di Domenico Airoma
Fra il 1992 e il 1996 sono stati presentati tre disegni di legge — sempre sostanzialmente consonanti e talora anche formalmente identici — intesi a introdurre e a disciplinare l’”educazione sessuale” nella scuola. L’attenta analisi del contesto culturale in cui sono stati elaborati e proposti, qual è attestato dalle relazioni accompagnatorie e dalle discussioni in sede di commissione, ne mostra i presupposti antropologicamente inadeguati e fuorvianti, e l’intenzione soggiacente di attribuire alla scuola la responsabilità educativa primaria, sottraendola alla famiglia, cui spetta per natura. Sono poi indicate — alla luce del diritto naturale e del Magistero ecclesiastico — le coordinate di una corretta educazione all’amore e della sessualità, educazione a cui certamente può collaborare anche la scuola.
I quesiti posti dall’introduzione dell’educazione sessuale nei programmi scolastici possono essere così riassunti:
► l’educazione sessuale è un compito e un dovere solo della famiglia (e — per i credenti — anche della Chiesa), o lo è pure della scuola?
► è possibile, in quest’ultima, distinguere tra “informazione” sessuale, definita “scientifica” e “neutra”, ed “educazione” sessuale, implicante il necessario riferimento a una concezione dell’uomo e della vita?
► come stabilire i contenuti, i modi, le forme e i limiti dell’intervento scolastico in questo settore?
► dovrà trattarsi di un’educazione sessuale semplicemente “curricolare” (affidata cioè all’insieme delle varie discipline scolastiche) oppure potrà avvalersi anche di interventi specifici e programmati “extra-curricolari”?
► chi sono gli operatori specificamente preparati per le iniziative “extra-curricolari”?
► esistono garanzie da offrire e da richiedere per assicurarne la serietà scientifica e la correttezza pedagogica e morale?” (1).
I quesiti si presentano di complessa soluzione anche in considerazione delle peculiarità dell’ora presente, caratterizzata da “un oscuramento della verità sull’uomo” (2), effetto di “una cultura in cui la società e i mass media offrono al riguardo [dell’educazione sessuale] il più delle volte un’informazione spersonalizzata, ludica, spesso pessimista e peraltro senza riguardo per le diverse tappe di formazione e di evoluzione dei fanciulli e dei giovani, sotto l’influsso di un distorto concetto individualista di libertà e in un contesto privo di valori fondati sulla vita, sull’amore umano e sulla famiglia” (3).
Pertanto, se “in passato, allorquando da parte della famiglia non si forniva un’esplicita educazione sessuale, tuttavia la cultura generale, improntata al rispetto dei valori fondamentali, serviva oggettivamente a proteggerli e a conservarli” (4), oggi, con il mutamento delle condizioni culturali, risulta oggettivamente impossibile contare su quella sorta di rendita di posizione.
Il risultato è rappresentato dalla difficoltà per i genitori di poter fornire ai figli un’adeguata preparazione al significato della sessualità, difficoltà che assume spesso i caratteri della resa incondizionata se solo si considerano il contemporaneo travaso informativo massmediatico cui vengono sottoposte le giovani generazioni e la disponibilità della scuola a svolgere programmi di educazione sessuale, seppur in via di sperimentazione.
Poste tali premesse, diventa fin troppo facile, soprattutto dinanzi al verificarsi di abusi sessuali in danno di minori, indicare fra le cause di siffatti gesti criminosi — come fa l’on. Anna Finocchiaro Fidelbo, democratica di sinistra, ministro per le Pari Opportunità — “un vuoto educativo” (5) in materia, dovuto — secondo l’on. Luigi Berlinguer, pure democratico di sinistra, ministro della Pubblica Istruzione e Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica — a un ritardo storico che va colmato (6) attraverso l’introduzione nelle scuole di un’educazione alla sessualità.
2. La soluzione legislativa all’esame del Parlamento
2.1. I lavori parlamentari
Il 10 novembre 1992, nel corso dell’XI legislatura (1992-1994), la VII commissione — cultura, scienza e istruzione — della Camera dei Deputati approvava in sede referente, con l’unica opposizione dell’on. Adriana Poli Bortone, del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, un testo che prevedeva l’introduzione dell’Informazione ed educazione sessuale nella scuola, richiedendone il trasferimento alla sede legislativa.
Tale testo risultava dall’unificazione delle proposte di legge n. 179, presentata il 23 aprile 1992 dall’on. Rossella Artioli, del Partito Socialista Italiano, e da altri deputati appartenenti a diversi gruppi parlamentari (7) e utilizzata come testo-base della discussione; n. 954, d’iniziativa dell’on. Danilo Poggiolini e di altri deputati del Gruppo Repubblicano; e n. 1593, presentata dai deputati Nichi Vendola e Pietro Mita, del Gruppo Rifondazione Comunista. Merita d’essere ricordato, di passaggio, che la prima proposta di legge in materia fu presentata dall’on. Giorgio Bini, del Partito Comunista Italiano, il 13 marzo 1975, nel corso della VI legislatura (1972-1976) (8).
L’articolato — cioè il complesso degli articoli che costituiscono la parte normativa di un progetto di legge — riproponeva, con modifiche non sostanziali, il testo della proposta di legge elaborato da un comitato ristretto (9) e licenziato, il 16 gennaio 1992, alla fine della X legislatura (1987-1992), dalla medesima commissione in sede referente, dopo aver raccolto i contributi forniti da esperti, da studiosi, da associazioni e da sindacati (10), ai quali venne preventivamente inviato un questionario organizzato in nove quesiti (11), incentrati sui nodi essenziali che la legge era chiamata ad affrontare. Un’analoga proposta di legge, la n. 2389, venne presentata alla Camera dei Deputati da parlamentari di diversi schieramenti politici, il 7 aprile 1995, durante la XII legislatura (1994-1996) (12).
Nella XIII legislatura — in corso, aperta il 9 maggio 1996, dopo la tornata elettorale del 21 aprile precedente —, lo stesso 9 maggio è stata presentata alla Camera dei Deputati come proposta di legge, ora contrassegnata con il n. 218, l’articolato che nelle due precedenti legislature aveva registrato il consenso di tutte le forze politiche, a eccezione di Alleanza Nazionale (13).
Appare, pertanto, opportuno, nell’elaborare un giudizio de iure condendo, individuare nell’articolato contenuto nella citata proposta il testo normativo di riferimento. Nell’interpretazione dell’articolato, poi, non si può prescindere da una ricognizione dei passi più significativi dei lavori parlamentari che, nell’XI legislatura, giunsero all’elaborazione del progetto d’introduzione dell’educazione sessuale nella scuola.
2.2. I princìpi ispiratori della proposta di legge n. 218
“[…] la proposta in esame […] può rientrare tra le leggi di costume che ineriscono la morale e, in senso più largo, la cultura”, è scritto nella relazione alla proposta di legge n. 179, d’iniziativa dell’on. Artioli e di altri deputati (14).
Che l’iniziativa si collochi, quale tappa significativa, in un ampio e articolato processo culturale emerge chiaramente dalle osservazioni di Bianca R. Gelli, deputato del PCI e relatrice in VII commissione nella X legislatura delle proposte di legge in materia: “L’introduzione dell’educazione sessuale a scuola […] risponde all’obiettivo di sostanziare nei fatti, al di là di una semplice parità numerica, le ragioni di una scolarizzazione di massa femminile; e ciò, non solo promuovendo elementi di pari opportunità formative ed educative (rimuovendo ostacoli e facilitando scelte) ma assumendo come prioritario l’obiettivo di porre al centro dei processi formativi una riformulazione dell’identità di genere, sia femminile che maschile — una identità sessuale matura — in una fase storica di profonde trasformazioni culturali.
“La scuola non può evitare di impegnarsi su questo terreno; la vita scolastica, in quanto momento privilegiato di comunicazione e relazione tra i giovani è la sede naturale per rompere ruoli prefissati e rigidi, separatezze e discriminazioni. Una occasione, una tappa nella promozione della uguaglianza dei sessi, proprio a partire dalla individuazione delle differenze, assunte come vere e proprie risorse formative.
“Da qui deriva la indispensabilità che la educazione sessuale cominci sin dagli anni della scuola materna, pur riconoscendo che essa acquista una valenza particolare negli anni della preadolescenza e dell’adolescenza” (15).
E ancora: “La scelta è stata quella di guardare a questa legge non come esclusivamente di settore, necessaria per colmare un vuoto legislativo in campo scolastico: ma come una legge inerente il costume, l’etica, la cultura più complessiva della società, dovendo essa affrontare una tematica così complessa e ricca di implicanze. Questa, peraltro, è stata la logica conseguenza dell’aver dato sin dall’inizio al termine sessualità una accezione vasta, non riconducibile alla sola sfera del sesso.
“È stata, peraltro, una scelta che ha comportato non pochi rischi, perché poteva far seguire alla legge sulla educazione sessuale lo stesso destino di altre inerenti ambiti analoghi, le quali fanno fatica ad essere varate o addirittura prendere il via. Il riferimento è qui alle leggi sulla violenza sessuale (16) e a quella sulla fecondazione assistita […].
“Ma guardare a questa legge come ad una legge di costume significa, anche, guardare al problema dell’introduzione della educazione sessuale nella scuola come completamento logico, anche se tardivo, di una complessa normativa che è andata articolandosi via via nel tempo, dagli inizi degli anni ’70 in poi, e registrando una stagione di cambiamento culturale e di costume.
“Questi cambiamenti si sono manifestati non solo attraverso nuove leggi, ma anche con l’abrogazione di vecchie norme. Si pensi ad esempio alla dichiarazione di illegittimità, nel ’71, delle norme che proibivano la propaganda degli anticoncezionali; alla cancellazione della causa d’onore come attenuante nei delitti contro la persona e del matrimonio riparatore come mezzo di estinzione dei reati di violenza sessuale. Istituti, questi ultimi, entrambi legati a una cultura ancestrale che vedeva la donna come oggetto di proprietà del maschio.
“È di quegli anni anche la prima iniziativa parlamentare per modificare la disciplina in fatto dei delitti contro la libertà sessuale, posta dal codice penale sotto il titolo “dei delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume”. Questa legge, espressione di una proposta popolare, portata in Parlamento da donne laiche e della sinistra, si è arenata nel corso del dibattito, durato tre legislature, anche per il non raggiunto accordo sulla presunzione di violenza sui minori. Dieci anni di dibattito hanno però contribuito ad imprimere una svolta culturale, così che sono ormai acquisiti concetti prima improponibili.
“Altre tappe importanti della normativa sui costumi sessuali e la vita di coppia sono state la legge sul divorzio; la legge sul nuovo diritto di famiglia, che riconosce, come nuovi soggetti di diritto, la donna ed il minore, anche nella sfera dei rapporti intrafamiliari; la legge sulla interruzione volontaria della gravidanza; quella sull’istituzione dei consultori familiari, che prefigura, tra l’altro, uno spazio di informazione sui temi della sessualità e della procreazione anche per i giovani; ultima, la legge per la realizzazione delle pari opportunità“ (17).
Una tale svolta culturale spiega l’accordo raggiunto su un testo normativo relativo a una materia, come l’educazione sessuale, che “[…] si è spesso prestata in passato a dispute ideologiche a volte anche sproporzionate”, come ha detto la sen. Rosa Russo Jervolino, democristiana, ministro pro tempore della Pubblica Istruzione (18).
Di tale svolta l’on. Gelli individua non solo i passaggi legislativi, ma anche la temperie sociale e politica in cui è venuta maturando: “[…] in questi ultimi anni, si è assistito ad una laicizzazione progressiva dei linguaggi, vuoi marxisti vuoi cattolici, e questo, non solo perché si sono registrati eventi di portata storica, che hanno fatto perdere dall’una e dall’altra parte alcune certezze assolute, ma perché, al contempo, andava crescendo negli uni e negli altri la tolleranza sollecitata da una società sempre più pluralista, e che si avvia a divenire plurirazziale. Certo, permanevano, in tutto questo, punte estreme di conservatorismo e di integralismo — essenzialmente di destra — che, lungi dal cercare il dialogo, ribadivano una posizione rimasta peraltro isolata” (19).
“Penso — osserva ancora l’on. Gelli — che il salto di qualità nel discorso politico si sia prodotto allorché si è avuto il coraggio, come legislatori, di inoltrarsi su tale terreno, da sempre considerato patrimonio privilegiato dei cattolici. Farlo ha significato superare un fraintendimento di fondo che tende a ridurre la portata di un’etica laica, e a non cogliere le novità che, con l’esaurirsi del pensiero marxista, vanno in quest’ambito determinandosi” (20).
“Un’operazione culturale di questa portata non può evidentemente essere indotta per via giuridica. Il testo di legge sulla “informazione/educazione sessuale nella scuola” può contribuire a sollecitarla” (21).
L’aver riportato diffusamente le intenzioni e le ragioni animatrici del fronte promotore dell’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole consente — senza timore di sconfinare nel terreno delle semplici congetture — di attribuire alle enunciazioni di principio contenute nell’articolo 1 della proposta di legge n. 218 (22) — in cui, fra l’altro, si fa riferimento a una cultura della sessualità “attenta ai valori della vita e della famiglia” — lo stesso valore, di semplice flatus vocis, del richiamo ai princìpi della vita e della maternità contenuto nell’articolo 1 della legge n. 194 del 1978 sull’interruzione di gravidanza; e il paragone è suggerito, come si è visto, dallo stesso excursus storico-legislativo utilizzato dai promotori per sottolineare il rilievo culturale e politico della materia.
Del resto, non è mancato chi, come l’on. Maria Luisa Sangiorgio, comunista, relatrice in VII commissione nell’XI legislatura delle proposte di legge in materia, si è preoccupato di chiarire la valenza non assoluta dei princìpi enunciati e l’imprescindibilità di una considerazione necessariamente unitaria — e, di fatto, annichilatrice di ogni principio — del citato articolo 1, che “[…] contiene […] — avverte appunto il deputato del PCI — una tavola di valori […] molto ampia e generalmente condivisa. Ovviamente ognuno potrà ritenere prevalente un valore sull’altro, ma questi nel loro insieme non possono non essere condivisi” (23).
2.3. Disciplina dell’informazione ed educazione sessuale
L’introduzione dell’informazione ed educazione sessuale viene modulata su un duplice livello: il primo è quello relativo alla programmazione di competenza del ministero della Pubblica Istruzione, mentre il secondo investe l’attività di programmazione didattica annuale dei singoli istituti scolastici, come recitano gli articoli 2, 3 e 7 del disegno in esame (24).
In considerazione del fatto che “le tematiche inerenti alla sessualità […] sono parte integrante degli orientamenti educativi e dei programmi didattici di insegnamento” — secondo l’articolo 2 comma 1 —, il ministro della Pubblica Istruzione, sentito il parere del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione — organo istituito dall’articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 416, del 31-5-1974 —, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, secondo l’articolo 3 “aggiorna con propri decreti gli orientamenti educativi della scuola materna ed integra i programmi di insegnamento per le scuole di ogni ordine e grado”.
A questo livello di programmazione, l’informazione ed educazione sessuale viene a inserirsi, integrandolo, in un ambito più vasto, quello dell’educazione alla salute, a cui devono informarsi i contenuti delle tematiche inerenti alla sessualità secondo l’articolo 2 comma 4; in tal senso ebbe a esprimersi il ministro Russo Jervolino (25), ma soprattutto in tal senso si va orientando l’opera di riforma del sistema scolastico.
A tale proposito appare opportuno richiamare l’articolo 104, comma 1, del d.p.r. n. 309 del 9-10-1990 — Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza —, secondo il quale “il Ministero della pubblica istruzione promuove e coordina le attività di educazione alla salute e di informazione sui danni derivanti dall’alcoolismo, dal tabagismo, dall’uso delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dalle patologie correlate”.
Sul punto, il professor Luciano Corradini, vice presidente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, osserva: “Il concetto di salute viene in tal modo elevato a finalità della scuola, nel senso in cui parla di finalità il documento programmatico della Commissione Brocca: non solo come concetto da studiare, ma come attività da compiere, per raggiungere la salute come valore da vivere e non solo come valore da sapere” (26).
L’educazione alla salute — e, quindi, anche quella sessuale — sembra assumere il ruolo di fondamento e di coronamento dell’istruzione pubblica, occupando il posto lasciato dalla religione cattolica a seguito della stipula del nuovo Concordato fra lo Stato italiano e la Santa Sede nel 1984.
Passando all’esame del profilo relativo alla programmazione didattica periferica, va anzitutto chiarito che esso si articola, a sua volta, in iniziative curricolari ed extracurricolari.
Quanto alle prime, la disciplina — all’articolo 2 comma 2 — prevede che l’introduzione delle tematiche inerenti alla sessualità si realizzi “in forme prevalentemente disciplinari” e non mediante l’istituzione di una materia a sé stante che, secondo il ministro Russo Jervolino, correrebbe il rischio di essere “inevitabilmente ghettizzata” (27).
Il procedimento contempla le seguenti fasi:
● proposta dei consigli di classe e interclasse della scuola materna, elementare, media inferiore e secondaria superiore;
● parere — non vincolante — dell’assemblea di classe dei genitori e, per la secondaria superiore, dell’assemblea di classe degli studenti;
● deliberazione del collegio dei docenti, la cui disciplina, non essendo diversamente statuito, va ricavata dalle disposizioni generali contenute nell’articolo 28 del d.p.r. n. 416 del 1974 e cioè: per la validità dell’adunanza è richiesta la presenza della metà più uno dei componenti in carica e le deliberazioni sono adottate a maggioranza assoluta dei voti validamente espressi;
● attuazione a cura del docente — che ha frequentato le attività di aggiornamento di cui all’articolo 4 commi 1, 2 e 3 — anche con il contributo di esperti esterni alla scuola — qualora in tal senso abbia disposto il collegio dei docenti, e ciò in considerazione del riferimento agli “specifici progetti”, che rimanda alla programmazione annuale di cui all’articolo 4 comma 4 (28) — e avvalendosi di “metodologie flessibili che favoriscano anche la partecipazione e la discussione di gruppo”, a norma dell’articolo 2 comma 2. Il procedimento relativo alle iniziative extracurricolari, di cui all’articolo 5 (29), appare ancor più semplificato, e infatti si articola nelle fasi appresso indicate:
● proposta — eventuale — dei genitori e, nelle scuole secondarie superiori, degli studenti;
● deliberazione del consiglio di classe — nel quadro dei criteri fissati dal collegio dei docenti —;
● attuazione affidata a insegnanti interni o a esperti esterni alla scuola.
Eventuali obiezioni circa l’assenza di una fase procedimentale adibita al controllo delle deliberazioni — anche e soprattutto quanto all’osservanza dei princìpi di cui all’articolo 1 — vengono sbrigativamente tacitate dal ministro Russo Jervolino, che al riguardo “sottolinea […] come in una materia così delicata la necessità di momenti di garanzia sia soddisfatta dall’aver demandato ai consigli di classe il compito di procedere alle decisioni finali” (30).
È bene invece precisare che l’intervento del consiglio di classe — ammesso che possa assolvere efficacemente, e in maniera non condizionabile, a una funzione di controllo — è di tipo deliberativo solo per le iniziative extracurricolari, mentre per quelle curricolari è di tipo propulsivo e per giunta non vincolante, quanto al contenuto, rispetto alla deliberazione del collegio dei docenti.
A ogni buon conto, la misura della preoccupazione della sen. Russo Jervolino a questo proposito è chiaramente fornita da altra dichiarazione rilasciata dalla stessa allorché, concordando con il deputato del Partito della Rifondazione Comunista, Nichi Vendola, “[…] sull’inopportunità di atteggiamenti scandalizzati” afferma che “[…] ogni tipo di esperienza può entrare a contatto con il mondo scolastico” (31).
2.4. Il ruolo della famiglia
La centralità della questione del rapporto scuola-famiglia in materia di educazione sessuale è stata avvertita sin dalle prime battute dei lavori parlamentari. “Non a caso — osserva l’on. Gelli — quello della famiglia fu uno dei nodi sui quali si arenò il progetto Bini dodici anni fa. Nel testo elaborato dal comitato ristretto, all’art. 1 le parole “con la collaborazione della famiglia” erano poste tra parentesi, appunto per evidenziare il non accordo tra i diversi gruppi. Nodo del contendere era quale delle due agenzie formative, la scuola o la famiglia, avesse un diritto prioritario in questo campo” (32).
Con la proposta di legge in esame “[…] viene superata l’antitesi famiglia sì-famiglia no. Il fatto che questa sia la prima comunità educante non significa che sia sempre in grado di educare alla sessualità e che ad essa non debba subentrare la scuola per portare avanti con profonda responsabilità questo compito.
“Peraltro, se alla scuola compete educare i giovani, perché si dovrebbe ritenere che da questo compito debba essere esclusa la sessualità, che rappresenta la dimensione di maggior rilievo nella personalità dei giovani? D’altro canto, esistono famiglie in grossa difficoltà nell’assolvere a questo compito. Esse vanno dunque aiutate dalla scuola e dagli esperti che la scuola stessa potrà mettere a loro disposizione” (33).
L’obiettivo — neppur troppo celato — pare esser quello di sottrarre il minore all’influenza educativa dei genitori, sicché non sembra azzardato il giudizio fornito al riguardo dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, quando osserva che “la scuola […] che si è resa disponibile a svolgere programmi di educazione sessuale, lo ha fatto spesso sostituendosi alla famiglia” (34).
Del resto, l’on. Gelli — che, come si è detto, ha svolto un ruolo di primo piano nella preparazione del testo normativo — sulla questione del ruolo della famiglia avverte: “Sulla possibilità che la famiglia ponga vincoli giuridici sui minori “qualunque età essi abbiano”, penso debbano essere presi in considerazione una serie di elementi che pongono tale vincolo come non del tutto scontato […]. Vi è al riguardo tutta una normativa, relativamente recente e sempre più ricca, che tende a rafforzare questo diritto in progressione del minore, riconoscendolo, sin dai 14-16 anni, come cittadino, e quindi come soggetto delle proprie scelte: si pensi al riguardo alla legge sui consultori che prevede l’accesso dei giovani, ai fini informativi e preventivi nel campo della sessualità e della procreazione, ma si pensi altresì alle norme sulla interruzione volontaria della gravidanza, che introducono, a garanzia del diritto di autodeterminazione della minore, nei riguardi di una possibile maternità, la figura del magistrato al posto degli stessi genitori” (35).
Poste queste premesse, diventa agevole spiegare la distonia esistente, nell’articolato, fra le enunciazioni di principio formulate nell’articolo 1, in ordine al ruolo della famiglia nell’elaborazione dei programmi didattici, e gli interventi riconosciuti alla famiglia, di natura consultiva — articolo 4 comma 4 in relazione alla programmazione di iniziative curricolari — o propositiva — in riferimento a quelle extracurricolari —, comunque mai vincolante o limitativa.
Del resto, il diritto a educare della famiglia — originale e primario, insostituibile e inalienabile (36) — viene minacciato in radice con la stessa previsione — all’articolo 2 comma 1 — dell’interdisciplinarità dell’insegnamento dell’informazione ed educazione sessuale; siffatto metodo dell’inclusione oltre a rendere “più difficile controllare il contenuto dell’istruzione sessuale” (37), esclude, a differenza di quanto previsto per l’insegnamento della religione cattolica, ogni spazio per l’introduzione del “diritto di non avvalersi”, cioè della facoltà, del pari normativamente riconosciuta, di non servirsi del diritto di frequentare un determinato corso di lezioni.
È pertanto evidente il salto di qualità rispetto alla disciplina attuale che pure prevede la possibilità, grazie soprattutto alla legge n. 517 del 4 agosto 1977 recante Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico, d’inserire l’educazione sessuale nella programmazione didattica d’istituto e di classe; ciò, qualora il corpo docente, le famiglie, gli stessi studenti, nell’ambito degli organismi collegiali previsti dai cosiddetti decreti delegati, ritengano di volerlo fare, in un sistema improntato alla discrezionalità.
“Attualmente c’è tutta una serie di progetti ministeriali — osserva al riguardo l’on. Gelli — che consentirebbero la possibilità di parlare di sesso e sessualità a scuola: il Progetto Giovani ‘93, le attività di prevenzione dell’AIDS previste dalla legge 162 (la cosiddetta Jervolino-Vassalli), i vari progetti nell’area della salute e del benessere psico-fisico che per ora restano troppo spesso a livello di enunciazioni promettenti, ma prive di trascrizione pratica” (38).
Si trattava, perciò, d’introdurre una disciplina caratterizzata dall’obbligatorietà di tale insegnamento e dall’impossibilità per i genitori di far dispensare dall’educazione sessuale i propri figli. Anzi, “iniziative di approfondimento e di sensibilizzazione sulle tematiche inerenti alla sessualità possono essere rivolte specificamente ai genitori” — così recita l’articolo 5 comma 3 —, allo scopo non di renderli “[…] edotti dei contenuti che si intendono proporre, nonché dei metodi più opportuni che si intendono seguire” (39) — il che significherebbe attribuire all’intervento scolastico una funzione correttamente sussidiaria rispetto al ruolo educativo primario dei genitori —, ma perché, così facendo, “le famiglie possono […] aiutare la scuola — considerata evidentemente quale soggetto munito di una sorta di diritto originario fondato sul diritto positivo — a meglio comprendere i loro figli, portando il contributo delle loro esperienze” (40).
2.5. Il ruolo degli insegnanti
L’interdisciplinarità dell’informazione ed educazione sessuale comporta conseguenze degne di nota anche per quanto riguarda la posizione degli insegnanti.
Anzitutto, si pone la questione del diritto di sollevare obiezione di coscienza, sia quanto al se sia quanto al come. Sul punto vale la pena riportare l’orientamento decisamente negativo, circa l’eventuale riconoscimento di un tale diritto, formatosi nei lavori della VII commissione durante l’XI legislatura. L’on. Silvia Costa, della Democrazia Cristiana, per esempio, ebbe a sottolineare che l’obiezione di coscienza “[…] non ha alcun senso rispetto al testo approvato, che prevede un insegnamento interdisciplinare” (41).
L’on. Sangiorgio fu ancora più esplicita: “[…] la libertà di insegnamento non deve diventare obiezione di coscienza, in quanto la libertà di insegnamento ha come vincolo per tutti i programmi e la programmazione” (42); il ministro Russo Jervolino rileva, dal canto suo, come “[…] la questione dell’obiezione di coscienza venga sollevata in questa sede in modo improprio, in quanto la proposta di legge introduce compiti formativi in capo alla scuola e delinea una strategia all’interno di un percorso educativo che non può essere disatteso” (43).
In coerenza con la negazione di ogni rilievo all’obiezione di coscienza, il testo normativo, infatti, prevede per gli insegnanti sia specifiche attività di “aggiornamento” — articolo 4 commi 1, 2 e 3, e articolo 6 (44) — sia il supporto di “esperti” esterni alla scuola, per i quali non viene prevista e quindi richiesta alcuna caratteristica identificativa onde evitare irrigidimenti classificatori, come sostenuto dal ministro della Pubblica Istruzione, Russo Jervolino (45).
L’obiettivo, più ampio, sembra essere quello di procedere a una vera e propria rieducazione dei docenti, chiamati a dotarsi di una nuova “patente formativa”. L’espressione è di Franco Frabboni, professore ordinario di Pedagogia nell’università di Bologna e direttore del mensile Riforma della scuola, il quale indica i requisiti di questa “patente” in 3 “A”, corrispondenti ai tre “climi” — antidogmatico, antiautoritario, antropologico — che l’insegnante ha il dovere di diffondere nell’ambiente scolastico:
“a) Il clima antidogmatico si rende familiare nella scuola predisponendo un “ambiente” che assicuri massima apertura ai processi di socializzazione e di alfabetizzazione.
“b) Il clima antiautoritario si rende familiare nella scuola predisponendo un “ambiente” contrappuntato da un clima sociale positivo: possibile a partire da una elevata “qualità” delle relazioni fra adulti e fra adulti e ragazzi.
“c) Infine, il clima antropologico si rende familiare (e rispettato) nella scuola predisponendo un “ambiente” aperto alla presenza delle molteplici culture (fedi, ideologie, etnie) che pulsano nella comunità sociale […].
“Aprire la scuola al territorio significa legittimare le sue antropologie, validare il “plurale” delle sue assiologie” (46).
Per poter introdurre l’informazione-educazione sessuale nella scuola occorre predisporre non solo condizioni soggettive favorevoli, ma bisogna creare — osserva sempre il professor Frabboni — “una scuola a nuovo indirizzo”, decidendo di “[…] scegliere fra due scuole di segno opposto. Tra una scuola democratica […] e una scuola selettiva […]; tra una scuola pubblica, gestita dallo Stato (dotata di un modello strutturale “unitario”: quanto a tempo scolastico, formazione di base degli insegnanti, gestione sociale, organizzazione del lavoro didattico) e un’agenzia “liberistica“, pubblica e privata, ritagliata su un sistema formativo “lottizzato” in tante scuole autonome quanti sono i gruppi ideologici e sociali presenti nelle singole comunità territoriali […]; tra una scuola dai curricoli produttivi (capaci di penetrare dentro le frontiere dirompenti, folgoranti, euristiche della cultura antropologica e scientifica) e una scuola dai curricoli riproduttivi (frutto di “saperi” sclerotizzati, archeologici e polverizzati in una miriade di materie). Su questa scelta socioculturale emerge con forza il ruolo nevralgico che una scuola democratica pubblica produttiva è chiamata a recitare. Essa potrà contribuire ad un governo democratico della transizione (nel senso della pace, dell’emancipazione civile e culturale della collettività, del progresso e della giustizia economica) a condizione che si presenti forte istituzionalmente e attrezzata scientificamente; una scuola di tal fatta spalancherebbe le porte di casa nostra ad una reale cultura dell’alternativa” (47).
3. La “scorciatoia” amministrativa
La lentezza dei lavori parlamentari, la vischiosità delle procedure di approvazione legislativa, le resistenze di taluni parlamentari hanno indotto il ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer a perseguire una strada alternativa; quella, molto più rapida, della normazione di fonte secondaria e terziaria, mostrandosi sensibile, anche per il settore dell’istruzione scolastica, all’imperativo dominante della delegificazione (48), versione efficientistica della riduzione della politica ad amministrazione.
Nel corso del seminario nazionale Cultura, educazione, identità sessuale. Il ruolo della Scuola, organizzato a Roma nel marzo del 1998 dai ministeri per le Pari Opportunità e della Pubblica Istruzione, l’on. Berlinguer ha annunciato l’adozione di una direttiva, di una normativa specifica che eviterà le lentezze del disegno di legge (49) e che introdurrà nelle scuole la “cultura della sessualità”, che “non sarà una materia, una disciplina […], sarà una cultura che conserva il carattere della trasversalità” (50).
Gli strumenti utilizzabili dal ministro per praticare la via amministrativa, eludendo il ricorso allo strumento legislativo imposto dall’articolo 33 comma 2 della Costituzione (51), sono rappresentati, in particolare, dal d.p.r. n. 419 del 31-5-1974, che prevede — all’articolo 3 — l’adottabilità da parte del ministro di decreti autorizzativi d’indirizzi educativi sperimentali, o dall’articolo 104 del d.p.r. n. 309 del 1990, che consente il ricorso a decreti ministeriali aventi a oggetto l’inserimento, nell’ambito di discipline curricolari, di tematiche relative all’educazione alla salute.
In entrambi i casi, la previsione dell’introduzione di tematiche educativo-informative relative alla sessualità non potrebbe porsi in termini di obbligatorietà né per i docenti né per i discenti. Il ricorso allo strumento della direttiva, unito al carattere di “trasversalità” — cioè d’interdisciplinarità — della “cultura della sessualità”, costituisce, in buona sostanza, l’espediente per ottenere da un lato l’adesione dei docenti — sia delle scuole statali che di quelle non statali —, sempre verificabile attraverso l’esercizio dei poteri ispettivi, e dall’altro la fattuale obbligatorietà di un insegnamento polverizzato nelle varie materie curricolari e rimesso ai differenti modelli culturali degli insegnanti.
4. L’educazione sessuale nel Magistero della Chiesa
La lettura dei lavori parlamentari che hanno accompagnato l’esame del progetto di legge in tema di introduzione dell’educazione sessuale nella scuola e la disamina dei pareri degli esperti che quel progetto hanno contribuito a elaborare consentono di trarre una prima conclusione: al di là delle professioni di neutralità dei sostenitori dell’informazione scientifica in materia di sessualità, è innegabile — e talora, come s’è visto, apertamente confessato — il riferimento a una concezione dell’uomo, cioè a un’antropologia, qualunque sia la soluzione offerta per i quesiti posti da un’istruzione scolastica estesa alla materia sessuale.
Secondo la concezione igienico-sanitaria, l’educazione sessuale consiste in un’informazione di carattere squisitamente scientifico-divulgativo, tesa a fornire adeguate conoscenze per un uso della sessualità idoneo a prevenire patologie: è il safe-sex. Matrice di tale impostazione è una concezione “[…] biocentrica, che considera l’uomo quale componente della biosfera” (52), posto ontologicamente sullo stesso piano delle componenti vegetale e animale; la sessualità è, pertanto, espressione di un più generale diritto al ben-essere.
Nello stesso solco del biocentrismo si colloca l’interpretazione edonistica della sessualità, che conduce alle estreme conseguenze — sul piano dell’agire — la concezione vitalistico-istintuale: “Scopo primario dell’educazione sessuale sarebbe quello di mettere l’individuo in grado di fruire al massimo del piacere sessuale, senza limiti e inibizioni. Esso sarebbe non soltanto un diritto, ma un dovere.
“Primo compito dell’educazione sessuale sarebbe quello di liberare l’uomo dai numerosi “tabù” di ogni genere — soprattutto sociali, morali e religiosi — che ancora lo condizionano e pongono limiti al pieno godimento del sesso” (53).
Il tema del condizionamento socio-ambientale diviene centrale nell’interpretazione culturale della sessualità, che muove dalla concezione secondo cui “[…] le norme che regolano i costumi e i comportamenti sessuali non sarebbero naturali e primarie, espressione della struttura dell’uomo, ma derivate e acquisite, prodotte cioè dalla società e dalla cultura e pertanto mutevoli come i modelli socio-culturali […].
“Non esisterebbe, pertanto, un’etica universale ed assoluta; ogni norma, anche in campo sessuale, sarebbe relativa. Lo sforzo di trasformazione di una determinata società implicherebbe anche un mutamento nell’interpretazione della sessualità e dei costumi sessuali” (54).
Quel che accomuna tutte e tre queste concezioni della sessualità — quella igienico-sanitaria, quella edonistica e quella culturale — è sicuramente l’orizzonte morale di tipo relativistico nel quale le stesse si muovono, prigioniere delle inevitabili aporie proprie del relativismo, riassumibili nel seguente interrogativo che si pone Remo Bodei, docente di Storia della Filosofia nell’università di Pisa: “Valori forti sono necessari per evitare il peggio, ma come individuarli, senza farli diventare pericolosamente assolutistici?” (55). Un “efficace strumento” — continua il filosofo — “[…] è […] rappresentato dal rispetto delle “regole del gioco””, “[…] che rischia però di trasformarsi — osserva ancora il professor Bodei — in un talismano in presenza di situazioni di violento scontro politico” (56), quando cioè viene messa in discussione la fonte stessa delle regole. “Si vive così — conclude amaramente — più nell’immediato carpe diem, ci si situa in più ristretti orizzonti temporali, spesso segnati dalla semplice durata della propria esistenza biologica. Ma l’insoddisfazione per queste scelte, per questa angustia di prospettive rimane. E fa male” (57).
Preso atto del fallimento della prospettiva relativistica occorre ripartire da una corretta antropologia, dalla verità sull’uomo; la ragione naturale ci presenta la persona come unità di anima e di corpo, dono e creatura di Dio (58), munita di una struttura immutabile perché co-essenziale e di istruzioni per l’uso la cui indefettibilità gli uomini hanno sperimentato nel corso dei secoli.
“L’uomo, in quanto immagine di Dio, è creato per amare. Questa verità ci è stata rivelata pienamente nel Nuovo Testamento, assieme al mistero della vita intratrinitaria: “Dio è amore (1 Gv 4, 8) e vive in se stesso un mistero di comunione personale di amore. Creandola a sua immagine…, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione”” (59). “Questa capacità di amore come dono di sé ha […] una sua “incarnazione” nel carattere sponsale del corpo, in cui si iscrive la mascolinità e la femminilità della persona” (60).
“È ovvio che la crescita nell’amore, in quanto implica il dono sincero di sé, è aiutata da quella disciplina dei sentimenti, delle passioni e degli affetti che ci fa accedere all’autodominio. Nessuno può dare quello che non possiede: se la persona non è padrona di sé — a opera delle virtù e, concretamente, della castità — manca di quell’autopossesso che la rende capace di donarsi. La castità è l’energia spirituale che libera l’amore dall’egoismo e dall’aggressività. Nella stessa misura in cui nell’uomo si indebolisce la castità, il suo amore diventa progressivamente egoistico, cioè soddisfazione di un desiderio di piacere e non più dono di sé” (61).
“Parlare quindi di “educazione sessuale” nel suo senso corretto significa parlare di educazione integrale ed armonica della persona, di cui la sessualità costituisce un elemento essenziale, ma non unico.
“Isolare il problema dell’educazione sessuale da quello della formazione della persona significa non solo impoverirlo, ma anche falsarlo: in pratica, renderlo insolubile” (62).
Dunque, l’educazione sessuale è un aspetto dell’educazione integrale della persona, sì che più correttamente andrebbe indicata come “educazione della sessualità”, secondo il puntuale suggerimento di esperti cattolici (63).
A chi spetta educare la sessualità?
“I genitori sono i primi e principali educatori dei propri figli ed hanno anche in questo campo una fondamentale competenza: sono educatori perché genitori“ (64): essi sono chiamati dalla natura a trarre fuori — e-ducere —, a far emergere il progetto di uomo che il fanciullo reca in animo, aiutandolo nella crescita in auto-consapevolezza.
I genitori non rimangono però soli in quest’opera. “Essi condividono la loro missione educativa con altre persone e istituzioni, come la Chiesa e lo Stato; ciò tuttavia deve sempre avvenire nella corretta applicazione del principio di sussidiarietà. Questo implica la legittimità ed anzi la doverosità di un aiuto offerto ai genitori, ma trova nel loro diritto prevalente e nelle loro effettive possibilità il suo intrinseco e invalicabile limite. […] La sussidiarietà completa così l’amore paterno e materno, confermandone il carattere fondamentale, perché ogni altro partecipante al processo educativo non può che operare a nome dei genitori, con il loro consenso e, in una certa misura, persino su loro incarico“ (65).
Ciò vale a maggior ragione per “[…] quegli aspetti […] che toccano la sfera più intima della persona, qual è, appunto, l’educazione sessuale” (66).
E proprio su questo terreno si avvertono gli effetti devastanti di un’impostazione culturale improntata all’edonismo relativistico.
“In tale contesto è necessario che i genitori, rifacendosi all’insegnamento della Chiesa, e con il suo sostegno, rivendichino a sé il proprio compito e, associandosi ove risulti necessario o conveniente, svolgano un’azione educatrice improntata ai veri valori della persona e dell’amore cristiano prendendo una chiara posizione che superi l’utilitarismo etico. Affinché l’educazione corrisponda alle oggettive esigenze del vero amore, i genitori devono esercitarla nella loro autonoma responsabilità” (67).
Se l’educare forma oggetto, come s’è visto, di un diritto dei genitori originale e primario, insostituibile e inalienabile, non totalmente delegabile né usurpabile da altri, è altrettanto vero che, per le stesse ragioni, esso è un dovere, “[…] che i genitori cristiani in passato hanno avvertito ed esercitato poco, forse perché il problema non aveva la gravità di oggi; o perché il loro compito era in parte sostituito dalla forza dei modelli sociali dominanti e, inoltre, dalla supplenza che in questo campo esercitavano la Chiesa e la scuola cattolica” (68). È tuttavia compito dei genitori far seguire alla generazione primaria quella secondaria, “[…] che porta i genitori ad aiutare il figlio nello sviluppo della propria personalità” (69).
Pertanto:
“1. Si raccomanda ai genitori di associarsi con altri genitori, non soltanto allo scopo di proteggere, mantenere o completare il proprio ruolo di educatori primari dei loro figli, specialmente nell’area dell’educazione all’amore, ma anche per contrastare forme dannose di educazione sessuale e per garantire che i figli vengano educati secondo i principi cristiani e in modo consono al loro sviluppo personale.
“2. Nel caso in cui i genitori vengano assistiti da altri nell’educazione dei propri figli all’amore, si raccomanda che essi si informino in modo esatto sui contenuti e sulla modalità con cui viene impartita tale educazione supplementare […].
“3. […].
“4. Si raccomanda ai genitori di seguire con attenzione ogni forma di educazione sessuale che viene data ai loro figli fuori casa, ritirandoli qualora questa non corrisponda ai propri principi. […] D’altra parte, i genitori che tolgono i propri figli da tale istruzione hanno il dovere di dare loro un’adeguata formazione, appropriata allo stadio di sviluppo di ogni bambino o giovane” (70).
A tali raccomandazioni, il Magistero pontificio aggiunge l’esortazione a “[…] un’azione di coraggiosa denuncia presso l’autorità. I genitori, come singoli o associati tra di loro, hanno il diritto e il dovere di promuovere il bene dei loro figli e di esigere dall’autorità leggi di prevenzione e repressione dello sfruttamento della sensibilità dei fanciulli e degli adolescenti” (71).
“I cristiani — infatti — mancherebbero ai loro compiti se non si impegnassero a far sì che le strutture sociali siano o tornino ad essere sempre più rispettose di quei valori etici, in cui si rispecchia la piena verità sull’uomo” (72).