che si ponevano al collo e altre molte cose di poco valore di. Cui ebbero molto piacere e restarono tanto nostri che era una meraviglia. Essi venivano poi nuotando alle barche delle navi dove, noi stavamo e ci portavano pappagalli, filo di cotone in gomitoli e zagàglie e molte altre cose e ce le cambiavano con altre cose che noi davamo loro, come perline di vetro e sonagli… Essi vanno nudi come la madre li partorì, anche le donne… alcuni di essi si dipingono di scuro ed essi sono del colore degli abitanti delle Canarie, né negri né bianchi, e altri si dipingono di bianco e altri di rosso… e alcuni si dipingono i volti e altri tutto il corpo e altri solo gli occhi e altri solo il naso… Essi non hanno armi né le conoscono… Essi, generalmente sono di buona statura, di gradevoli movimenti e ben i fatti. Piacendo a Nostro Signore io ne porterò via di qui, al momento della partenza, sei per le Vostre Altezze, affinché imparino a parlare…»

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Santità fa rima con proprietà

denari_MedioevoIl Sole 24 Ore 3 giugno 1990

 di Gavino Manca

Fra gli aspetti più interessanti (e scontati) degli scenari economico – socio – politici proposti dai movimenti utopistici (non solo marxisti), vi è stata l’abolizione della proprietà privata e la comune disponibilità dei beni naturali e di quelli ottenuti attraverso il lavoro umano. Questa tesi, che si identifica con l’affermazione di Proudhon («la proprietà è un furto») trova ancora sostenitori in movimenti di varia ideologia (per esempio, l’ecologismo), nonostante la disputa prò e contra da parte dei due tradizionali antagonisti — il mondo socialista e quello capitalista — si sia molto attenuata. L’ultimo mezzo secolo ha visto, nella realtà, un notevole avvicinamento delle posizioni, con una crescente introduzione della proprietà nella società socialista e una crescente limitazione (o condizionamento) dei diritti di proprietà in quella capitalista.

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Su Pinocchio l’elmo di Scipio

Carlo Collodi

Carlo Collodi

Avvenire venerdì 28 settembre 1990

Il cardinale Giacomo Biffi ha commemorato l’autore dei celebre burattino a 100 anni dalla morte. E’ stata l’occasione per ritornare sulla crisi della società italiana all’indomani dell’unificazione nazionale

di Giacomo Biffi

«La nostra ipotesi è che questo prodigio letterario tra le sue premesse, se non la sua spiegazione esauriente nella crisi che colpisce la nazione italiana contestualmente al Risorgimento» questa convinzione è alla base della commemorazione di Carlo Collodi nel centenario della morte voluta ieri a Bologna dal Centro culturale «Enrico Manfredini», con il patrocinio della Fondazione nazionale Cario Collodi. «Pinocchio e la questione italiana» è appunto il tema della rievocazione fatta dall’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi. Il disagio sociale di Collodi nei primi anni dell’unità Italiana, ha spiegato Biffi, nascono dai miti dell’Illuminismo cui si era largamente ispirato il rivolgimento politico del nostro Paese. Della conferenza di Biffi pubblichiamo ampi stralci.

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E’ certo che, una volta compiuta l’unità d’Italia, a poco a poco si insinua e si afferma nella sua coscienza una crisi che si fa col passar degli anni sempre più inquietante e severa. Egli non arriva mai a rinnegare gli ideali per i quali aveva anche pagato di persona; ma senza dubbio non è soddisfatto della forma in cui essi si sono inverati. Più seriamente e più radicalmente, non li ritiene più rispondenti alle aspirazioni più semplici ed essenziali dell’uomo. Non è soltanto deluso della meschinità e della scarsa attenzione sociale del nuovo Stato unitario; sono piuttosto gli stessi miti dell’illuminismo, cui si è largamente ispirato il rivolgimento politico della penisola, a non persuaderlo più. Come del resto non lo hanno mai persuaso i miti più recenti del socialismo nelle sue varie versioni, per le quali egli non nasconde la sua antipatia.

Resta in lui un amore rabbioso per l’uomo e una infinita compassione per la sua varia miseria; ma non c’è più la fede in alcuna delle, ricette che in quei decenni si offrivano come rimedio miracoloso ai guai dell’umanità dolorante. Si mostra perfino scettico sul grande dogma illuministico dell’istruzione delle masse, che in quel tempo aveva ispirato la legge Coppino sull’istruzione obbligatoria. Non crede neppure più al tanto decantato «magistero della storia». «Chi crede oggi nella storia, dove non c’è di vero altro che le date, quando le date son vere? La storia, diciamolo una volta per tutte, è scritta unicamente per uso dei maestri di scuola, che non la sanno insegnare; e per dispe­razione degli scolari che non hanno voglia d’impararla».

Arriva a descrivere così i risultati della «rivoluzione illuministica»: «A furia di illuminazione, la religione è sparita, la superstizione e il beghinismo sono rimasti: l’istruzione è andata avanti a piè zoppo, la pretenzione e la presunzione hanno viaggiato col vapore». È, come si vede, una grande amarezza che lo turbava nell’intimo e lo rodeva. Anche esternamente questo suo malessere si lasciava percepire. Nota il nipote, Paolo Lorenzini «Non era più del suo umore di una volta, appariva chiuso, taciturno, malinconico, per quanto avesse sempre pronta la barzelletta e la facezia quando si animava un poco».

In questo contesto, dopo gli anni avventurosi e un po’ selvaggi diventa significativo e quasi emblematico il suo ritorno in famiglia accanto alla madre, nel 1860. La madre morirà solo quattro anni prima del figlio, nel 1886, quando già il fatale burattino aveva cominciato la sua corsa nel mondo. In tutto quel tempo, l’influsso di Angiolina sul figlio è intenso e senza cadute. Sempre a testimonianza dei familiari, Carlo «non si coricò una sera senza chiederle un bacio e la sua benedizione… Spesso sottoponeva al giudizio di lei i suoi lavori, facendo tesoro dei consigli che si permetteva di dargli».

Non si è tenuto finora nella dovuta considerazione, a mio giudizio, che la crisi ideologica e spirituale del Lorenzini è all’origine del suo capolavoro e può gettare una luce decisiva sull’enigma di un libro che è un vero e proprio «caso» nella storia della letteratura universale. Il «caso» — scriveva già qualche anno fa —nasce dalla sproporzione, almeno apparente, tra la modestia esteriore dell’opera e il suo successo, che è senza confini e senza eclissi Una storia cominciata senza un disegno compiuto, condotta avanti di malavoglia, pubblicata a puntate con scadenze irregolari, interrotta due volte, che riesce a imporsi all’attenzione di tutti, è tradotta in quasi tutte le lingue e provoca una serie senza fine di dotti studi e di disquisizioni sottili La nostra ipotesi è che questo prodigio letterario ha le sue premesse, se non la sua spiegazione esauriente, nella crisi che colpisce la nazione italiana contestualmente al Risorgimento.

Perché questo prima di tutto bisogna capire bene: la crisi del Collodi non può essere ridotta a qualcosa di puramente intimo e personale, quasi a un fenomeno patologico soggettivo. Egli l’ha avvertita più acutamente di altri, ma essa era iscritta nella vicenda stessa del Risorgimento italiano. Nella sua componente politicamente vincitrice il movimento risorgimentale impose alle genti della penisola una ideologia obiettivamente in contrasto con quella cultura cattolica, che fino a quel momento aveva costituito praticamente l’anima e l’ispirazione di tutte le costumanze, le manifestazioni artistiche, le forme corali di festa, di culto della bellezza, di vita

Tutto ciò che il popolo italiano percepiva come davvero suo o nasceva dalla visione cristiana o almeno ne era vigorosamente contrassegnato. Come era allora possibile che diventasse davvero popolare una unificazione e un rivolgimento compiuti senza giovarsi di questa forza spirituale antica e sempre viva, e anzi addirittura per molti aspetti in sua opposizione? Ci si illuse di poter far leva sul fascino della vetusta romanità. Ma il surrogato di questo mito — con tutta la sua fredda retorica, con tutti i suoi elmi di Scipio, i suoi labari e le sue coorti — non poteva toccare il cuore degli italiani tutt’al più riusciva a esaltare le nostalgie di qualche insegnante di latino e a infierire i versi di qualche vate classicheggiante.

Sotto questo profilo il fascismo può essere letto come prosecuzione, esasperazione e dissolvimento di questo tentativo senza speranza di dare una radice storica e una patente di nobiltà a un’ideologia recente ed estranea.

PinocchioA differenza dell’Irlanda e della Polonia l’Italia non ha saputo trovare nel suo originale cattolicesimo il principio di identità nazionale; principio che era del tutto illusorio pensare di trovare altrove. Perciò la nostra identità nazionale rimane, dopo l’unità, un problema che non appare mai del tutto risolto. Va detto che la nostra storiografia non è stata a questo proposito particolarmente perspicace. Ha studiato si nelle loro manifestazioni di vertice, le molteplici tensioni tra la Chiesa e lo Stato sabaudo, ma non ha mai prestato sufficiente attenzione alla grande e vitale realtà del cattolicesimo popolare, fino a che non è stata costretta ad occuparsene dai risultati delle elezioni di questo secondo dopo guerra, le prime veramente libere e universali. Ed è naturale che tali risultati siano apparsi una sorpresa, quando non addirittura una prevaricazione, agli occhi di chi non aveva mai voluto prendere in considerazione la realtà italiana nella sua intera verità.

Ma ciò che non è stato finora studiato da nessuno è il malessere spirituale profondo, soggiacente al dramma degli accadimenti politici che ha colpito le genti italiane durante tutta la vicenda risorgimentale e pos-risorgimentale. Eppure questo malessere è un fatto, e un fatto gravido di persistenti conseguenze. Non si trascura impunemente, talvolta addirittura irridendolo, il patrimonio di convinzioni ereditato dai padri, custodito nelle grandi opere che fanno belle le nostre città, sotteso a tutte le nostre antiche istituzioni sociali (come le università, gli ospedali le «misericordie», i monti di pegno, le confraternite ecc.).

L’anima d’Italia ne è rimasta ferita, e molti dei nostri guai nazionali trovano qui una delle cause decisive. Privato dalla cultura ufficiale di una sicura e tradizionalmente accettata scala di valori, il nostro popolo dà spesso l’impressione di essere senza convinzioni e indifferente di fronte ai doveri verso la collettività. Esautorata dal pubblico potere la norma secolare cattolica di comportamento, anche le leggi civili faticano a essere percepiti dagli italiani come vincolanti Scosse nella loro appartenenza ecclesiale, le genti italiane sono andate mendicando altre appartenenze totalizzanti; sicché in questa stessa crisi spirituale ottocentesca può forse trovare qualche spiegazione sia l’infatuazione fascista sia l’anomalia storica del successo tra noi dell’ideologia comunista senza riscontro nel mondo libero ed evoluto.

Sarebbe inutile dire se la ragionevolezza avesse più ampia cittadinanza in questo mondo, che riflessioni come la nostra non vogliono affetto né rimettere in discussione l’unità nazionale (che è irreversibile e ci è cara) né rimpiangere il potere temporale (la cui fine è stata provvidenziale per la Chiesa). Si tratta solo di accostarsi a una pagina della nostra storia — che è tra le più decisive se non tra le più splendenti — senza schematismi ideologici e senza esaltazioni acritiche, indegne di uno spirito davvero li­bero e davvero spregiudicato.

Anche se non percepita o addirittura censurata dalla cultura ufficiale, la tragedia di un popolo, che, all’atto di connettersi politicamente, spiritualmente si lacera e si immiserisce, non è passata del tutto inosservata negli anni in cui si andava consumando. Perfino nella lontana Russia c’è chi dimostra di rendersene conto, almeno per qualche aspetto. Dostoevskij nel 1877 pare avvedersi a suo modo di questo deterioramento, quando scrive, «Il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa lo intuisce. La scienza, l’arte italiana sono piene di quell’idea grande. Ebbene, che cosa ha ottenuto il conte di Cavour? Un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito».

Ma qualche momento di lucidità c’è anche in alcuni di quelli che erano stati attivi nel processo risorgimentale. Nei «Pensieri» di Francesco Crispi — chi lo crederebbe? — a un certo punto si legge: «Il Cattolicesimo, oltre la potente e mirabile gerarchia, che tiene stretto i fedeli intorno al capo, ha, ai fini della sua missione, l’educazione, l’insegnamento, la beneficenza, l’apostolato. Che abbiamo noi fatto, in 34 anni, nel Regno d’Italia, per fare i cittadini e soldati, uomini e patrioti?».

risorgimento_allegoriaE Ferdinando Martini scriveva al Carducci «Le rivoluzioni politiche le quali non accompagnino un rinnovamento religioso perdono di vista l’origine loro, e i primi intenti finiscono a scatenare ogni istinto delle plebi di ciò io sono convinto da un pezzo. Ma dopo il male che noi, tutti noi tutti noi caro Giosuè, abbiam fatto, siamo in grado di provvedere a rimedi? A chi predichiamo? Noi borghesia volteriana, siam noi che abbiamo fatto i miscredenti, intanto che il Papa custodisce i male credenti ora alle plebi che chiedono le parole cui affidarsi perché non credono più all’ai di là, torneranno fuori a parlare di Dio, che ieri abbiamo negato! Non ci prestano fede: parlo delle plebi di città e de’ borghi le rurali di un Dio senza riti, senza preti, non sanno che farsi A tutto il male che noi (non tu od io, noi certo) abbiamo fatto per spensierata superbia, le bombe son troppo scarso compenso: abbiam voluto distruggere e non abbiamo saputo nulla edificare. La scuola doveva, nelle chiacchiere dei pedagoghi sostituire la Chiesa. Una bella sostituzione! Te la raccomando…».

Con la stessa amarezza il Collodi negli anni della sua «crisi», si rivolge ai dirigenti della nuova Italia: «Voi credendo in buona fede di ragionare, avete sragionato così: per rigenerare i popoli. Bisogna istruirli bisogna emanciparli dall’ignoranza: in una parola bisogna illuminare le masse! Illuminiamo dunque le masse… Con qual profitto?».

Come supera il Lorenzini questa sua crisi di uomo, di cittadino, di osservatore attento dei mai sociali? Da pubblicista, animatore e collaboratore di vari giornali si era rivolto soprattutto alla classe di quelli che contano, a quanti erano occupati nell’azione politica Ma a un certo punto il suo pessimismo — o meglio il pessimismo del suo realismo — lo persuade dell’inutilità di questo impegno. Egli decide allora di cambiare destinatari e di spendere le sue fatiche non più per gli adulti, non più per i personaggi importanti sì sulla scena pubblica ma ormai ideologicamente fissati e sclerotizzati senza rimedio, per i ragazzi che possiedono un’umanità ancora nativamente fresca e aperta alla verità.

Il passaggio si colloca nel 1875, nel suo quarantanovesimo anno di età, quando, su richiesta dei librai-editori Alessandro e Felice Poggi appronta una nuova versione dei famosi «Contes» di Charles Perrault che difatti compaiono lo stesso anno col titolo italiano «I racconti delle fate». Dopo questa pubblicazione si dedicherà totalmente alla così detta letteratura infantile, nella quale si produrrà non più con traduzioni ma con apprezzate opere originali.

Giuseppe Decollanz ha colto bene il significato di questa «svolta» collodiana: «La creazione artistica —scrive — è il suo rifugio politico… è la sua reazione all’illiberalità della politica contemporanea, in nome di un più alto ideale di umanità e di democrazia… Ed è al tempo stesso la presa di coscienza di un uomo che aveva finalmente risolto i propri dissidi spirituali, le proprie ansie, isolandosi nella contemplazione di un mondo disincantato e al tempo stesso così fortemente allegorico, qual è appunto quella della favola»

Tutto ciò è molto giusto e vale per tutta la produzione collodiana degli ultimi quindici anni di vita, ma non è sufficiente a darci piena ragione di «Pinocchio» e del suo fascino misterioso.

Alzabandiera

ambulanza_logoIl Sabato 29 settembre 1990

di Franco Cardini

NELLE recenti polemiche a proposito della bandiera italiana, mi ha consolato un fatto interessante: pare che si sia ricominciato a prestare ai simboli l’attenzione che essi meritano. Certo, può essere ormai poco importante stabilire se davvero nel verde adottato dalla Repubblica cisalpina per far da sostituto al blu in una bandiera che da vicino ricalcava quella francese vi sia stata o meno un’ispirazione massonica: ma, da un punto di vista di consapevolezza storica, la cosa ha pure un suo rilievo.

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Nessun Oscar per Geronimo

pellerossaIl Sabato 30 marzo 1991

Prima li hanno eliminati. Poi li hanno trasformati in buoni eroi. Ma l’America ha sempre un debito aperto con gli indiani…

di Antonio Socci

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Considerazioni sull’islam / 1 – rubrica Vivaio

islam_preghieraAvvenire – rubrica Vivaio,

11 novembre 1990

Vittorio Messori

Lo osservava, di recente, anche il card. Martini, arcivescovo di una diocesi dove gli immigrati da Africa e Asia sono ormai centinaia di migliaia: quel confronto che, nei decenni scorsi, i cattolici ebbero con i marxisti, diventerà sempre più un confronto con i musulmani Così, smentendo tutte le previsioni di chi pensava che il problema del terzo millennio sarebbe stato — per i credenti superstiti — la sfida dell’ateismo, ecco che sarà invece la sfida di un’altra religione. E la meno “secolare” di tutte.

Poco si è notato che, mentre il marxismo è (o era) un giudeo-cristianesimo laicizzato, l’islamismo è un giudeo-cristianesimo semplificato. Entrambi senza il messaggio dei profeti di Israele — da Abramo sino a Gesù compreso — non sarebbero sorti o sarebbero stati assai diversi. E dunque, per il cristiano, la sfida è ancora una volta “in famiglia”: cosa che poco consola, visto che proprio questi sono i confronti più insidiosi e accaniti

A cominciare da oggi, e per qualche “puntata”, vorremmo scrivere qui qualcuna delle riflessioni raccolte in molti anni sulla fede proclamata da Muhammad, “il degno di lode”, che la nostra lingua chiama impropriamente “Maometto”. Ci sembra che la storica migrazione, di cui ora non vediamo che gli inizi, che sta portando a una nuova invasione musulmana dell’Europa giustifichi lo spazio che intendiamo riservare all’argomento. Ma, attualità quotidiana a parte, interrogarsi sull’Islam è da sempre uno dei doveri primari del cristiano consapevole della sua fede.

Il Corano, in effetti, è innanzitutto uno scandalo: lo scandalo di un “Nuovissimo Testamento” che dichiara superato il Nuovo Testamento cristiano. Mentre i credenti in Gesù erano certi che con lui fosse terminata la rivelazione divina cominciata con Abramo e Mosé, ecco sorgere una religione che non solo toglie a Gesù il suo carattere divino ma, pur profondendosi in rispettosi omaggi per lui, lo relega addirittura alla condizione di penultimo profeta, di annunciatore di una parte ma non di tutta la volontà divina, completata solo nelle parole fatteci giungere attraverso l’ultimo e definitivo dei rivelatori, Muhammad.

Con lui, i cristiani sono ridotti al passato, gente da compatire perché giunta sì dall’Antico al Nuovo Testamento ma fermatasi lì, senza passare al Corano, visto come la terza parte della Scrittura che inizia con la Torah ebraica. In effetti, laddove giungeva, nei primi secoli dell’espansione, l’orda musulmana, soltanto i politeisti, i pagani, erano posti di fronte al dilemma: o convertirsi, abbandonando gli idoli, o essere sterminati Non così per ebrei e cristiani, “la gente del Libro”: sottomessi a tributo, erano chiusi nei loro ghetti anacronistici, aspettando che si decidessero ad accettare la realtà, a riconoscere che la storia della salvezza era andata avanti, che Abramo e Gesù non erano da abbandonare ma da superare.

Questo dunque, lo scandalo — e il mistero —del Corano e della fede poderosa che riuscì a suscitare. Abituati a guardare agli ebrei restati tali come a gente dalla vista appannata, incapaci di scorgere i tempi nuovi, i cristiani si sono trovati a essere guardati a loro volta come fermatisi alla penultima tappa, senza saper giungere all’ultima. Proprio per questo l’islamismo potrebbe apparire come più credibile del cristianesimo agli Occidentali che adesso l’hanno tra loro.

Un tempo era la religione dei disprezzati popoli coloniali, convertirsi ad esso sarebbe sembrata una bizzarria indegna di un civilizzato europeo. Ora, invece, le conversioni sono cominciate e in certi Paesi, come la Francia, sembrano diventare un fenomeno quasi di massa. E ciò perché, nella nostra prospettiva “progressista”, ciò che viene dopo appare sempre meglio di ciò che c’era prima. Dalla stella di David, alla croce, alla mezzaluna non è forse un continuo progredire? Proprio perché venuto dopo Mosé e Cristo, Muhammad non sarà il migliore?

In fondo, sono gli stessi cristiani che hanno puntato proprio su questa idea di progresso, di superamento dell’ebraismo per aprirsi al nuovo. È in questo passag­gio dalla Torah agli Evangeli che ha la sua origine la prospettiva, che l’Occidente ha fatta sua, finendo per laicizzarla nelle ideologie “progressiste”, di una storia come salita che porta a sempre nuove conquiste. Dunque, il Corano può fare leva sulla convinzione —che è ormai carne e sangue dell’uomo moderno —del nuovo che è sempre meglio del vecchio. Se il proselitismo musulmano saprà utilizzare questa categoria fondamentale dello spirito occidentale, la prospettiva di un’Europa se non islamizzata almeno permeata a fondo da questo Credo potrebbe non apparire così incredibile.

Del resto, questo passaggio è già più volte avvenuto. Dodici o tredici secoli fa, erano cristiani gli antenati di quei musulmani nordafricani che vediamo popolare le nostre strade. In Egitto, nel Maghreb, in Siria, in Anatolia, nei Balcani, nella Palestina stessa, popoli interi hanno fatto — e per sempre, almeno a viste umane — il passaggio dal Nuovo al Nuovissimo Testamento, da Gesù a Maometto. Isole di resistenza cristiana, durate sino ad ora, l’Islam le ha conosciute: gli Armeni, i Copti monofisiti in Egitto e in Medio Oriente, i Mozarabi iberici. E ha dovuto ritirarsi da alcune regioni dove la vita cristiana è ritornata prepotente, senza che l’islamizzazione riuscisse in profondo: la Spagna, la Grecia, la Sicilia, Malta.

Ma, altrove, la mezzaluna è sembrata più forte della croce: e non solo sul campo di battaglia (il che, in una prospettiva religiosa, significa poco o nulla) ma, quel che più conta, nei cuori. Conquistati alla nuova fede, quei popoli le sono rimasti sino ad oggi incrollabilmente fedeli. E successo persino per le Chiese fondate sulla costa siriana e nell’attuale Turchia da San Paolo stesso. E se la moschea di Cordoba, in Spagna, è da secoli trasformata in chiesa cattolica, da altrettanti secoli la chiesa di Santa Sofia nella Costantinopoli ribattezzata Istambul è tra le più venerate moschee musulmane.

Lo stesso Annuario Pontificio porta ancora i segni del dramma: vi sono in effetti elencati, accanto ai vescovi “residenziali”, quelli cioè a capo di una diocesi effettivamente esistente, i vescovi “titolari”: quei presuli, cioè, cui è attribuito il “titolo” di una diocesi che da oltre mille anni non è ridotta che a un nome, senza più fedeli, passati tutti al verbo del Corano. Pare che solo il Nord Africa — illustre per santi, padri delia Chiesa, papi — contasse quasi 600 vescovadi e almeno altrettanti le regioni a Oriente dell’Egitto: a parte qualche nucleo di resistenza (e proprio oggi, con la crisi mediorientale, in via di sparizione) non è rimasto nulla di una così abbondante seminagione del Vangelo.

E ogni sforzo per ripiantarlo si è rivelato sterile. In poco più che vent’anni, dal 632 al 656, sotto i primi quattro califfi succeduti a Maometto, gli uomini del Corano dilagano dalla Tripolitania a Ovest sino all’Indo a Est e a Nord sino al Mar Nero. Regioni in gran parte già cristiane e che la fede in Gesù perderà. Come è potuto avvenire? Quale enigmatico significato può scorgere qui il credente? È ciò che martedi e giovedì vorremmo vedere. ( 388 )

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Considerazioni sull’islam / 3 – rubrica Vivaio

islam_espansioneAvvenire – rubrica Vivaio – 15 novembre 1990

Vittorio Messori

A partire dalla metà del 600 (continuiamo il discorso iniziato domenica e proseguito martedì) gli arabi musulmani partono dalle basi egiziane e penetrano nel Nord Africa “latino”, varcando quelli che erano stati i confini tra Impero Romano di Oriente e di Occidente. Come già in Egitto, le truppe dell’impero bizantino quasi non si oppongono, tra l’altro perché del tutto isolate dalle loro basi sul remoto Bosforo.

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