Il Giornale 12 Settembre 2021
Le battaglie di genere e identità potevano risparmiare almeno la tavola? Certo che no…
Camillo Langone
«Ubi fides ibi libertas» diceva Sant’Ambrogio, dove c’è la nostra fede c’è la libertà e io gastronomicamente parlando, a casa, al ristorante, ovunque, sono fedelissimo a quel versetto libertario del libro della Genesi: «Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo». Oltre che devotissimo alle due conferme neotestamentarie (Marco 7,19 e Atti 10,9-15) in cui rispettivamente il Figlio e il Padre si scagliano contro tutti i tabù alimentari. T-u-t-t-i.
Negli Atti degli Apostoli l’Onnipotente intima al povero Pietro, non ancora Santo, di mangiare addirittura dei rettili. Saranno stati serpenti, lucertole, coccodrilli? Di sicuro non erano bistecche di soia. Sta di fatto che il cristianesimo, a cominciare dal nostro bonario cattolicesimo romano, ha garantito la libertà alimentare invece aggredita da quelle religioni (devo nominarle?) che trovano una ragione di esistere nel proibire gustosi ingredienti.
Al di fuori del venerdì si poteva azzannare qualsiasi cosa che fino a pochi secondi prima zampettasse o volasse. Adesso che l’Italia non è più cattolica non mi stupisco che i tabù ritornino. La cultura, come la natura, non tollera vuoti: chi non crede a nulla finisce inevitabilmente con lo sposare le credenze dei popoli o dei gruppi sociali più fervorosi con cui entra in contatto. E le credenze di costoro, siano essi ambientalisti o maomettani o animalisti, si traducono sempre e comunque in un triste elenco di divieti mangerecci.
Non più frenato dalla Chiesa e dai sani costumi dell’Italia contadina, il proibizionismo alimentare è scatenato e opprime gli onnivori tutti. Hanno cominciato con le specie animali in via di estinzione, a volte solo presunta. Il fondamentale Ricette regionali italiane di Anna Gosetti della Salda, anno di relativa grazia 1967, conteneva ancora ricette a base di tartaruga e delfino. Io nella mia adolescenza lucana ho fatto in tempo a mangiare la volpe, cacciata da mio zio, cucinata da mia nonna: cibo oggi inconcepibile.
Molti ricorderanno cosa capitò al povero Beppe Bigazzi, gastronomo televisivo che venne defenestrato da La prova del cuoco solo per avere evocato la gattofagia serpeggiante nell’affamatissima Italia bellica e prebellica. Perché non è più libera nemmeno la storia dell’alimentazione, e i tabù sono retroattivi.
Poi si va allargando l’area grigia dei cibi semilegali (dalla beccaccia al sanguinaccio al foie gras), non del tutto proibiti ma perseguitati al punto da renderli sempre più difficili da reperire, e il cui sempre più raro consumo suscita aspri rimproveri. Quando sui social posto tranci di verdesca, di palombo o di smeriglio, subito l’amico degli squali mi inveisce contro. L’agnello a Pasqua è un classico dell’indignazione: per avere mangiato ciò che Cristo mangiò nell’ultima cena mi hanno augurato morte lenta e dolorosa.
Se poi oso pubblicare una testina di capretto, già blasone della civiltà pastorale, ecco che vanno a fare la spia al Grande Fratello Zuckerberg per violazione del gastronomicamente corretto. Accettata la cattiva idea che sia lecito impicciarsi dei pasti altrui, ecco che ai proibizionismi religiosi e suppergiù filosofici si aggiungono quelli politici. Potrei usare il singolare perché oggi in campo alimentare mi risulta un proibizionismo politico solo, quello di sinistra.
Che alla maniera di Tomaso Montanari vede fascismo ovunque, e sugli scaffali dei supermercati parecchi prodotti da infoibare. Così ho la credenza piena di Abissine e Tripoline: quando le trovo le compro perché ho sempre paura possa essere l’ultima volta. Ho afferrato un pacchetto di pasta Zara per un motivo analogo: se finisse nel mirino degli antinazionali l’azienda sarebbe costretta a scusarsi, inginocchiarsi, cospargersi il capo di cenere e infine ribattezzarsi Zadar, nome croato della città dalmata da cui nel dopoguerra vennero cacciati gli italiani.
Leggo che nell’Inghilterra neopuritana non è più tollerata la pasta alla puttanesca, mentre a Vicenza e dintorni ancora resiste la torta puttana: l’ho mangiata settimana scorsa in una trattoria che manterrò anonima per non facilitare ritorsioni (siamo ridotti così). Non vorrei che per non turbare la sensibilità delle professioniste del piacere pretendessero di chiamarla torta escort…
Capisco che possano sembrare quisquilie, quasi barzellette, ma purtroppo non c’è nulla da ridere. Ricette e prodotti sono la nostra cultura oltre che, spesso, la nostra economia. Capisco pure che la libertà in questo periodo non sia in cima agli interessi degli italiani, impegnati a sopravvivere purchessia.
Capisco tutto e dunque come posso scrivere un finale ottimista? Disdicevole mangiatore di cavallo crudo, pavoni, colombini di nido, molluschi vivi, cacciagione e torte puttane, so di avere contro le minoranze intolleranti e di non poter contare sulle maggioranze acquiescenti. Sarebbe un disastro se Dio non fosse con me.