Charette. L’eroe proibito

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Francois Athanase Charette

Il Giornale

(articoli pubblicati il 4 – 11 e 19 agosto 1996)

Dalla Vandea alla Bretagna: viaggio revisionista attraverso due secoli di memorie. Tra spiagge, isole e fortezze la ricerca del filo rosso che grazie al passato ci fa capire il nostro presente

di Piero Buscaroli

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La Vandea italiana contro la falsa libertà

Rep_cisalpinaAvvenire 1 dicembre 1996

L’intervento del cardinale Giacomo Biffi al convegno sull’invasione francese del 1796

di Giacomo Biffi

Quando il 19 giugno 1796 i soldati francesi entrano in Bologna, che cosa portano idealmente nei loro zaini? La storiografia “recepta” e dominante non ha dubbi in proposito: portano, più o meno consapevolmente, gli immortali principi dell’89, che avrebbero poi risvegliato la nostra terra dal suo lungo letargo e avrebbero dato una spinta decisiva verso una società più libera e più democratica.

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Medioevo, epoca di cavalieri e di santi…

cavaliere_medioevoIl Corriere del Sud martedì 14 luglio 2015

di Domenico Bonvegna

 

“L’uomo medievale concepisce la realtà in rapporto con la dimensione ultraterrena, con il Mistero, con l’infinito, in una prospettiva escatologica”. Lo scrive il professore Giovanni Fighera nell’agevole testo edito da Ares, “Che cos’è mai l’uomo, perché di lui ti ricordi?”, che sto presentando da qualche giorno.

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Torquemada. Il Grande Inquisitore si scopre garantista

Torquemada

Tomas de Torquemada

Panorama 13 agosto 1998

È stato per secoli il simbolo della persecuzione cattolica. Ma una nuova corrente di studi rivaluta la sua figura. E un convegno in Vaticano svelerà cosa c’era sotto la maschera del torturatore.

 di Giorgio Ieranò

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Giordano Bruno, l’altra faccia del martire

Giordano BrunoLa Stampa 3 maggio 1998

Vittima della Chiesa oscurantista? Una studiosa smonta la leggenda del domenicano eretico

Fu consacrato come pensatore nell’800, e poi soprattutto da Gentile, per inventare un primato italiano in campo filosofico

Paolo Mieli

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Se il male vien dall’anima

oncologiaAvvenire, giovedì 27 ottobre 1988

 Si apre oggi a Milano il convegno internazionale di «psicooncologia»

 «L’infelicità è la causa del cancro». E il medico si scopre inutile

di Maurizio Blondet

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Dottrina sociale della Chiesa: i principi

I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale

Voci per un Dizionario del Pensiero Forte

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di Giovanni Cantoni

La dottrina sociale della Chiesa – il corpo dottrinale in progress, «fabbrica» destinata a chiudersi alla fine dei tempi, di cui sono note le grandi linee e le fondamenta, che si viene costituendo nel corso della storia a opera della Gerarchia e sulla base dell’elaborazione delle scienze umane soprattutto in risposta alle sollecitazioni delle diverse società umane – comporta tre aree: princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione.

Essa ha trovato una ricostruzione e un’esposizione compendiose di particolare rilevanza magisteriale nel Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato da Papa Giovanni Paolo II nel 1992, come strumento valido e legittimo della comunione ecclesiale e come norma sicura per l’insegnamento della fede, per la catechesi, cioè per l’attività attraverso la quale la Chiesa, in tutte le sue articolazioni, fa eco alla Sacra Scrittura, alla Tradizione apostolica, al Magistero ecclesiastico, proclamando i «diritti dell’uomo» senza anteporli ai «diritti di Dio», dei quali si deve riconoscere e rispettare il primato, non solo come fonti di precisi doveri corrispondenti, ma anche come fondamenta e garanzie dei primi.

Princìpi di riflessione

I princìpi di riflessione della dottrina sociale naturale e cristiana sono costituiti dal primato della persona umana, dal principio di sussidiarietà e da quello di solidarietà

Quanto all’uomo, se ne afferma la naturale socialità e si indica il fondamento della sua grandezza nell’esser stato creato a immagine e somiglianza di Dio, sì che la dimensione stessa di tale grandezza è la gloria di Dio: «La gloria di Dio – scrive Sant’Ireneo di Lione, un Padre della Chiesa, di lingua greca, del secolo II – è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è la contemplazione di Dio» (Adversus haereses 4,20, 7); l’uomo è posto al centro del mondo delle creature visibili e invisibili, tutte ricolme della gloria del Creatore e che ne proclamano la gloria, sì che, attraverso la storia del cosmo visibile e invisibile, s’innalza, come un Tempio immenso, un abbozzo del Regno eterno di Dio.

Nell’esecuzione di quest’opera, in base al principio di sussidiarietà l’uomo deve esser messo in condizioni di realizzare e all’uomo si deve domandare che realizzi tutte le proprie potenzialità prima di auspicare e di richiedere l’intervento di altri uomini a soddisfare le sue esigenze naturali – cioè derivanti dalla sua natura sociale, che lo rende strutturalmente bisognoso dell’aiuto di altri – e a integrare le deficienze dovute alle conseguenze del peccato originale. Questo rapporto fra il singolo e la società come insieme di altri uomini è modello anche per le relazioni fra i diversi corpi sociali intermedi, a partire dalla società matrimoniale, da quella familiare e oltre, fino alla comunità delle nazioni.

Ancora: nell’esecuzione di quest’opera, il vantaggio spirituale e materiale del singolo uomo dev’essere perseguito in armonia con il vantaggio dell’umanità come insieme di tutti gli uomini – è il principio di solidarietà – cioè nella prospettiva del bene comune di ogni società e della società universale inteso come insieme delle condizioni che, ai diversi livelli e nelle diverse situazioni, garantiscono e favoriscono le migliori situazioni di vita di ogni singolo, quindi la realizzazione sociale della gloria di Dio.

I princìpi evocati trovano la loro codificazione nella regolamentazione dei rapporti con Dio dell’uomo e della società che forma e di cui vive, implicito commento alla prima tavola del decalogo, che appunto li prevede nei primi tre comandamenti; quindi nell’implicito commento alla seconda tavola della stessa legge, che riguarda le relazioni fra gli uomini e degli uomini con i beni.

Criteri di giudizio

Quanto ai rapporti con Dio delle società – con particolare riguardo alle società politiche, cioè agli Stati – l’orizzonte costituito dal primo comandamento, «Non avrai altro Dio fuori di me», comporta un’accoglienza della verità della religione cristiana da parte della società in un modo quanto più possibile integrale, per cui anche la confessionalità dello Stato – cioè del profilo organizzativo della società – con il riconoscimento della missione unica della Chiesa cattolica, è obiettivo da perseguire, naturalmente sulla base inamovibile della libertà religiosa, che esclude ogni e qualsiasi coercizione sociale e civile in materia religiosa.

Le esigenze sociali insite nel secondo comandamento, «Non nominare il nome di Dio invano», comportano che i diritti alla libertà di coscienza, d’opinione e d’espressione non esonerino dal dovere di trattare con deferente considerazione l’esperienza spirituale di quanti credono in Dio e che, offendendo pubblicamente Dio, non si commetta soltanto una grave colpa morale, ma si violi pure un preciso diritto della persona al rispetto delle proprie convinzioni religiose. Circa il terzo comandamento, «Ricordati di santificare le feste», l’osservanza di un giorno settimanale di preghiera e di riposo, con effetto rigeneratore e tonificante sull’esistenza umana, dev’essere garantito contro l’asservimento al lavoro e ii culto del denaro.

Il quarto comandamento, «Onora il padre e la madre», espresso nella forma di un dovere da compiere, è uno dei fondamenti della dottrina sociale naturale e cristiana. Infatti riguarda la famiglia, fondata sul matrimonio eterosessuale, monogamico e indissolubile, offeso in radice dalla permissione del divorzio, che – con l’adulterio, l’incesto, l’omosessualità e ogni abuso sessuale – contrasta con il sesto comandamento, «Non commettere atti impuri».

Cellula originaria della vita sociale, la famiglia – alla quale spetta il diritto primario all’educazione dei figli e alla libera scelta della scuola – esercita a tale vita, educando implicitamente all’organicità sociale, quindi sia all’uguaglianza che alla diversità fra gli uomini, sia alla gerarchia che alla fraternità sulla base della comune paternità nonché all’identificazione dei propri diritti e dei corrispondenti doveri. Inoltre, della vita sociale, in ogni suo grado, è nello stesso tempo modello e modulo, sulla cui base realizzare la partecipazione alla vita politica – contrapponendo democrazia a totalitarismo, ma guardandosi dal totalitarismo democratico, cioè da una democrazia che voglia imporre i valori a maggioranza – ed esercitare l’autorità come servizio.

Il quinto comandamento, «Non uccidere», rifiuta l’omicidio diretto e volontario, l’aborto e l’eutanasia, nonché il suicidio e quei generi di suicidi promossi fisicamente dall’assunzione di droghe, con tutta l’attività criminale che la circonda, e moralmente dagli scandali provocati, di volta in volta, da leggi o da istituzioni, dalla moda o dall’opinione pubblica A tali scandali si affiancano la permissività dei costumi e l’intossicazione pornografica, dai quali mette in guardia il nono comandamento, «Non desiderare la donna d’altri».

Sempre al quinto comandamento rimandano il rispetto dell’integrità corporea e psichica e il divieto di ogni sperimentazione scientifica sugli esseri umani che li esponga a rischi sproporzionati o evitabili – neppure con il consenso esplicito del soggetto o dei suoi aventi diritto – nonché la condanna di rapimenti, di presa di ostaggi e di terrorismo. Nel quadro del rispetto della vi­ta si situano lecitamente sia la legittima difesa, la cui versione macroscopica è la guerra, che la pena di morte, pratiche da scongiurare con ogni sforzo ragionevole e possibile – soprattutto a fronte delle moderne tecniche di guerra e del moderno disprezzo per la vita – ricorrendo a modalità quali la trattativa diplomatica, l’arbitrato internazionale e la carcerazione.

Il settimo e il decimo comandamento, «Non rubare» e «Non desiderare la roba d’altri», fondano la liceità del diritto di proprietà privata, acquisita con il lavoro o ricevuta in eredità oppure in dono; non eliminano però l’universale destinazione dei beni, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto a essa e del suo esercizio, e condannano ogni forma di esproprio surrettizio, quale quello fiscale.

Al diritto di proprietà s’affianca quello d’iniziativa economica, nonché il rispetto dell’integrità della creazione. Comunque, la vita economica dev’essere garantita dallo Stato, che deve sorvegliare e guidare l’esercizio dell’attività e dei diritti nel settore, quindi dare un solido inquadramento giuridico pure al mondo finanziario.

Infine l’ottavo comandamento, «Non dire falsa testimonianza», non riguarda solo la veridicità nella testimonianza in sede giuridica e contrattuale, ma l’informazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale, nel suo contenuto sempre vera e – salve la giustizia e la carità – integra, e nel modo onesta e rispettosa delle leggi morali, dei legittimi diritti e della dignità dell’uomo.

Direttive di azione

I princìpi enunciati e le determinazioni della legge naturale e cristiana costituiscono la premessa di ogni ascesi sociale, cioè di ogni opera sociale e di ogni sforzo politico teso alla realizzazione delle condizioni massimali e ottimali della convivenza a ogni livello, da quello fra famiglie a quello internazionale, a partire dalla messa in atto di ogni gesto utile allo svolgimento di tale attività quindi alla preventiva conquista – ove necessario – e alla conservazione di una condizione di libertà che per il cristiano coincide con la libertas Ecclesiae, ma che si rivela anche libertas hominis, grazie appunto alla relazione fra il decalogo e la «legge naturale», per cui «fin dalle origini – come afferma sempre sant’Ireneo -, Dio aveva radicato nel cuore degli uomini i precetti della legge naturale.

Poi si limitò a richiamarli alla loro mente. Fu il Decalogo» (op. cit 4, 15, 1); quindi – con altra formulazione – grazie all’interdipendenza fra i «diritti di Dio» e i «diritti dell’uomo», che non solo non si escludono, ma vanno di pari passo. Perciò s’impone quella che Papa Giovanni Paolo II chiama – al n. 26 dell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 1984 – la «quadruplice riconciliazione» dell’uomo «con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato», nella cui prospettiva di ritorno ai princìpi si situano lo studio, la diffusione e l’applicazione della dottrina sociale della Chiesa, «[…] un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi àmbiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.

«Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia.

Su questi fondamentali princìpi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale»; cioè – secondo lo stesso Pontefice nella conclusione dell’esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici, del 1988 -«[…] contribuire a stabilire sulla terra la civiltà della verità e dell’amore, secondo il desiderio di Dio e per la sua gloria».

Per approfondire: vedi Congregazione per l’Educazione Cattolica, «Orientamenti per lo studio e l’Insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale», del 30-12-1988; don José Miguel Ibànez Langlois, «La dottrina sociale della Chiesa. Itinerario testuale dalla “Rerum novarum” alla “Sollicìtudo rei socialls”», trad. It., Ares, Milano 1989; e I miei «Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della “Laborem exercens”», In «Cristianità», anno IX, n. 78-79, ottobre-novembre 1981, pp. 1-20; «La buona battaglia di Alleanza Cattolica per la maggiore gloria di Dio anche sociale, Ibld.,» anno XI, n. 100, agosto-settembre-ottobre 1983, pp. 3-5; «Cattolici, politica e dottrina sociale della Chiesa», In «Quaderni di “Cristianità”», anno II, n. 4, primavera 1986, pp. 68-76; «La Contro-Rivoluzione e le libertà» in «Cristianità», anno XIX, n. 199, novembre 1991, pp. 6-12; «La democrazia nell’enciclica sociale “Evangellum vitae”» ibid. anno XXIII, n. 241-242, maggio-giugno 1995, pp, 3-8. Vedi pure «I documenti sociali della Chiesa. Da Pio IX a Giovanni Paolo II», a cura di Raimondo Spiazzi O. P., voi. I. «dal 1864 al 1965», e voi. Il, «dal 1967 al 1987», 2* ed. aggiornata, Massimo, Milano 1988; e «Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740», a cura di Ugo Bellocchi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, dal 1993, 6 voli., testi dal 1740 al 1903.

La donna-custode dell’essere umano

donna_MedioevoCristianità N. 162 ottobre 1988

Il 30 settembre 1988, nel corso di una conferenza stampa, il card. Joseph Ratzinger ha presentato la lettera apostolica Mulieris dignitatem, sulla dignità e sulla vocazione della donna, pubblicata dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II a conclusione dell’Anno Mariano. Il testo di tale presentazione è trascritto da L’Osservatore Romano del I’ ottobre, con il titolo proposto dal quotidiano vaticano. I riferimenti al documento pontificio rimandano all’edizione italiana della Libreria Editrice Vaticana.

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La docente di ateismo che perse la sfida

comunisti_cubaAvvenire 23 aprile 1998

Medico dell’Avana in Guinea Bissau: «Lavoravo con le suore pensando di portarle all’apostasia. Invece…»

Marco Respinti

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Il tramonto dell’uomo e la scommessa della fede

RatzingerAvvenire 11 marzo 1988

Diagnosi del card. Ratzinger sull’inquietudine

del nostro tempo

Nel mondo di oggi ridotto a puri fatti, regna il «Dio senza senso». La droga, il terrorismo e l’Aids: ecco i sintomi della crisi

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«Demolizione e nuovo cammmo. La risposta della fede alla crisi dei valori». E’ il titolo della lezione che il Pretetto della Congazione per la dottrina della fede, cardinale Joseph Ratzinger, ha tenuto all’università tedesca di Eichstätt. In quella occasione, la Facoltà di Teologia dell’università, dove il cardinale insegnò, conferì a Ratzinger la laurea honoris causa. Pubblichiamo il testo integrale di quel discorso (ripetuto all’università di Cambridge) che rappresenta. a nostro avviso, un importante contributo al dibattito che si è sviluppato in questi ultimi giorni attorno al ruolo della fede e della morale cattolica nella crisi dei valori della società secolarizzata. La lezione di Ratzinger e una diagnosi dei mali più inquietanti della nostra società, droga, terrorismo, Aids, alla luce di una nuova moralità che ha il suo fondamento nella fede cristiana.

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di Joseph Ratzinger

Nella letteratura moderna, nelle arti figurative, nel cinema e nel teatro domina per lo più una fosca immagine dell’uomo. Ciò che è grande e nobile, è sospetto in partenza, va strappato dal piedistallo e scrutato a dovere. Morale equivale a ipocrisia, felicità ad autoinganno. Chi si fida con semplicità del Bello e del Buono, o pecca d’imperdonabile semplicioneria o persegue intenti malvagi. L’atteg­giamento morale autentico è il sospetto, il colmo dei suoi successi è lo smascheramento. La critica della società è un dovere; i pericoli che ci minacciano, non li si prospetterà mai a tinte abbastanza vivaci e crude.

Certo, questa voglia di negativo non è illimitata. Le è simultaneo un dovere di ottimismo, a cui non si può contravvenire restando impuniti. Chi, poniamo, esprimesse l’opinione che non tutto è stato giusto, nell’evoluzione spirituale dell’epoca moderna e che in taluni ambiti essenziali è necessario tornare a ri­flettere sul patrimonio sapienziale comune alle grandi culture, avrebbe evidente­mente scelto il tipo di critica sbagliato. Si troverebbe improvvisamente dinanzi a una decisa apologia delle scelte moderne fondamentali; che la linea maestra del divenire storico sia progresso e che quindi il bene sia riposto nell’avvenire e in nessunissimo altrove, non è lecito contestarlo sul serio, di là d’ogni gusto per la negazione.

Il singolare dissidio intrinseco all’odierna critica sociale si fa palmarmente chiaro nelle reazioni radicalmente antitetiche prodottesi nell’opinione pubblica dominante di fronte a due avvenimenti che l’anno scorso sono stati avvertiti come le più virulente sfide morali alla nostra società.

L’una, la sciagura di Cernobyl. Per chi voleva farsi valere come «illuminato», non c’era discorso sufficientemente drastico per descrivere la pericolosità di quanto era accaduto. Doveva assolutamente vedervi una minaccia immane contro ogni vivente, alla quale l’unica risposta sufficiente sarebbe stato il congedo totale e definitivo dell’energia nucleare.

L’altro avvenimento è la rapida avanzata del nuovo morbo virale, l’Aids. Non sussiste dubbio che di Aids si ammalino, muoiano o siano già morte più persone che per gli effetti di Cernobyl e che il nuovo flagello dell’umanità rappresenti un pericolo accanto alla porta d’ognuno assai più di quello proveniente dalle centrali atomiche.

Ma chi osa affermare che l’umanità deve affrancarsi dal disordinato libertinismo sessuale, che conferisce all’Aids la sua capacità di diffusione, l’opinione pubblica lo mette al bando come un irrecuperabile oscurantista; un’idea del genere non può che esser deplorata e passata sotto silenzio dagli illuminati del nostro tempo. Da tutto questo si evince che oggi si danno una critica sociale ammessa e una proibita; ma la prima si arresta sulla soglia delle scelte di fondo, quelle che non è lecito mettere in questione.

II tema propostomi richiede indubbiamente una riflessione che non si lasci intimorire dai divieti suaccennati. In verità sarebbe errato, per contro, veder tutto nero nella nostra società e nella sua situazione morale. Non possiamo lasciarci impressionare dal superficiale ottimismo obbligatorio di certe correnti, ma non _ possiamo nemmeno cedere alla tentazione d’ignorare gli elementi positivi che esistono nella compagine dell’éra in cui viviamo.

LA SOCIETÀ DI OGGI. DIAGNOSI DEI MALI

Naturalmente non può esser questa la sede per descriverne esaurientemente la fisionomia morale. La nostra riflessione mira a trovare quel che sostiene e sovviene, quell’orientamento di fondo grazie al quale si possa durare il presente e così aprire la via al futuro. Ci interroghiamo sugli elementi caratteristici della nostra èra per individuare che cosa blocchi l’accesso alla via giusta e che cosa lo faciliti.

In questa prima parte della nostra analisi, quindi, tratte­emo non di difetti e virtù, che sempre si sono dati e sempre si daranno, bensì di segni caratteristici del nostro tempo. Quanto all’aspetto negativo, ne saltano agli occhi due che non sono propri d’altri periodi: il terrorismo e la droga. Sul piano positivo si fa sentire e valere una forte coscienza morale concentrata essenzialmente su valori della sfera sociale: libertà per gli oppressi, solidarietà con i poveri e svantaggiati, pace e riconciliazione.

La «prigione» della droga 

Cerchiamo d’esaminare questo problema più da vicino. Ricordo una disputa che ebbi con certi amici in casa di Ernst Bloch. Il discorso era caduto per caso sul problema della droga, che allora — alla fine degli anni Sessanta — cominciava appena a porsi. Ci si chiese come mai si potesse diffondere subitaneamente codesta tentazione e perché ad esempio nel Medioevo non fosse, com’è evidente, esistita affatto.

Tutti erano d’accordo nel ritenere insufficiente la risposta secondo cui a quel tempo erano troppo lontane le zone di coltivazione delle «erbe». Fenomeni quali la comparsa della droga non sono spiegabili in base a siffatte condizioni esteriori; derivano da bisogni o carenze più profondi nei quali, poi, è compreso anche l’aver a che fare con i problemi concreti dello spaccio e dell’acquisto.

Io azzardai la tesi secondo cui a quei tempi non c’era evidentemente quel vuoto spirituale che si cerca d’affrontare con la droga; in altri termini: la sete dell’anima, dell’uomo interiore, trovava una risposta che rendeva superflua la droga, Ho ancora in mente la esterrefatta indignazione con cui la signora Bloch reagì a questa mia proposta di risolvere la questione.

In base alla nozione di storia propria del materialismo dialettico era per lei sacrilega l’idea che in cose non proprio inessenziali altri tempi possano essere stati superiori ai nostri; nel Medioevo, un’epoca di oppressione e pregiudizi religiosi, era impossibile che le masse diseredate conducessero una vita più felice e interiormente più armonica che nella nostra, già alquanto progredita sulla via della liberazione: la logica della «liberazione» verrebbe a crollare completamente! Ma, allora, come spiegare il fenomeno? Quella sera l’Interrogativo rimase senza risposta.

Poiché la concezione materialistica del mondo non è la mia, continuo a ritenere giusta la tesi che sostenni allora Ma naturalmente occorre concretizzarla A tale scopo potrebbe offrire un utile avvio perfino il pensiero di Ernst Bloch. Per Bloch quello dei fatti è un mondo scadente. Il «principio Speranza» significa che l’uomo contraddice energicamente i fatti; si sa obbligato a superare lo scandente mondo dei fatti per crearne uno migliore.

Io direi che la droga è una forma di protesta contro i fatti, le realtà. Chi ne prende, si rifiuta di rassegnarsi al mondo dei fatti. Cerca un mondo migliore. La droga deriva dal disperare in un mondo sentito come il regno dei fatti nel quale alla lunga l’uomo non può resistere. Naturalmente vi si aggiunge parecchio d’altro: la ricerca d’avventura; il conformismo che induce a fare quel che fanno altri; l’abile affarismo degli spacciatori, e cose simili Ma il nocciolo è davvero la protesta contro una realtà sentita come prigione.

Il «gran viaggio» che le persone tentano nella droga, e la forma pervertita della mistica, il pervertimento dell’umana esigenza d’infinito, il no all’invalicabilità dell’immanenza e il tentativo d’infrangere le barriere della propria esistenza per slanciarsi nell’infinito. La paziente e umile avventura dell’ascesi, quell’avvicinarsi dell’ascendente, a piccoli passi faticosi, al Dio discendente, viene surrogato dal magico potere, dalla chiave magica della droga — la via morale e religiosa dalla tecnica—. La droga è la pseudomistica d’un mondo che non crede, ma che pure non riesce a liberarsi dall’assillo del paradiso. La droga, quindi, è un segnale d’allarme che conduce assai lontano; non solo disvela nella nostra società un vuoto a cui nessuno degli strumenti di cui essa dispone può metter riparo; addita altresì un’intima esigenza dell’essere umano, un diritto che si fa valere in forma degenerata se non trova il soddisfacimento giusto.

Il terrorismo emergenza morale

Il punto d’avvio del terrorismo è strettamente affine a quello della droga: anch’esso all’inizio è protesta contro il mondo così com’è e l’aspirazione a un mondo migliore. Dalle sue radici il terrorismo è un moralismo, certo deviato, che diventa una crudele parodia delle mete e vie autentiche della moralità (0). Non è un caso che abbia avuto i suoi esordi nelle università, e precisamente nella cerchia della moderna teologia, in giovani provenienti da ambienti a marcata impronta religiosa.

Il terrorismo della prima ora fu un entusiasmo religioso deviato verso la realtà terrena, un’attesa messianica trasposta in fanatismo politico. La fede nell’al di là era infranta o era comunque diventata irrilevante, ma il criterio dell’attesa ultramondana non fu buttato via: fu solo applicato al mondo presente. Dio non fu più considerato come realmente operante, ma come prima e più che mai fu preteso il compimento delle sue promesse.

«Dio non ha altre braccia che le nostre»: vuol dire che l’adempimento delle sue promesse può e deve esser attuato da noi stessi La nausea del vuoto spirituale e intellettuale della nostra società, l’aspirazione al totalmente altro, la pretesa alla salvezza incondizionata senza barriere e senza confini — questa è, per così dire, la componente religiosa del fenomeno terroristico, quella che gli conferì lo slancio d’una passione protesa alla totalità, l’anticompromissorietà e il preteso idealismo.

Tutto questo trae la sua pericolosità dal deciso terrenismo della speranza messianica: dal condizionamento si pretende l’incondizionato, dal finito l’infinito. Questa intrinseca contraddizione palesa la vera tragicità del fenomeno in cui la grande vocazione dell’uomo diventa strumento della grande menzogna

Ma la non verità della promessa terroristica fu mascherata, dalla media dei coinvolti, con la combinazione di attesa religiosa e moderna intellettualità. Quest’ultima consiste anzitutto nel trascinare tutti i criteri morali tradizionali davanti al tribunale della ragione positivistica per subirvi un «retro interrogatorio» ed esservi «smascherati» come indimostrati. La morale risiede non nell’essere, ma nel futuro.

E’ l’uomo, che deve progettarla. L’unico valore morale che si dia, è la società fu­tura. In cui sarà realizzato tutto quello che ora non esiste. Nel presente, quindi, la morale consiste nel darsi da fare per codesta società futura. Ne consegue che il criterio morale nuovo suona così: morale è ciò che serve all’avvento della nuova società. Ma ciò che serve può esser individuato con la metodologia scientifica della strategia politica, con la psicologia e la sociologia.

La morale diventa «scientifica»; ha per meta non più un «fantasma» — il cielo — ma un fenomeno producibile: la nuova èra. Ecco quindi che il Morale e il Religioso sono diventati realistici e «scientifici». Che si vuole di più? Ci si può meravigliare che siano stati proprio dei giovani idealisti a sentirsi stimolati da codeste promesse?

Solo a guardar bene da vicino si fa visibile il biforcuto dell’insieme, si fa udibile il ghigno di Mefistofele. «Morale è ciò che crea futuro»; con questo criterio può esser «morale» anche l’assassinio; sulla via dell’umanizzazione può servire anche il disumano. In fondo ciò non è altra logica che quella secondo cui a «risultati che siano di fatto altamente «scientifici» è senz’altro lecito sacrificare degli embrioni.

Ecco quindi che oggi il terrorismo si trasferisce intatto su campi di battaglia un po’ più sublimi, con tutte le benedizioni della scienza e dello spirito «illuminato».

E’ vero, il rozzo terrorismo dei trasformatori della società è stato represso nelle società occidentali ha troppo minacciato le loro abitudini di vita; l’immoralità della sua morale si è tetta troppo appariscente. Ma non ha ancora avuto luogo un reale rifiuto dei suoi fondamenti; lo si evince anche dal fatto che si continua a raccomandarlo spensieratamente a paesi del Terzo mondo, che giacciono abbastanza lontani da noi Ora come prima viene considerato pressoché immorale chi per il Terzo mondo non esalta le parole d’ordine che non preferirebbe non veder realizzate nel proprio ambiente. Lo schierarsi per le ideologie militanti della liberazione appare come una sorta di compensazione morale del fatto che chi se la passa bene non ha nessuna voglia di cambiar niente d’essenziale nella propria vita.

In Europa si è avuto grazieadio un esteso calo di prassi terroristica; ma i fondamenti spirituali del terrorismo non sono stati soggetti a superamento e finché tanto non sarà avvenuto, esso può ridivampare in qualsiasi momento.

Religione e morale

Si pone quindi imperiosamente l’interrogativo: in questi fondamenti spirituali qui appena sommariamente accennati, che cosa è di veramente e propriamente stravolto? Dove sta esattamente l’errore?

Prima, però, di andare al fondo della questione, dobbiamo ancora completare il nostro inventario concernente la società attuale. Abbiamo detto che quali fenomeni negativi emergenti sussistono l’avanzata della droga e la minaccia del terrorismo, ma che quale fenomeno positivo sussiste altresì una forte nuova tensione verso grandi valori morali, come sono libertà, giustizia, pace. E’ di qui che forse può venirci la risposta alle minacce del nostro tempo?

E’ assodato anzitutto che i valori per noi dominanti all’orizzonte s’identificano piamente con quelli che furono e sono proclamati come valori-obiettivi anche dai movimenti violenti. Ma l’abuso non scredita i valori in quanto tali. Nell’insieme della giovane generazione odierna il nuovo sta in questo: quegli obiettivi sono ora proiettati sul piano del concreto agire politico e sociale, e sono perciò spogliati del loro carattere arazionale, violento.

Si abbandonano le ideologie, e pertanto può ritersi puro lo sguardo rivolto al bene. E’ lecito ritenere di fatto che ciò sia un motivo di speranza: il profondo messaggio divino può esser sepolto e travisato, ma prorompe sempre di nuovo e si scava una via. In tale contesto rientra un altro fatto: si fa avvertibile un nuovo desiderio di raccoglimento, di contemplazione, di vera sacralità, diciamolo pure: di contatto con Dio.

Si manifesta dunque la spinta di forze che ci fanno sperare. Ma come se ne deve trovare la sorgente perchè non vadano disperse, cosi questi impulsi necessitano di purificazione e ordinamento, perchè possano ottenere effetti autentici La nuova voglia di religiosità può ben facilmente essere stravolta in esoterismo; può svaporare in mero romanticismo. Due sono gli ostacoli che le riesce oltremodo difficile scavalcare: sembra difficile accettare la continuità di un’educazione permanente, d’una via dritta che non si discosti dall’ordine della volontà e dell’intelletto per deviare verso i soddisfacimenti immediati che dà la tecnica dei sentimenti.

Ancora più difficile sembra che codesta volontà possa sfociare nel vitale contesto comunitario d’una «istituzione» di fede, in cui la religione sia diventata, in quanto fede, configurazione e cammino comunitari. Ma là dove questo doppio ostacolo non viene superato, la religione degenera in bene voluttuario e non sprigiona nessuna forza morale capace di plasmare sia la comunità sia il singolo. Intelletto e volontà vi sono dimissionari; non resta che il mero sentimento, ed è troppo poco.

Analogamente sono in pericolo anche i nuovi impulsi morali. Il loro fianco scoperto è il gran vuoto in tetto di valori etico-individuali L’attenzione si appunta, tutto sommato, sulla realtà comunitaria. Certo, va riconosciuto che spesso la dedizione ai gruppi marginali si esprime anche in una disponibilità personale, che determina ammirevoli motivazioni al servizio. In complesso è rilevabile piuttosto una certa quale debolezza in fatto di capacità motivazionale personale.

E’ più facile far dimostrazioni per i diritti e le libertà del proprio gruppo che praticare quotidianamente la disciplina della libertà e la pazienza della carità per i sofferenti o, addirittura, rinunciando a gran parte delle proprie libertà individuali, vincolarsi per tutta la vita a un servizio siffatto. Salta agli occhi che la capacità di motivare al servizio è evidentemente diminuita in misura decisiva anche nella Chiesa: ordini religiosi che si consacrano alla cura di malati e anziani, non trovano quasi più nuove leve. Si preferisce piuttosto operare in servizi «pastoralmente» più pretenziosi.

Ma che c’è di più propriamente «pastorale» di un’esistenza spesa senza pretenziosità per i sofferenti? Per importante che sia la qualificazione professionale a questi servizi, senza un profondo movente morale e religioso essi si fossilizzano in mera tecnica e non offrono più nulla di umanamente decisivo.

Il lato debole dell’odierna rifioritura morale sta dunque anzitutto, nella debolezza delle motivazioni etico individuali. Ma dietro c’è qualcosa di più profondo: nella società a impronta tecnologica i valori morali hanno perduto la loro evidenza e quindi anche la loro pretesa di porsi come cogenti. Essi pongono mete in ordine alla totalità, per le quali ci si entusiasma e infervora; ma che mi obblighino anche qualora le cose si mettano per me sul negativo, anche quando sono in pericolo la mia propria libertà e la mia pace personale, non è ragionevole.

Ma allora quelle finalità sono poste per restare largamente inattuate, e lo slancio con cui le si evidenzia nelle dimostrazioni di piazza e le si propugna imperterritamente nei discorsi, probabilmente è anche compensazione di codesto manco d’efficacia concreta. Eccoci quindi ritornati all’interrogativo che abbiamo lasciato in sospeso: dove si origini precisamente l’errore in quella specie di moralismo che finisce nel terrorismo. Questo errore, infatti, è anche la vera radice di quasi tutti gli altri problemi della nostra epoca; i suoi frutti vanno ben oltre l’area dell’irradiamento terroristico.

LA RISPOSTA DELLA FEDE ALLA CRISI DEI VALORI

Cerchiamo d’avvicinarci lentamente, direi quasi a tastoni, alla sostanza di quanto c’interessa. Ho detto che la moralità ha perduto la sua evidenza Nella società moderna solo un numero ridotto di persone crede ancora nell’esistenza di comandamenti divini, e ancora più rari sono i convinti che questi comandamenti — se mai se ne diano — ci sono trasmessi senza errori dalla Chiesa, dalla comunità religiosa. Che un’altra volontà, quella del Creatore, ci chiami e che nella sintonia della nostra con la sua si realizzi il bene della nostra natura, è un’idea fattasi estranea alla gran parte degli uomini

A Dio resta tutt’al più la funzione di aver dato il via all’esplosione primordiale; che sia operante in mezzo a noi e l’uomo sia soggetto al suo volere, appare ai più come un’idea ingenua, antropomorfica di Dio, con la quale l’uomo sopravvaluta se stesso.

E’ pur vero che nella storia delle religioni e dei costumi non è del tutto assente la concezione d’un rapporto personale fra il Dio creatore e ogni singolo uomo, ma nella sua forma autentica essa è limitata alla sfera della religione biblica. Quel che invece è stato comune a quasi tutta l’umanità premoderna, si pone di fatto sulla stessa linea: la convinzione che nell’essere dell’uomo risiede un dover essere; la convinzione che egli non s’inventa da sè la morale in base a calcoli di opportunità, ma la trova preesistente nella natura delle cose.

Assai prima dell’eruzione del terrorismo e dell’irruzione della droga lo scrittore e filosofo inglese C. S. Lewis additò quel pericolo mortale dell’abolizione dell’uomo che risiede nella distruzione dei fondamenti della nostra morale, sottolineandone l’evidenza che interessa l’umanità tutta, poiché su di essa poggia la sopravvivenza dell’uomo in quanto uomo. Egli dimostra inoltre, con una scorsa attraverso tutte le grandi culture, come tale evidenza sussista ovunque. Non ri­manda solo all’ eredità etica dei Greci quale fu articolata particolarmente da Platone; Aristotele e la Stoa, che intesero indurre l’uomo a cogliere la razionalità dell’essere, onde postularono un’educazione nella «connaturalità essenziale alla ragione»; ma si rifà anche al primo induismo e alla sua nozione di Rta, che significa l’armonia fra ordine cosmico, virtù morali e cerimoniale del tempio.

Lewis sottolinea in particolar modo la dottrina relativa al Tao dei cinesi «Esso è la natura, esso è la via, la strada. Esso è il modo in cui tutto si muove… Esso è anche la via che ogni uomo deve battere imitando questo moto cosmico e sopracosmico, orientando tutto il suo muoversi su questo grande modello (1). Ma Lewis fa riferimento anche alla legge d’Israele, che collega fra ai loro cosmo e storia e vuol essere espressione della verità dell’uomo e del mondo tutto.

Nell’ambito di questo sapere delle grandi culture si hanno differenze di dettaglio, ma assai più pronunciato di esse è il grande fondo comune, che si prospetta come l’evidenza originaria della vita umana: l’insegnare l’esistenza di valori obiettivi, che si affermano nell’essere del mondo; il credere che si danno comportamenti i quali, conformi al messaggio del Tutto, sono veri epperò buoni, mentre se ne danno altrettanti che, difformi dall’essere, sono realmente e sempre falsi

L’umanità moderna si è fatta persuadere che le morali dell’umanità si contraddicono radicalmente a vicenda, e così anche le religioni. In entrambi i casi si è tratta una semplice conclusione: che tutto, morale e religione, è invenzione umana, le cui incongruenze abbiamo potuto finalmente individuare e rimpiazzare con la conoscenza razionale. Ma questa diagnosi è superficiale al massimo. Si aggrappa a una serie di particolari che enumera e giustappone disordinatamen­te, per approdare così alla sua banale sicumerosa saccenteria.

La realtà è che l’intuizione basilare del carattere morale dell’essere in quanto tale e della necessaria armonia dell’essere umano con il messaggio della natura è comune a tutte le grandi culture, e pertanto lo sono anche i grandi imperativi morali C.S. Lewis ha vigorosamente formulato cosi «Quello che per motivi pratici ho denominato Tao e che altri preferiscono chiamare legge naturale o morale tramandata o primo principio della ragion pratica o verità fondamentali, non è un sistema di valori E’ l’unica fonte di tutti i giudizi di valore. Se la si respinge, si rigetta ogni valore. Se si salvaguarda un valore qualsiasi si salvaguarda anche quella. Il tentativo di rifiutarla e di mettere al suo posto qualcosa di nuovo è una contraddizione in sé…» (2).

L’abolizione dell’uomo

Il problema dei tempi moderni cioè il problema morale della nostra epoca, sta nell’essersi essa separata da quella evidenza originaria di cui si è detto. Per intendere realmente il fenomeno ci occorre descriverlo un po’ più precisamente ancora. E’ caratteristico del pensiero improntato dalle scienze naturali scavare un abisso tra il mondo dei sentimenti e il mondo dei fatti. I sentimenti sono soggettivi, i fatti sono oggettivi

I «fatti», vale a dire ciò che è constatabile al di fuori di noi stessi, non sono altro che «fatti», nuda effettualità. Aggiungere all’atomo chissà quali altre qualità, magari di natura morale o estetica, oltre alle sue determinazioni matematiche, è considerato mero prodotto della fantasia. Ma codesta riduzione della natura a fatti esaminabili e quindi anche padroneggiabili, ha come conseguenza che dal di fuori di noi stessi non ci perviene più alcun messaggio morale.

Ora ciò che è morale, come pure ciò che è religioso, appartiene alla sfera del soggettivo; non ha posto nell’oggettivo. Se è soggettivo, è creazione dell’uomo. Non ci preesiste; siamo noi a preesistergli e a farlo. Per sua natura questo movimento di «obiettivizzazione», che «scruta» le cose le rende padroneggiabili, non conosce limiti. Già Auguste Comte postulava una fisica dell’uomo. A poco a poco si sarebbe dovuto rendere scientificamente comprensibile, cioè assoggettabile alla conoscenza naturalistica, anche l’oggetto naturale più difficile: l’uomo. Questi sarebbe allora scrutato esattamente, come lo è già la materia (3).

Psicanalisi e sociologia sono le modalità fondamentali per tradurre in realtà il postillato. Ora (a quanto pare) si possono spiegare i meccanismi per i quali l’uomo arrivò a convincersi che la natura esprime una legge morale. Senonchè l’uomo scrutato in tal modo non è più uomo; in base alla natura stessa di tale tipo di conoscenza non può esser altro che pura effettualità anche lui «Chi scruta tutto, non vede più nulla», sentenzia Lewis (4). Le teorie dell’evoluzione, elaborate in visione onnicomprensiva del mondo, soggellano questa ottica e al tempo stesso ne tentano una compensazione (5).

Naturalmente (esse dicono) tutto è diventato quel che è senza logica di sorta, o meglio con la mera logica dei fatti. Ma questo svolgimento, questo farsi del mondo puramente meccanico, ora lo si può ricostruire con le teorie sul caso e la necessità, con la compiuta dottrina evoluzionistica.

Le conclusioni che si traggono dall’«evoluzione», il riprodurne e diffonderne i risultati, sarebbero quindi la nuova morale; il fine dell’evoluzione e l’ottimizzazione delle specie. La sopravvivenza ottimale della specie «uomo» sarebbe ora il valore morale basilare; le regole secondo cui lo si fa, sarebbero gli ordinamenti morali particolari.

Solo apparentemente tutto questo e un ritorno all’ascolto del magistero morale della natura In realtà ora regna il dio Senzasenso, poiché l’evoluzione è di per se stessa priva di senso. Regna il calcolo e regna la forza

La morale è liquidata, ed é liquidato l’uomo in quanto uomo. Perchè mai ci si debba aggrappare alla sopravvivenza di questa specie, non lo si può più render comprensibile.

Ancora una volta vorrei dar la parola a C. S. Lewis, che nel 1943 già descriveva con tagliente lucidità questo processo. Egli vi scorgeva il vecchio patto col mago: «Dammi l’anima tua, e ne riceverai in cambio potere. Ma una volta che avremo ceduto l’anima, cioè noi stessi, il potere che ce ne viene in cambio non riapparterrà più… E’ in potere dell’uomo concepire se stesso come mero “oggetto naturale”… L’obiezione pertinente è questa: l’uomo che vuol concepirsi come materiale grezzo, materiale grezzo diventa..» (6).

Questi moniti, Lewis li formulò durante la seconda guerra mondiale, vedendo minacciata dalla distruzione della morale anche la capacità di difendere la patria dall’assalto della barbarie. Egli, però, era sufficientemente obiettivo per soggiungere: «A questo proposito non penso unicamente e nemmeno soprattutto a coloro che al momento sono nostri nemici politici. Il processo che distruggerà l’uomo, nel caso che non lo si blocchi, si svolge tanto palesemente tra comunisti e democratici quanto tra fascisti…» (7).

Questo accenno mi sembra di grande importanza: le moderne ideologie, le contrapposte visioni del mondo hanno in comune il punto d’avvio nella negazione della legge morale e naturale e nella riduzione del mondo a «puri» fatti. Diversa è la misura in cui esse ritengono illogicamente qualcosa degli antichi valori, ma nel nocciolo sostanziale esse sono minacciate dallo stesso pericolo.

La falsità vera e propria di quell’ideologia per la quale droga e terrorismo sono soltanto sintomi, consiste nel ridurre il mondo a fatti e nel restringere la ragione alla percezione del quantitativo. La peculiarità dell’uomo viene ricacciata nel soggettivo e diviene così irreale. L’«abolizione dell’uomo», che consegue dall’assolutizzare un unico modo di conoscenza, è al tempo stesso l’evidente falsificazione di questa visione del mondo.

L’uomo esiste, e chi in forza della sua teoria, è costretto a tirarlo giù nella sfera dell’apparato scrutabile e smontabile, vive in un restringimento di prospettiva a cui sfugge proprio l’essenziale.

Se la scienza mira a una cognizione il più possibile comprensiva e adeguata alla realtà, una forma metodologica così assolutizzata è il contrario della scienza Per dirla in altri termini: anche la ragion pratica su cui poggia la conoscenza propriamente etica è una ragione reale, e non mera espressione di sentimenti soggettivi senza valore gnoseologico.

Dobbiamo reimparare a capire che le grandi cognizioni morali dell’umanità sono altrettanto razionali e altrettanto vere, anzi più vere di quelle sperimentali proprie della sfera naturalistica e tecnologica. Sono più vere perchè più profondamente raggiungono il proprio dell’essere e sono più determinanti a che l’uomo sia uomo.

La fede e l’etica

Ne risultano due corollari. L’uno è che il dover essere morale non è per l’uomo prigionia da cui egli debba liberarsi per poter fare finalmente quel che vuole.

Il dover essere morale costituisce la sua dignità, e se egli se lo scuote di dosso, non diventa più libero, ma si degrada al livello di apparato, di mera cosa. Se non si dà più dover essere a cui egli possa e debba rispondere in libertà, non si dà più la sfera della libertà, n riconoscere l’esistenza della moralità è l’autentico contenuto della dignità umana; ma non la si può riconoscere senza viverla al tempo stesso come obbligo di libertà.

La morale non è il carcere dell’uomo, ma il divino che è in lui.

Per esporre il secondo corollario dobbiamo rifarci ancora una volta all’idea basilare che abbiamo enucleata poco fa: la ragion pratica (o morale) è ragione nel senso più alto della parola, poiché si spinge nel mistero del reale più a fondo della ragione sperimentale. Ma ciò vuol dire che la fede cristiana non è limitazione o paralisi della ragione; al contrario, è solo essa a darle la libertà di compiere quel che le è proprio.

Anche la ragion pratica, infatti, vuol esser garantita dall’esperimento, ma da un esperimento maggiore di quello che si può effettuare nei laboratori: l’esperimento della comprovata umanità in atto, che può aversi solo dalla comprovata storia in atto. Per questo la ragion pratica è stata sempre inquadrata nel grande contesto d’esperienza e collaudo di onnicomprensive visioni etico-religiose.

E come la scienza della natura si alimenta delle geniali aperture prodotte da grandi personalità, così anche queste sistematizzazioni dell’ottica morale aderiscono per un verso alla comunitarietà vissuta, ma per l’altro alla particolare acutezza visiva di singole personalità, alle quali sia riuscito ficcar lo viso a fondo nel Tutto. Le grandi sistemazioni etiche della Grecia, del vicino ed estremo Oriente, di cui abbiamo discorso brevemente dianzi, hanno perduto qualcosa di sostanziale nella loro validità, ma oggi possiamo considerarle come affluenti che finiscono con lo sfociare nel gran fiume dell’interpretazione cristiana del reale.

Di fatto la visione etica propria della fede cristiana non è nulla di peculiarmente cristiano, è invece la sintesi delle grandi intuizioni etiche dell’umanità, che muove da un centro nuovo, che tutte le abbraccia in un tutto coerente.

Questa armonia della sapienza etica oggi viene spesso fatta passare per argomento contro l’obbligatorietà dei comandamenti di Dio proclamati nella Bibbia. Se ne evincerebbe, secondo tale argomento, che la Bibbia non ha nessunissima direttiva etica, ma fa di volta in volta sue le cognizioni morali del suo ambiente.

In sede morale, quindi, avrebbe valore solo ciò che in ogni singola epoca viene riconosciuto come razionale, ed eccoci arrivati al deragliamento della morale in mero calcolo, vale a dire all’abolizione della moralità nel senso proprio della parola. E’ vero il contrario: l’intrinseca armonia della direttiva morale basilare, che senza dubbio fu sviluppata e chiarificata gradualmente, è la migliore prova che la morale è stata non inventata ma rinvenuta. Rinvenuta dove? Qui la sfera della rivelazione e quella della ragione s’inembricano intimamente l’una nell’altra. Da una parte le cognizioni di cui parliamo sono state scoperte, come s’è detto, da certuni a cui è stato concesso di vedere più a fondo.

Un siffatto vedere, che trascende le prestazioni cognitive del singolo, la chiamiamo «rivelazione». Ma ciò che viene visto in tal modo è essenzialmente nella sfera etica, il messaggio morale insito nella creazione stessa. Al contrario, infatti, di quanto pretende uno scientismo totalizzante, la natura non è una montatura messa su dal caso e dalle sue regole di gioco, ma è creazione. In essa si esprime il Creator Spiritus.

Non si danno, pertanto, solo leggi naturali intese come funzioni studiate dalla fisica; la legge naturale nel senso vero e proprio è una legge morale. E’ la creazione stessa a insegnarci come poter essere uomini nel modo giusto.

La fede cristiana, che ci aiuta a riconoscere la creazione come creazione, non è una paralisi del raziocinio; è essa a dare alla ragion pratica lo spazio vitale in cui potersi esplicare. La morale che insegna la Chiesa, non è un onere speciale riservato ai cristiani è la difesa dell’uomo dal tentativo di abolizione. Se — come abbiamo visto — la morale è non riduzione in schiavitù ma affrancamento dell’uomo, allora la fede cristiana è avamposto della libertà umana.

Vorrei aggiungere un’ultima considerazione. Quel che m’interessa a questo proposito è stato insuperabilmente espresso dal poeta romano Giovenale:

Summum crede nefas praeferre pudori et praeopter vitam vivendi perdere causas.

«Ritieni somma nequizia preferire la propria sopravvivenza al rispetto e per voglia di sopravvivere perdere le ragioni del vivere». Vale a dire: vi sono valori per i quali vale la pena di morire, giacché una vita ottenuta a costo del loro tradimento poggia sul tradimento delle ragioni del vivere, ed è quindi una vita intimamente distrutta Potremmo dirla anche altrimenti: là dove non è più nulla per cui meriti morire, non merita più nemmeno vivere; la vita ha perduto il suo fine.

E ciò vale non solo per ì singoli; anche un paese, un’intera civiltà, possiede valori che giustificano il mettere in gioco la vita se codesti valori non ci sono più, vengono a mancare anche le ragioni e le forze che sorreggono la coesione sociale e mantengono un paese come comunità di vita.

Eccoci tornati alle considerazioni accennate all’inizio circa la disputa sulla droga

L’uomo ha bisogno della trascendenza La sola immanenza gli va stretta Egli è fatto per qualcosa di più. La contestazione dell’aldilà ha portato sulle prime a un’appassionata glorificazione della vita, ad affermarla ad ogni costo. Tutto si deve ottenere in questa vita non se ne dà un’altra La sete di vita In sete di ogni sorta di soddisfacimento, fu esasperata all’estremo.

Ma ben presto se ne è originata una tremenda svalutazione della vita questa non reca più il sigillo del sacro; la si butta via, se non piace più: i parti plurimi deformi, l’aborto, l’eutanasia il suicidio sono i derivati naturali di questa scelta di fondo: dell’aver negato l’eterna responsabilità e l’eterna speranza La sete di vita si rovescia in nausea della vita e nella nullità d’ogni soddisfacimento. Anche qui la conseguenza è l’abolizione dell’uomo.

L’uomo ha bisogno dell’ethos per essere se stesso. Ma l’ethos ha bisogno della fede nella creazione e nell’immortalità; ha bisogno, cioè, dell’obiettività del dover essere e della definitività di responsabilità e compimento. L’impossibilità d’una vita umana che prescinda da tutto questo è la prova indiretta a favore della fede cristiana e della speranza die ne discende.

Questa speranza è la salvezza per l’uomo, anche e soprattutto oggi. Il cristiano può essere lieto della sua fede. Senza il lieto annuncio della fede la vita umana non regge a lungo. La gioia di credere è la responsabilità del cristiano: in questa ora della nostra storia dovremmo feria nostra con nuovo animo.

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Note

(0) Volendo salvare il gioco fonetico dell’originale tedesco (Abbruch e Aufbruch, alla lettera: demolizione e partenza, avvio), si potrebbe forse azzardare: «Il marcio e la marcia», o meglio: «Dal marcio in marcia!».

(1) CS. Lewis, Die Abschaffung des Menschen, Einsiedeln 1979, p. 27 (cfr. L’abolizione dell’uomo, tr. F. Marano, Milano 1979).

(2) ibidem, p. 49.

(3) Cfr. H. de Lubac, Über Gotthinaus. Tragödie des atheistischen Humanismus, Einsiedeln 1984, pp. 95-184 (Il dramma dell’umanesimo ateo, tr. L Ferino, Brescia 1982); H.U. von Balthasar, Die Gottesfrage des heutigen Menschen, Wien 1956.

(4) Lewis, op. Cit, p. 82.

(5) Cfr. al riguardo R. Spaemann – R. Low – P. Koslowski, Evolutionismus und Christentum. Acta humaniora VCH1986; W. Broker, Schöpfung als Auftrag, in: W. Baier e altri, Weisheit Gottes – Weisheit der Welt Festschrift für 3. Ratzinger, St Ottilien 1987,I. pp. 115-126

(6) Lewis,op.cit.,p.74.

(7) ibidem, p. 75

1988 Katholische Universität Eichstatt

1988 L’Avvenire (traduzione di Luciano Tosti)