“Partiamo dai numeri”: il dato sociologico sui cattolici italiani

Chiesa Pubblicato su Il Timone n. 29,
gennaio 2004

Un dato inquietante: gli italiani non ignorano le verità delle fede perché non vanno in chiesa, ma nonostante vadano ancora in chiesa.

di Massimo Introvigne

Nell’intervista, peraltro come d’abitudine acuta, pubblicata su questo numero del Timone, Ernesto Galli della Loggia ripete un mantra diffuso nella letteratura di taglio divulgativo, secondo cui i praticanti domenicali cattolici in Italia si attesterebbero intorno al 20%. Confesso di non conoscere la prima origine di questo “dato”, che pure continua a circolare.

L’Inchiesta Europea sui Valori del 1999 dà il 40% come dato di pratica settimanale per i fedeli italiani di tutte le religioni, dunque il 38% per i cattolici, considerando che i non cattolici praticanti sono in Italia intorno al 2% (una percentuale, dunque, ancora motto modesta, che sale al 3,50% se si calcolano gli immigrati non cittadini italiani, e che mostra — tra l’altro — come non sia in atto in Italia nessuna “invasione delle sette”: in Italia sono presenti oltre seicento minoranze religiose, ma i tre quarti di esse non superano i cinquecento membri).

Altre indagini recenti — nessuna però così ampia come quella dell’Inchiesta Europea sui Valori — si attestano tutte nella “forchetta” tra il 30 e il 40%. Qualche giornalista ha perfino scritto che la ricerca sul pluralismo religioso e morale anticipata il 10 ottobre scorso dal Corriere della Sera fisserebbe la pratica domenicale al 24,29%.

Questo significa, però, avere qualche problema di lettura dei dati e delle tabelle: è chiaro che la percentuale di chi risponde di andare in chiesa «una volta la settimana» (appunto, il 24,29%) non rappresenta la pratica domenicale. Infatti, a chi risponde «una volta la settimana» occorre sommare chi afferma di andare a Messa «ogni giorno» (dunque anche la domenica: 1,40%) e chi ci va «più di una volta la settimana» (7,17%): il totale descrive una pratica domenicale del 32,86%, sostanzialmente in linea con altre inchieste.

Sommando ancora chi va a Messa «almeno una volta al mese» (16,75%) si arriva anche nell’inchiesta anticipata dal Corriere a un 49,61% di italiani che rimangono sostanzialmente in contatto con la pratica religiosa cattolica. Dunque, ragionando alla grossa e mediando fra dati diversi, circa un terzo degli italiani va a Messa tutte le domeniche, e circa la metà si mantiene in contatto con la Chiesa andando a Messa almeno una volta al mese.

Sono dati confortanti o no? Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Dipende dalla prospettiva. Se qualcuno pensa all’Italia come a un paese dove i cattolici praticanti sono la maggioranza, il dato è preoccupante. Se però inseriamo le cifre in un’appropriata sequenza storica e geografica arriviamo invece a conclusioni che non sono pessimistiche.

Anzitutto, la pratica religiosa sia settimanale sia “almeno mensile” è in ripresa: le serie storiche rese possibili dalla periodica reiterazione delle Inchieste Europee sui Valori mostrano un lento ma costante aumento della pratica che inizia verso la metà degli anni 1980, a fronte di un marcato declino nei decenni precedenti.

Questo aumento si verifica anche — benché con cifre assolute minori — nella fascia fra i 18 e i 30 anni, il che lascia bene sperare per il futuro. Qualche volta le cifre assolute sono più eloquenti delle percentuali. Paragonando le Inchieste Europee sui Valori del 1981 e del 1999 dobbiamo concludere che in una media domenica del 1999 c’erano nelle chiese italiane 2,8 milioni di persone in più rispetto alla stessa domenica del 1981.

Se anche il dato di tale inchiesta dovesse essere, come alcuni studiosi suggeriscono, carretto lievemente al ribasso (secondo parametri che sarebbe lungo spiegare in questa sede), avremmo sempre un buon palo di milioni di fedeli in più nel 1999 rispetto ai 1981.

Ancora più impressionante il confronto geografico. Il 38% o anche solo il 33% di pratica domenicale cattolica italiana (due punti vanno aggiunti se si vuole sommare anche la pratica religiosa non cattolica) corrisponde a una media europea (di pratica religiosa in genere, non solo cattolica) del 20,7%, in cui figurano per esempio un 7,6% (dove i cattolici entrano per il 5,7%) della Francia e un 3% della Danimarca. In Europa solo l’Irlanda e la Polonia superano l’Italia, che non è troppo lontana dal dato statunitense del 41%.

Dunque l’Italia non è un paese “secolarizzato”? Tutto dipende da che cosa si intende per secolarizzazione. I sociologi distinguono fra secolarizzazione quantitativa e qualitativa. La prima fa riferimento alle statistiche sulle credenze e le pratiche religiose. La seconda misura l’incidenza della religione sul costume.

Sicuramente l’Italia — come l’Occidente e l’Europa in genere — è vittima di un imponente fenomeno di secolarizzazione qualitativa: la religione cattolica, pur praticata, fa fatica a ispirare le scelte culturali, sociali e politiche e anche semplicemente morali. L’Italia, ai vertici europei e mondiali quanto alla pratica domenicale, ha contemporaneamente il triste primate mondiale del minor numero di nascite (chi pensa a una illusoria “rimonta” della natalità include nel dato le nascite in Italia di figli di immigrati extracomunitari), e ha avuto per anni anche il record mondiale del consumo di pornografia.

Né si tratta solo della morale. Negli ultimi anni lo scollamento si verifica anche fra pratica religiosa e credenze nelle verità fondamentali della fede: la maggioranza degli italiani non è in grado di ripetere la lista dei sacramenti a dei comandamenti, non crede nel paradiso e nell’inferno, dà risposte dubbie a confuse su temi come la Trinità, la divinità di Gesù Cristo, l’autorità della Chiesa.

Quanto alla “nuova religiosità”, i dati sono assai controversi: per esempio, i dati quantitativi sulla reincarnazione dipendono dall’inclusione o meno nel questionario dell’alternativa “Credo sia nella reincarnazione sia nella resurrezione della carne”, sorprendentemente popolare in Italia. Se non si include questa alternativa i reincarnazionisti “puri” rimangono sotto al 5%; se la si include la credenza nella reincarnazione, tra “pura” o “mista” alla resurrezione, era salita sopra al 20% prima di cominciare una discesa che sembra tuttora continuare.

Tuttavia, se in Italia ci sono da sei a sette volte più cattolici che vanno a Messa la domenica rispetto alla Francia, l’ignoranza a il misconoscimento delle principali verità della fede sono misurate da un dato italiano che non è troppo dissimile da quello francese.

Gli italiani quindi non ignorano le verità della fede perché non vanno in chiesa, ma nonostante vadano ancora in chiesa: dato forse scomodo per qualcuno, ma che sottolinea la disperata urgenza di un ritorna alla catechesi di base e all’apologetica. A differenza di un parroco francese — che non vede mai i nove decimi dei suoi presunti fedeli — un parroco italiano media ne vede con una qualche regolarità la metà: ci si può chiedere se sfrutta adeguatamente queste occasioni di evangelizzarli o se non si illude che sappiano ancora qualcosa della fede, mentre spesso non ne sanno più quasi nulla.

Quanto poi alla secolarizzazione quantitativa, la percentuale di europei che si dicono credenti o religiosi (in Italia, l’89%) o anche che affermano di credere in esplicito a un Dio personale (77,4% secondo l’Inchiesta Europea sui Valori del 1999) non è lontana da quella degli Stati Uniti o di altri paesi.

Le grandi differenze sia tra l’Europa e altri continenti (la cosiddetta “eccezione europea”), sia all’interno dell’Europa riguardano la pratica: la pratica europea media è quasi esattamente la metà di quella statunitense. Ma il dato medio europeo è il risultato di enormi variazioni fra i paesi scandinavi e la Francia, dove la pratica è molto bassa, e paesi come l’Olanda o la Polonia dove è ancora maggioritaria, con l’Italia in mezzo ma più vicino alla fascia più praticante. Come si spiegano queste variazioni?

La teoria dell’economia religiosa — illustrata nel volume che ha scritto con il sociologo americano (e attuale presidente della prestigiosa Società per lo Studio Scientifico della Religione) Rodney Stank, Dio è tornato — postula che la domanda religiosa rimanga costante, e che le variazioni della credenza e della pratica dipendano da variazioni nell’offerta.

Il linguaggio mutuato dall’economia potrà anche non piacere: ma per l’uomo religioso “domanda costante” significa semplicemente che il senso religioso e innato nella persona umana. E “variazioni nell’offerta” vuole dire in prima battuta che una fede annunciata in modo convinto ed efficace risponde a questa domanda e genera fedeli; una fede annunciata malamente e stancamente non riesce a incontrare le aspirazioni religiose che pure esistono.

Dico “in prima battuta”, perché l’incontro tra la domanda e l’offerta religiosa non avviene nel vuoto. In mezzo ci sono altri elementi e strutture — in prime luogo quell’enorme struttura che è lo Stato —  capaci di favorire l’incontro oppure di frapporre ostacoli. Dove l’offerta non incontra la domanda ci sono di solito errori nella pastorale e nella missione.

Ma spesso c’è anche l’intervento dello Stato, capace di frapporre —  quando non si tratta di vere e proprie persecuzioni, oggi felicemente rare in Europa (ma non altrove) — una pletora di ostacoli amministrativi (è il caso della Francia) oppure di soffocare una Chiesa di Stato in un abbraccio burocratico che fa dei pastoni personaggi percepiti come semplici impiegati statali (è il caso di alcuni paesi scandinavi).

L’Italia — grazie a un clima e a una legislazione che garantiscono tutto sommato la libertà religiosa, all’azione del Papa, a grandi fenomeni di devozione popolare come quello che riguarda Padre Pio, alla presenza percentualmente molta alta dei movimenti — è dunque in una posizione più favorevole della Francia (e migliore anche della Spagna e del Belgio, per rimanere nell’ambito di paesi di antica tradizione cattolica) quanto alla presenza sia di persone che affermano di credere in Dio sia che praticano la religione cattolica; è anche in una posizione più favorevole oggi di quanto non fosse negli anni 1970 o nei primi anni 1980.

Tutto questo non autorizza tuttavia nessun trionfalismo: come abbiamo vista, a un dato quantitativo che nel contesto storico e geografico non si può non considerare positivo corrispondono dati qualitativi piuttosto sconcertanti.

Perché non diventi vera, a proposito dell’Italia, la drammatica profezia di qualche anno fa del cardinale Carlo Maria Martini, secondo cui, dal punto di vista religioso, «l’Irlanda è il nostro passato, la Francia è il nostro futuro», occorre che la buona tenuta quantitativa del cattolicesimo sia consolidata da un rinnovamento qualitativo dell’evangelizzazione, al cui servizio si pongono anche iniziative di “apologetica diffusa” come il Timone, in questa prospettiva non solo utili ma obbligatorie.

Bibliografia

Rodney Stark – Massimo Introvigne, Dio è tornato, Piemme 2003.

Secolarizzazione, ‘eccezione europea’ e caso francese: una recensione di ‘Europe: The Exceptional Case’, di Grace Davie, e di ‘Catholicisme, la fin d’un monde’, di Danièle Hervieu-Léger. in Cristianità, anno XXXI, n. 318. luglio-agosto 2003, pp. 7-14.