La laicità del matrimonio

matrimonioStudi Cattolici n.559 settembre 2007

di Federico Reggio

Non è infrequente oggi in ambito cattolico sentire richiami in favore della sacralità del matrimonio: più raro — e sicuramente provocatorio – è sentirne invece rivendicata la «laicità», a significare che lo «statuto» e le specificità di questo istituto sociale – prima ancora che giuridico – non sono riconoscibili e argomentabili solamente su una base religiosa, bensì trovano un fondamento razionale e, come tale, difendibile su un piano di «scelte di civiltà».

La laicità del matrimonio è stato appunto il tema su cui è incentrato il III «Laboratorio sublacense», appuntamento di studio e dibattito organizzato dalla Fondazione sublacense Vita e famiglia nei giorni 13-15 luglio a Subiaco (1)

No alla cultura del compromesso

Che il tema sia oggi non solo attuale bensì urgente appare dal fatto che — come ha ricordato la presidente della Fondazione, on. Luisa Santolini – la discussione sulla specificità del matrimonio come unione civile stabile e pubblica tra uomo e donna ha subito in questi ultimi anni un’accelerazione per certi versi inaspettata, oggi culminante con il dibattito relativo al riconoscimento in Italia delle unioni di fatto, anche (o forse dovremmo dire soprattutto) omosessuali. Si tratta di una questione che, per quanto coinvolga il mondo degli intellettuali, non può essere pensata solo come un oggetto di dissertazione teorica.

La riflessione sulla specificità del matrimonio come istituto personale e sociale- come ha chiarito il filosofo del diritto Francesco D’Agostino, moderatore degli interventi e del dibattito – coinvolge in prima persona la gente, nelle sue scelte di vita e nei suoi interessi. Lo ha testimoniato il 12 maggio scorso la piazza del Family day, che ha chiaramente ribadito la dimensione «popolare» della tutela della famiglia. La manifestazione ne ha rivendicato anche – secondo il portavoce della manifestazione, Savino Pezzotta – la laicità, perché «al Family day non si è difeso il sacramento del matrimonio, ma il suo essere una istituzione laica, attraverso la quale “leggere” la società nella sua struttura portante».

Il fatto, quindi, che una parte del mondo cattolico oggi sia in prima fila nella difesa di questa dimensione civile della famiglia non significa che il problema evidenzi una connotazione esclusivamente religiosa: sembra significare piuttosto che esiste una componente sociale che ha rivelato, per cultura e valori, una sensibilità e un coraggio civile altrove dimenticati. A questo fa eccezione, ricorda l’ex sindacalista, una cultura del compromesso e dell’insabbiamento radicata in taluni settori anche istituzionali del mondo cattolico.

A ogni modo — come ha ricordato Pezzotta proponendo un breve excursus della storia italiana – il mondo cattolico non ha bisogno di prendere lezioni di laicità, visto che su molti fronti (si pensi all’istruzione, alla sanità, all’assistenza sociale) ha contribuito in modo determinante all’edificazione civile del nostro Paese, promovendo e non intaccando né la democraticità delle sue istituzioni, né tanto meno la libertà di pensiero.

Il guaio è che – com’è noto – in Europa per laicità s’intende totale indifferenza delle istituzioni nei confronti delle scelte personali dei singoli, come se queste fossero a loro volta indifferenti per la vita e l’equilibrio di una società. Sicché la famiglia è una opzione fra le tante attraverso le quali può declinarsi una «comunione d’affetti» e, con essa, una primigenia forma di organizzazione sociale.

In un simile contesto – ad avviso di chi scrive – anche la piazza del Family day rischia di divenire «una voce fra tante», degna di tutela al pari di altre situazioni, ma sprovvista di una reale unicità. Se per Pezzotta la riproposizione di un Ddl in materia di unioni di fatto da parte del Parlamento pone un serio «problema democratico», ci si chiede se la risposta debba ricercarsi in una seconda «convocazione» della piazza e non, piuttosto, in una seria presa in esame della coerenza dell’agire politico dei parlamentari stessi.

Il pluralismo può essere un valore, infatti, a patto che esso non comporti l’indifferenza verso i contenuti di cui le singole voci di una società plurale si fanno portatrici o, addirittura, la condanna di quanti – sulla base di argomenta­zioni razionali – vogliano rivendicare la specificità e la preferibilità di taluni valori e comportamenti sociali rispetto ad altri. La tendenza, sempre più diffusa nel contesto europeo, di tacciare di «razzismo» ogni opinione che voglia rivendicare la specificità di determinate situazioni appare con singolare evidenza in un settore limite e di avanguardia della discussione bio-giuridica – ma strettamente legato con la tematica del matrimonio – ossia quello dell’identità sessuale.

L’identità sessuale

A questo proposito è intervenuta con grande chiarezza la prof.ssa Laura Pallazzani, bioeticista e docente di filosofia del diritto, a illustrare alcune delle più recenti evoluzioni del pensiero contemporaneo in materia di identità sessuale. Sulla scia di una radicalizzazione del femminismo, recenti teorie (tra cui si annoverano le c.d. gender theories) giungono a sostenere che la differenza sessuale – lungi dall’avere un radicamento nella natura – sia un dato puramente sovrastrutturale, la cui definizione è una mera opzione soggettiva: «Sono io», per dirlo con uno slogan, «che decido di che sesso mi sento».

Queste teorie sembrano condurre a esiti estremi la difficoltà – già radicata in epoca moderna – di cogliere identità e differenza come strutture logiche e reali interconnesse e non meramente opposte, sicché ogni richiamo a elementi «strutturali» che consentano di rivendicare la sensatezza di una differenza viene avvertito come una forma di violenza sulla libertà con cui il singolo deve poter determinare la propria identità.

In questo modo si giunge tuttavia all’esito paradossale di non comprendere che è la stessa differenza a consentire a un’identità di stagliarsi e manifestarsi come tale: nell’assenza di differenze, infatti, nulla si da come determinato, tutto è possibile, ma nel contempo niente è latore di un senso specifico e personale.

Tuttavia è proprio la perdita di senso (e del bisogno di esso) a mettere oggi in crisi – secondo il filosofo polacco Stanislaw Grygiel – «la capacità umana di istituire “alleanze” quali l’amicizia, il matrimonio e la famiglia: laddove nulla appare dotato di un senso specifico, e quindi la realtà risulta plasmabile sulla base dell’uso contingente che il singolo può attribuirle, l’agire umano è dominato dalla ragione calcolante e da un’attitudine utilitaristica, dalla quale non sono esenti anche i rapporti umani».

Ma se proprio nell’amicizia, negli affetti e nella famiglia si vorrebbe cercare un luogo dove i rapporti sono autentici e non dettati da calcolo utilitaristico, in un mondo dove c’è spazio solo per la ragione calcolante, l’homo calculans può sempre divenire calculatu, e l’homo utens — colui il quale si serve della realtà circostante – può sempre trovarsi a essere «usato»: sicché la libertà è sempre messa a repentaglio e garantita solo dalla capacità della propria volontà di opporsi concretamente a tentativi di strumentalizzazione da parte dell’esterno.

Il senso specifico delle «alleanze» umane è invece quello di istituire rapporti autentici dove il «tu» aiuta a svelare l’«io», e il dialogo si rivela capace di arricchire il singolo nella relazione. In quest’ottica – secondo Grygiel – appare chiara la strutturale specificità di cui il rapporto uomo-donna è latore. La loro «complementarietà nella diversità» non ne limita l’identità, bensì aiuta a specificarla, come ricorda lo stesso racconto biblico, nel quale Adamo trova «simile» a lui — e capace di vincere la sua solitudine — una figura che non gli è identica ma gli è complementare, pur condividendone la sostanza originaria.

Ma non è solo sul piano fisico -coessenziale alla potenzialità procreativa – che appare la capacità di uomo e donna di completarsi vicendevolmente: da un punto di vista mentale – secondo il filosofo polacco — la forma mentis femminile difende l’essere umano contro il predominio della logica formale, che può racchiudere la ragione in una limitante aridità, e, nel contempo, la forma mentis maschile difende il pensiero intuitivo — tipico della femminilità – dal restare intrappolato nell’effimero. In un rapporto di tipo omosessuale l’identità si trova in relazione tautologica con un’altra identità incapace – fisicamente e psicologicamente – di fornirle un reale complemento, con danno evidente per la stessa possibilità di un pieno sviluppo della persona umana.

Già Platone nel «Simposio»…

Quanto alla proiezione del matrimonio verso uno sviluppo temporale possibilmente «non a termine», Grygiel si è richiamato anche alla lezione dei classici: ripercorrendo il Simposio platonico ha ricordato come, nel poetico pensiero dell’allievo di Socrate, la scoperta della bellezza nell’altro conduca a un’elevazione dal piano fisico a quello spirituale, dal piano contingente all’aspirazione a ciò che trascende la situazione. L’amore ha in sé un’aspirazione di eternità, e l’amore in un rapporto intersoggettivo – per dirsi autentico e realmente paritario – non può opporre all’altro «date di scadenza» o condizioni risolutive di tipo potestativo (2).

Quasi a trasporre le riflessioni del filosofo polacco su un piano esperienziale, l’intervento di Giuseppe Ghini – docente di lingua e letteratura russe presso l’Università di Urbino – qui incentrato in particolare su riflessioni nate dalla sua esperienza personale di marito e di padre, ha offerto un’immagine di intensa meditazione sulla dimensione «concreta» dell’alleanza del matrimonio, e del suo sviluppo nella famiglia. Questa alleanza è fatta di accoglienza, di comprensione, di consigli disinteressati, di affidamento reciproco, di sacrifìcio e progettazione per il bene comune, così come di difficoltà che, nel colpire il singolo, coinvolgono l’intera comunità familiare ma in essa, nel contempo, possono trovare un valido aiuto.

La scienza è «ipotetica»

Gli argomenti ripercorsi brevemente sinora non hanno rivendicato una fondazione divina o un’autorità religiosa alla base della specificità del matrimonio come «cellula» della società, dotata per questo – sin dalle più antiche civiltà – di un regime giuridico specifico, fondato su una duplice dimensione interpersonale e pubblica: la stabilità e l’assunzione di obblighi reciproci fra coniugi e di questi verso la prole impedisce di equiparare il matrimonio tra uomo e donna a forme di rapporto fondate su un mero «stato di fatto», intercorrente tra privati cittadini per il protrarsi nel tempo di una frequentazione personale; ed è in particolare sull’analisi della dimensione giuridica del matrimonio nel diritto canonico e nel diritto civile che si è incentrata la relazione del prof. Giuseppe Dalla Torre.

Eppure in un diffuso sentire odierno «laicità» non significa solo «anti-dogmatismo», ossia l’atteggiamento spregiudicato di un pensiero che non accetta limiti che esulino da argomenti provenienti da un uso critico della ragione: spesso è tacciato di anti-laicità ogni intervento negli odierni dibattiti che provenga da soggetti o settori dell’opinione che abbiano una specifica formazione o funzione religiosa, indipendentemente che si siano serviti di argomentazioni razionali, e non fondate su dogmi o autorità.

Peraltro, come ha ricordato l’ex presidente del Senato, Marcello Pera, nella prima parte del suo intervento al termine dei Laboratori, a non tutte le argomentazioni «razionali» viene attribuito il medesimo statuto di rigore e di credibilità, nel pensiero odierno: oggi – ha osservato il filosofo della scienza – il pensiero dominante tende a riconoscere come unica forma di razionalità quella scientifica.

Non mancano a questo proposito le opinioni che «non negano la legittimità di una riflessione metafisica o teologica, però ne riconoscono la rilevanza a partire dalla capacità di misurarsi con i dati scientifici», unici a garantire «rigore» e atteggiamento intellettuale autenticamente spregiudicato. Sennonché — come ha ricordato Pera nell’ incipit del suo complesso e coinvolgente intervento – si tende a non riconoscere un tratto caratterizzante della razionalità scientifica, ossia la sua struttura ipotetica.

La dimostrazione scientifica — sia essa fondata sul criterio della coerenza o della ve-rificabilità – muove sempre da ipotesi iniziali (un protocollo, un thema probandum…} che devono essere previamente accettate, e quindi sottratte alla discussione, come accade, per esempio, per gli assiomi nelle dimostrazioni geometriche.

Come ricordava lo stesso Galileo Galilei, non è compito della scienza quello di «tentar le essenze»; laddove infatti si volesse cercare di dimostrare la «verità» delle premesse assunte alla base di una dimostrazione, si incorrerebbe in una probatio diabolica che vincola a dimostrare la previa verità delle premesse alla luce dei criteri per cui sono state assunte, innescando un ricorso ad infinitum.

Il fatto è — come ha ribadito lo stesso Pera – che la razionalità scientifica non può applicare sé stessa alla ricerca dei suoi fondamenti. L’osservazione – certamente complessa – mostra quanto poco rigoroso sia ritenere che la razionalità scientifica addivenga ad un sapere «oggettivo», laddove essa, per la sua ipoteticità, è condizionata da precise scelte e, soprattutto, laddove essa appare incapace di fondare l’indiscutibilità delle sue premesse se non facendo ricorso a una loro previa «accettazione».

Il che, a ben pensare, non è molto diverso da quel «sottrarre alla discussione» che è incarnato, per esempio, nell’atto di fede, o nell ‘accettazione di un dogma. Si comprende quindi che l’attitudine anti-metafisica tipica del laicismo dominante oggi in Europa nasconde una precisa opzione ideologica, ben lontana dal rappresentare una difesa del sapere critico, e piuttosto strumentale al trionfo della ragione calcolante e della sua proiezione tecnica: questo laicismo – ad avviso di chi scrive – rappresenta il più recente atto con cui il moderno homo faber cerca di giustificare la sua perdurante attitudine dominativa nei confronti della realtà (naturale e sociale).

Pochi margini all’ottimismo

Che questo pensiero stia assumendo un atteggiamento sempre meno aperto e «liberale» appare evidente da molti attacchi che in Europa si conducono a quanti non condividano una simile attitudine gnoseologica (3) Al di là di un pericolo per la libertà di pensiero critico, Pera ha individuato alcune precise conseguenze per questo fenomeno: il laicismo, per il filosofo, mina dall’interno non solo l’identità europea, ma la sua capacità di comprendere altre culture. In questo contesto l’Europa potrebbe trovarsi del tutto impreparata e debole rispetto alle grandi sfide culturali e politiche che già incombono fuori e dentro i suoi confini.

La situazione, secondo Pera, lascia pochi margini per l’ottimismo, anche se egli stesso ha affermato di confidare nella capacità reattiva di segnali di risveglio e di vivacità come quelli testimoniati dal vivo dibattito dei «Laboratori sublacensi». Un messaggio di speranza e di esortazione all’impegno fattivo è venuto, infine, dal cardinale Tarcisio Bertone, intervenuto al termine del Convegno con la celebrazione di una S. Messa e con un discorso conclusivo dei lavori del Laboratorio, a ricordare che, nella «laicità» del dibattito e degli interventi tenutisi nei tre giorni a Subiaco, l’attualità del messaggio benedettino è tutt’oggi indiscutibile, nel suo invito a coniugare la vita adiva con il riferimento costante, umile e meravigliato a quanto ci trascende.

1) La Fondazione è attiva dalla fine degli anni ’90 su diversi fronti per la promozione, culturale sociale e politica della vita umana in tutte le sue fasi e condizioni, e, accanto ad essa, della famiglia nella sua piena cittadinanza sociale: dal 1998 assegna il premio San Benedetto a personalità distintesi in questi ambiti per il loro impegno e contributo personale. Si ricorderà, a questo proposito, la consegna di tale premio nel 2005 a Joseph Ratzinger, pochi giorni prima della scomparsa di Giovanni Paolo II, e della seguente elezione di Benedetto XVI al soglio di Pietro.

2) Sembrerebbe – per svolgere ulteriormente questo spunto su un piano di «studio della Provvidenza» – che il matrimonio, per la sua capacità di costituire un rapporto tra diverse identità in grado di specificare le identità che lo compongono, per la sua relazionalità che si incentra su un sentimento di bene per l’altro e di bene comune e per la sua capacità generativa, consenta all’uomo – almeno in via analogica – di pensare ad alcune strutture tipiche del divino: l’essere – nella struttura trinitaria – unità nella relazione, l’essere «sostanza di amore» e il condividere, nella sua dimensione di creatore, amore e senso di provvidenziale responsabilità verso il creato. Sicché il matrimonio potrebbe essere letto anche come un «espediente» meditato dalla Provvidenza divina – Vico docet – per far meditare all’uomo l’idea della trascendenza.

3) Di quest’attitudine sono ravvisabili per Pera diversi esempi significativi, dalla paura dei credenti di usare in modo immediato e professo il loro linguaggio in un dibattito pubblico; dall’ingiustificato attacco mosso contro Rocco Buttiglione, candidato alla carica di commissario europeo – «reo» di aderire a una visione della vita e a un credo per il quale le unioni omosessuali non sono equiparabili a una forma moralmente ordinata di relazione affettiva sino alla mancata difesa del Papa dopo il discorso di Ratisbona. Per non parlare di quelle scelte legislative – come è avvenuto in Francia – che hanno proibito ogni esibizione di simboli religiosi indipendentemente dal loro significato intrinseco e dalla loro compatibilita con i princìpi fondamentali delle democrazie occidentali.

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