Prosegue il dibattito sulla libertà intellettuale in Occidente. Interviene Augusto Del Noce
di Augusto Del Noce
Si tratta dunque di vedere anzitutto perché abbiano raggiunto tale dominio e a quali obbligazioni siano legati; ossia se si prestano a comunicare certe concezioni del mondo e altre no. O quanto meno se certe concezioni tradizionali debbano essere rivedute o riformate nella loro sostanza per obbedire alle regole della comunicazione.
Cerchiamo di rispondere alla prima domanda. Tra le tante opere che hanno preso a loro oggetto la definizione della crisi, sceglierò il libro di un filosofo a cui Papa Giovanni Paolo II ha dedicato particolare attenzione. La crisi delle scienze europee, di Edmund Husserl; suo oggetto è la disgregazione del tessuto connettivo della nostra cultura, prodotta dal diffondersi dello specialismo.
Fino a un periodo molto vicino nel tempo – a un periodo che ho ancora conosciuto non soltanto nella mia giovinezza, ma ancora nella mia maturità – l’uomo di cultura era come colui che “sistemava”; cioè colui che faceva rientrare un fenomeno particolare all’interno di un quadro generale di idee fondamentali intorno alla natura, alla società, alla storia; quadro non pensato come rigido, ma come flessibile, così da poter recepire le novità; in altre parole era l’uomo che connetteva il passato con il presente, la tradizione con il nuovo.
A questa idea propria della cultura umanistica si è sostituita nel nostro tempo quella che con frase felicissima il filosofo spagnolo Ortega ha chiamato del «barbaro specializzato»: di chi conosce in ogni suo particolare, anche e soprattutto minimo, un determinato ramo dello scibile, ma che ignora del tutto il rapporto essenziale delle sue conoscenze particolari con la totalità: che vuole anzi ignorarlo, e ciò non soltanto nel campo della scienza e della tecnica, dove questo fenomeno è pressoché inevitabile, ma in quello degli stessi studia humanitas. La sua insegna può quindi essere definita così: «io mi occupo di questo e di nient’altro».
E’ tuttavia facile accorgersi che l’uomo è chiamato a delle scelte a cui non può sottrarsi, e rispetto a cui lo specialismo non può essergli di soccorso. Lo specialista ha rapporto con un mondo dei fatti anzi con un determinato e ristretto mondo dei fatti; e in quanto deve pur compiere delle scelte politiche ed etiche, dunque delle scelte in cui sono impliciti dei valori, non può rinunciare a quelle che si sogliono chiamare con un termine che lo specialismo ha posto in disuso, le concezioni generali del mondo.
Ma dove le recepisce? E’ qui che comincia il discorso sul potere dei mass-media. Questi strumenti di comunicazione non sono più visti al mondo, si potrebbe dire, delle antiche università popolari come volgarizzazioni della scienza, ma invece come organi di quelle concezioni del mondo pensate come storiche, di cui il presente è garante. In ciò è implicita una definizione della verità: vero è ciò che corrisponde al mio bisogno presente. Una tale definizione rischia certo di apparire al sommo grado relativistica e sofistica, come se si trattasse di erigere il presente storico a misura della verità: tuttavia come vedremo è anche suscettibile di un senso positivo.
D’altra parte i mass-media non possono fare altrimenti, non possono limitarsi a quelli che possono sembrare i loro compiti, la volgarizzazione e l’illustrazione attraverso le immagini. A questo punto possiamo ricordare quel che ha messo in chiaro in maniera esemplare Mc Luhan: un giornale esprime necessariamente una concezione del mondo, ne sia consapevole o no, lo voglia o no. Perché questo? La scienza pura del nostro tempo può rifugiarsi nella sospensione del giudizio: può in varie forme dire che non può pronunziarsi sulle questioni che più interessano l’uomo, perché più incidono sulla sua condotta.
Ma questo il giornale non lo può proprio perché i pronuncia sulle materie delle scelte prossime: su un mondo in cui non ci si può sottrarre alla decisione sui valori etici politici. Vagamente la frase di Mc Luhan richiama quella in verità assai bizzarra di Hegel, secondo cui la lettura del giornale sarebbe la preghiera del mattino.
Essa però supponeva la divinizzazione hegeliana della storia. Il giornale è inteso in questo senso in relazione a una concezione della storia costruita filosoficamente: oggi invece si parla dell’inevitabilità per un giornale di rappresentare una concezione del mondo che viene scelta interpretando il senso in cui presumibilmente sembra dover andare, in relazione allo schema in cui i fatti si lascino più facilmente inquadrare, così che l’intelligenza del lettore vi trovi soddisfazione (…).
Sulle cause della situazione presente
Dobbiamo quindi passare a una domanda ulteriore: una volta riconosciuta la concomitanza storica dei fenomeni dello specialismo, della funzione dei mass-media e di quella di attenzione rivolta verso la verità, si può vedere nello specialismo la causa di questa mancanza di attenzione? Ma qui dobbiamo passare a una risposta diversa e vedere nello specialismo l’effetto piuttosto che la causa.
Infatti se il dominio dei mass-media e l’insorgere dello specialismo sono legati, bisogna vedere nei due aspetti la correlatività delle due forme in cui si esplica la crisi dell’illuminismo. Dobbiamo pensare alle sue due facce, la prometeica e la orfica. La prometeica è ben nota. Ha il suo simbolo nell’ordinazione baconiana del sapere al potere. Abbiamo cioè in questa celebre frase l’affermazione della subordinazione della scienza alla tecnologia: intesa questa come l’attività pratica che utilizza i risultati delle scienze ai fini della manipolazione dell’ambiente naturale e umano.
Quel che nel baconismo era implicito , – la prevalenza sulla scienza della tecnologia che ne prescrive le finalità e controlla il suo orientamento in modo da portare come risultato ultimo al regnum hominis, al paradiso sulla terra, insomma, – si è attenuato. Le sue conseguenze delusorie hanno dato origine a quella recente reazione romantica contro la ragione asservita e strumentale, puramente tecnologica che, anziché liberare l’uomo, ha ribadito le sue catene.
Si è fatta strada, soprattutto negli anni passati, quella reazione romantica confusa che rinnova il mito di un paradiso originario da cui l’uomo si sarebbe staccato per la falsa via che ha percorso a partire quanto meno da Platone in poi, e rispetto a cui sarebbe da rivendicare una primitiva e non ben determinata sapienza; posizione di cui non è ora l’occasione di occuparsi , ma in cui mi sembra di dover ravvisare le macerie della filosofia classica tedesca, fa Hölderlin in poi.
Col che non si vuol negare a questa reazione una positività sia pur legata all’impotenza. Ha avuto il merito di manifestare la crisi dell’idea di verità e la sua subordinazione all’idea di potere. Di manifestare il fatto che la verità è diventata funzione dell’interesse, che l’affermazione non è più orientata dal criterio del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, del bello e del brutto, ma semplicemente della difesa dell’interesse che si presenta come verità.
Beninteso, che un interesse si camuffi da verità, che un vantaggio particolare tenti di darsi l’aria di essere un bisogno universale, è cosa comunissima nella storia. Ciò che è nuovo è il fatto che oggi ciò avvenga alla luce del sole, che chi inganna sappia di ingannare e che chi è ingannato sappia di essere ingannato e tuttavia stia al giuoco, magari per una sua sotterranea perfidia, ancora più sottile e perfida di quella dell’avversario. Nasce così la società della sfiducia universale e dell’universale raggiro. La verità diventa “mito”, strumento di volontà di potenza. Si compie così l’oblio dell’idea di verità e il suo cedimento al potere.
Dominio dei mass-media e crisi dell’illuminismo
Abbiamo visto sinora come il dominio dei mass-media sia connesso alla crisi dell’illuminismo. Passiamo ora a vedere la forma della connessione.
Dobbiamo parlare di una sorta di connessione necessaria come se fosse irreversibile la sostituzione dell’idea di potere a quella di verità? Come se fosse dunque irreversibile, di fatto, il passaggio al dominio della forza, o il processo verso il compimento del totalitarismo anche se ci si guardi dal chiamarlo così (il termine che si usa infatti per proporre il totalitarismo da parte di coloro che intendono attuarlo è sempre quello di «compiuta democrazia»)?
Processo magari accompagnato da quella nostalgia verso il paradiso originario perduto. (La mentalità del “viaggio”, e al limite il viaggio psichedelico, che, di fatto, accomunando pensiero classico e cristianesimo nella preparazione di disvelamento della volontà di potenza, aiuta attraverso la falsificazione del processo storico quel dominio della ragione tecnologica di cui si è detto).
Complicità tra le due posizioni che ha caratterizzato la contestazione.
Ora, a questa irreversibilità io non penso affatto, sebbene riconosca che sino a oggi la stampa ha aiutato, soprattutto dal ’60 in poi, una cultura della modernizzazione che ha di fatto coinciso col processo della desacralizzazione, e che la risposta della stampa cattolica non è certamente stata adeguata. E’ particolarmente la ragione di questa inadempienza il tema del presente discorso.
I giudizi particolari che la stampa laica ha generalmente pronunziato si connettono nella quasi totalità all’interpretazione della storia come movimento lineare e progressivo verso l’emancipazione dell’uomo.
L’umanità nel tempo moderno sarebbe passata dall’età dell’immaturità a quella dell’età adulta- L’età dell’immaturità sarebbe segnata dal sentimento della dipendenza e conseguentemente dalla subordinazione all’autorità e alla comprensione delle relazioni naturali e sociali come «segno di Dio».
Nella fase della sua maturità l’uomo impara invece a trattare il reale come semplice materia prima della sua attività creatrice ed autocreatrice. In questa nuova fase storica tutti i valori che tradizionalmente costituivano l’essenza dell’uomo devono venire rimessi in discussione, liberati dalla forma della dipendenza nella quale erano stati originariamente concepiti, ripensati in modo radicalmente nuovo.
Culmine di questa posizione, anche se non resta esplicita in molti dei suoi sostenitori, era l’affermazione della necessità di un nuovo cristianesimo, giustificazione religiosa di un’universale filantropia, che pareva corrispondere all’estendersi delle relazioni fra gli uomini rese possibili dai moderni mezzi di comunicazione e dal modo di vivere contemporaneo. Questa interpretazione della storia è stata accettata da una notevole parte della pubblicistica cattolica; penso si possa e si debba dire proprio in questo preteso aggiornamento sta la ragione dell’inferiorità della pubblicistica cattolica presente.
La rivoluzione sarebbe appunto il passaggio dalla situazione di dipendenza a quella di sovranità: si inserirebbe qui un discorso, che ora non posso fare, sulla coerenza tra l’idea di rivoluzione e quella di superumanità, di crepuscolo di idoli, di trasmutazione di tutti i valori. Non è vero quel che comunemente si pensa che l’idea di superuomo sia una invenzione di Nietzche; in realtà percorre tutto l’Ottocento, e già si trova in Feuerbach e in Marx.
Gli albori del giornalismo
Ricolleghiamo ora questo accenno al discorso che ho fatto prima. Dicevamo che della concezione della vita l’uomo non può fare a meno ma che l’organo che oggi gliela trasmette è il giornale. Se nell’Ottocento avevamo l’adeguazione dell’edicola all’università, si è passati nei tempi recenti a quelli dell’adeguazione dell’università all’edicola. Quando la rottura col passato, la novità in quanto segno del progresso, è diventato il criterio primo, la stampa in quanto appunto presenta la novità, sarà l’organo della trasmissione delle concezioni del mondo.
Ma in che senso, ossia in relazione a quale concezione della filosofia, la stampa potrà essere la trasmissione delle concezioni del mondo? Una sola via mi sembra possibile: sulle varie concezioni la stampa ha un diritto di scelta in quanto esprime «il significato filosofico del nostro tempo». Non è quindi ce il giornale possa avere la funzione di creare la concezione del mondo; ha però nei loro riguardi il diritto privilegiato di scelta, di definire quella che può dirsi vera, e sia pure storicamente vera, perché sembra riuscire meglio di ogni altra ad esprimere il processo del nostro tempo. Ed ecco che ci troviamo ricondotti a questo problema.
Se discendiamo agli albori del giornalismo nel ‘600, troviamo due modelli in senso opposto, Le lettere provinciali di Pascal e le Nouvelles de la Republique des Letters del Bayle, inizio dell’illuminismo, momento in cui le tre direzioni di critica alla Chiesa cattolica – il protestantesimo ridotto sostanzialmente alla teoria del libero esame, il libertinismo, visto soprattutto come critica dei pregiudizi e della tradizione, e l’indirizzo del diritto naturale – sino allora distinti, si riuniscono in un’amalgama.
Ciò che è sorprendente è che di molta parte della pubblicistica cattolica si possa dire oggi che si sia posta sulle tracce di Bayle, piuttosto che di quelle di Pascal. Ricordo alcuni giudizi correnti. Quello che i fatti successivi alla prima guerra mondiale e culminati nella seconda, rendano chiaro che la Chiesa cattolica, almeno dalla Controriforma in poi, è tra le grandi peccatrici contro il mondo moderno.
Quello che il soggetto della storia contemporanea sia la Rivoluzione e che questa Rivoluzione debba essere estesa ala Chiesa cattolica perché possa parlare all’uomo di oggi e trovi ascolto. Quello di una Chiesa che secolarmente era rimasta prigioniera del moralismo delle società chiuse e che particolarmente avesse manifestato questo spirito nella campagna contro il modernismo, da Pio X a Pio XII, e quindi quella straordinaria apologia degli scrittori modernisti che si legge oggi in molte riviste cattoliche, e che talvolta giunge addirittura ad una sorta di santificazione degli eretici, di Tommaso Münzer addirittura.
Quello che la Chiesa del Vaticano I avesse scelto tra le filosofie e le teologie il tomismo perché sembrano offrire il modello della religione e della morale chiuse, o almeno lo avesse interpretato nel senso di un «tomismo sociologico», secondo un’espressione che oggi è corrente. Quello che l’avversario primo che si deve combattere non è il laicismo e non è il marxismo, ma invece è l’integralismo, e che intanto il laicismo e il marxismo hanno interpretato in senso anticattolico le loro giuste esigenze in quanto avevano davanti agli occhi lo sfiguramento integralistico del cattolicesimo.
Naturalmente non voglio dire che tutta la stampa cattolica si muova in questo senso; che una parte e soprattutto quella che pretende di essere intellettualmente aggiornata si muova o almeno si sia mossa sino a qualche tempo fa in questo senso, dico si sia mossa, perché che oggi sia avvertibile un certo riflusso, non è contestabile. Si è trattato di un rovesciamento completo rispetto agli orientamenti sino a vent’anni fa, e non ci si può stupire se i vecchi fedeli si trovino sconcertati, mentre minima, per non dire nulla, è l’attrazione che esercita sui giovani questo cattolicesimo rinnovato.
Dirò ora, con tutta franchezza, che cosa ne pensi. E’ incontestabile che a fondamento così delle nuove teologie come di una parte notevole della pubblicistica cattolica recente stia un giudizio, dommaticamente accettato, sul significato filosofico della storia contemporanea, e che esso corrisponde a quello che è comune, in diverse guise, al neoilluminismo e al comunismo; a quello che curiosamente accomuni neocapitalismo e comunismo. Riassumiamo rapidamente: le vecchie classi, a difesa dei loro privilegi o del loro parassitismo, o delle antiche abitudini, o dello sguardo rivolto al passato, si sarebbero trovate unite in un fascio e sarebbero ricorse contro il mondo che mutava, alle alleanze con le più barbariche forze irrazionali.
La lotta che si ebbe in quel quarto di secolo che va dalla fine della prima guerra mondiale agli anni terminali della seconda, è stato l’episodio finale della lotta tra la reazione e il progresso. La Chiesa avrebbe continuato, in questo periodo, a stare dalla parte della reazione.
Siamo giunti qui a chiarire l’equivoco che vizia gran parte della pubblicistica cattolica. Sta nella credenza dell’arretratezza del cattolicesimo tradizionale, quando invece l’interpretazione filosofica della storia contemporanea è la dimostrazione della sua verità. Ora, che cosa intendo per cattolicesimo tradizionale, espressione certamente ambigua?
Intendo il cattolicesimo del programma di restaurazione cattolica enunciato da Leone XIII e il cattolicesimo che si muove sulla linea di questo programma. Intendo che delle quattro grandi filosofie della storia dell’Ottocento, l’hegeliana, la marxista, la comtiana, la cattolica, tre si trovano smentite dalla storia presente e ce una sola trova la sua conferma o l’invito alla sua continuazione, e che questa è precisamente la cattolica.
Ponendosi sul piano della storia contemporanea non siamo autorizzati a vederne il suo soggetto nella rivoluzione come il passaggio a una superumanità; troviamo piuttosto che essa manifesta la catastrofe della rivoluzione: manifesta quell’eterogenesi dei fini per cui la rivoluzione anziché portarci al dominio dell’uomo o alla libertà o all’eguaglianza, in ogni suo aspetto realizza invece il processo opposto, quello che porta alla mote dell’uomo, se si vuol usare un termine che ha oggi larga diffusione, ma che non possiamo qui analizzare adeguatamente, il nichilismo (…).