La Resistenza italiana al nazifascismo è stata studiata da mille prospettive. Resta ancora troppo in ombra, però, il contributo offerto da decine di suore e religiose, che rischiarono la vita per proteggere e aiutare ebrei, ricercati e militanti antifascisti
di Silvio Mengotto
Suor Albarosa Bassani, autrice di Le suore Dorotee durante la Seconda guerra mondiale, dice: «Di questo tema si conosce ancora molto poco. Durante la guerra le suore Dorotee hanno compiuto atti di valore civile finora rimasti sconosciuti anche alla storia locale. Centinaia di donne consacrate misero a repentaglio la propria vita per aiutare chi aveva bisogno, dai malati, alle povere pazze, alle orfanelle, all’umile gente dei quartieri romani».
Anche per suor Wandamaria Clerici, studiosa della figura di suor Enrichetta Alfieri, il contributo delle religiose nella Resistenza «non ha ricevuto la dovuta attenzione, perché le suore non sono abituate a far rumore, consumano la loro vita in modo umile e nascosto, anche se, alcune volte, le loro azioni riescono a raggiungere punte di eroismo ammirevole». Secondo monsignor Ennio Apeciti. «sembra che il contributo delle religiose non solo alla Resistenza, ma più ampiamente all’aiuto a migliaia di oppressi, prigionieri, profughi, ebrei che vissero quel tempo drammatico sia coperto da uno strano “silenzio”».
Oggi però questo ruolo sta emergendo da molti studi, come è apparso evidente anche al convegno organizzato lo scorso aprile dall’Associazione culturale Ambrosianeum, in collaborazione con l’Azione Cattolica ambrosiana, sul tema Le suore e la Resistenza che si è concluso con l’approvazione della proposta di monsignor Giovanni Barbareschi affinché nelle città e nei paesi in cui vi sia stato un istituto di suore che ha collaborato alla lotta di Liberazione in vano modo sia dedicata una «Via Suore della Resistenza».
Dopo l’8 settembre 1943 in molte località italiane si registrarono gesti significativi nei conventi e negli istituti religiosi femminili che esprimevano l’intento di contenere la violenza, assistere in vane forme la popolazione, i partigiani, militanti in clandestinità. Le religiose si fanno carico del destino di estranei, sconosciuti, ebrei, sfamando e proteggendo, nascondendo persone messe a rischio dalla guerra. Un autentico maternage.
Suor Grazia Loparco, docente alla Pontificia facoltà di Scienze dell’educazione, ha pubblicato uno studio sull’assistenza prestata dalle religiose di Roma agli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, in cui per la prima volta si documenta che a Roma furono circa 4 mila gli ebrei salvati nei 200 istituti religiosi nella città. Di questi, 133 erano conventi femminili preservati dalle incursioni naziste da appositi cartelli della Santa Sede.
La ricerca mette in evidenza «l’apporto singolare» delle religiose per nascondere gli ebrei a Roma tra l’autunno del 1943 e il 4 giugno 1944: «La Santa Sede aveva provveduto a garantire gli stabili dinanzi al Governo e poi incoraggiò l’ospitalità e la misericordia». È anzi «probabile che l’accoglienza negli istituti fosse cominciata senza attendere direttive esplicite dalla Santa Sede, sebbene vari testimoni facciano riferimento ad alcune comunicazioni e richieste giunte oralmente attraverso canali ecclesiastici».
La permanenza degli ebrei negli istituti religiosi romani «variò da pochi giorni a parecchi mesi (anche nove o più). Alcuni passarono da un convento all’altro». Se prima del 16 ottobre 1943 era difficile procurarsi un documento falso, «in seguito le Benedettine di Priscilla si prestarono alla distribuzione di tessere false e documenti d’identità, portati da Giulio Andreotti». Non mancò neppure la fantasia e l’ingegno: le suore Compassioniste di Maria «accolsero sessanta signore ebree con le figlie, regolarmente registrate come suore, con nomi convenzionali ben pensati e capaci di pregare come le altre».
Per suor Grazia Loparco il motivo che spinse le religiose al rischio fu «l’appello alla carità che proviene dal Vangelo. Pressate dalle richieste di donne, bambini, talora anche uomini ricercati, molte sentirono che dovevano aprire le porte e il cuore, condividere il poco che avevano e anche la paura delle perquisizioni».
Nel 1953 il Parlamento israeliano crea il titolo di Giusto tra le nazioni con lo scopo di ricordare coloro che hanno salvato la vita a uno o più ebrei. Tale titolo è stato attribuito anche a una ventina di religiosi e religiose. Tra questi, si trovano i nomi di suor Marta Folcia, suor Benedetta Vespignani, suor Virginie Radetti, suor Emilia Benedetti, suor Margherita (Claire) Bemès, suor Ferdinanda (Maria) Corsetti, suor Emerenziana (Anna) Bolledi, suor Maria Maddalena Cei, suor Mana Angelica Ferrari, madre Giuseppina Lavizzàri, suor Elis Esselblad, suor Sandra (Ester) Busnelli, madre Marie Xauvier Marteau.
In un recente articolo sulla rivista Segno, Barbara Garavaglia documenta una scheggia di storia sconosciuta. Ad Assisi gli ebrei in fuga, soldati allo sbando, sfollati, partigiani, perseguitati politici, trovarono rifugio nei sotterranei delle clarisse di San Quirico di Assisi, Nel suo Libro delle memorie, madre Maria Giuseppina Biviglia annota: «Le persone che si rifugiavano da noi furono, per grazia di Dio, nei nostri riguardi tutte oneste, rette, buone e anche religiose, tanto i cattolici quanto gli ebrei. Venne qualche fascista durante il Governo Badoglio e dopo l’entrata degli americani; qualche socialista… Era proprio un’arca di Noè».
Sempre nelle memorie di San Quirico è registrato il nome del campione di ciclismo Gino Battali che. nel telaio della propria bicicletta, portava a Firenze altra città che si distinse per l’aiuto prestato agli ebrei, grazie al cardinal Elia Dalla Costa – le fotografie dei clandestini, e riportava a San Quirico documenti falsi.
E attività di soccorso e protezione a sbandati, sfollati ed ebrei in particolare coinvolse la Chiesa italiana a macchia di leopardo. Nella Chiesa toscana il cardinal Dalla Costa svolse un ruolo centrale nella copertura e nella promozione delle iniziative di soccorso. Le diocesi più direttamente coinvolte furono Firenze, Lucca, Siena, Pescia. Arezzo. A Firenze furono coinvolti 41 tra conventi, istituti e parrocchie e 12 erano conventi o monasteri femminili.
Nella sua ricerca storica, suor Albarosa Bassani documenta gli atti di coraggio compiuti dalle suore Dorotee, A Venezia, nella casa S, Filippo in sestiere Dorsoduro, le suore avevano un laboratorio di ricamo dove «suor Pier Damiana Cadorin accolse e nascose tre signore ebree, inserendole tra le donne sordomute del laboratorio». La comunità israelitica veneziana nel 1955 conferì a suor Damiana un attestato di riconoscenza per quanto aveva fatto, a nome di tutti quegli ebrei che avevano «conservato intatto nel cuore il ricordo del bene che, fra tanto male, era stato compiuto in quei tristissimi anni».
Nel Vicentino, invece, le suore «nascosero in soffitta il capo dei partigiani che lavorava in pianura. Un’ispezione della SS tedesca irruppe nell’asilo, che fu rovistato e messo sossopra in ogni luogo. La superiora, con un bambino per mano, accompagnava gli intrusi e in cuore suo tremando invocava le Anime Sante del Purgatorio e il Signore che, per l’innocenza di quel bimbo, risparmiasse la casa e la loro vita. Infatti, sconfitti e confusi, quelli sì allontanarono minacciando altre e più terribili ispezioni. Quel capo partigiano, a notte fonda, trovò la sua salvezza nella fuga».
Se le suore, continua suor Albarosa Bassani, «hanno aiutato i tedeschi e i fascisti quando questi erano ammalati o feriti, è perché in essi vedevano soprattutto “l’uomo da salvare”. Tuttavia, quando si è trattato di scegliere da che parte stare, di agire direttamente, correndo rischi che implicavano la perdita della vita, queste suore sparse in tante parti d’Italia, senza comunicare tra di loro, come guidate da un sesto senso, scelsero di aiutare soprattutto gli ebrei e i partigiani. La loro, dunque, fu istintivamente una scelta di libertà».
Nelle carceri di San Biagio di Vicenza, suor Demetria Strapazzon era chiamata «l’angelo di San Biagio e la mamma dei detenuti» perché vigilava «sulle donne, preparava alla morte i condannati alla fucilazione, raccoglieva i loro desideri per trasmetterli alla famiglia. Ai detenuti partigiani che ritornavano torturati, fra questi qualche sacerdote, lei preparava un caffè o un calmante, medicava loro le piaghe e li incoraggiava».
La figura di suor Demetria è incredibilmente simile a quella di suor Enrichetta Alfieri, che operava nel carcere di San Vittore a Milano, chiamata dai detenuti «l’angelo e la mamma di San Vittore». Suor Enrichetta passava tra le stanze dell’infermeria del carcere e nelle profonde tasche del suo grembiulone di infermiera teneva medicinali, ma soprattutto “biglietti” preziosi, che riuscivano a salvare vite umane. Venne scoperta e arrestata, rischiando la fucilazione e l’internamento nei lager nazisti.
Nelle testimonianze raccolte durante il processo di beatificazione, spiccano quelle di Mike Bongiomo e di Indro Montanelli. Mike Bongiomo, incarcerato a San Vittore nel 1943, perché oriundo americano, disse: «Suor Enrichetta era effettivamente un personaggio incredibile. In carcere parlavano tutti di quest’angelo, che nel Reparto femminile aiutava le prigioniere e si faceva in quattro per alleviare ogni pena. Ella rappresenta un poco la storia di tutti quelli che hanno sofferto in San Vittore durante quegli anni terribili. Chi lavorava dentro era un eroe».
Indro Montanelli venne arrestato con la moglie nel carcere di San Vittore per l’attività giornalistica. Di lei disse commosso: «Suor Enrichetta era una stupenda figura di religiosa. Una suora buonissima e coraggiosa. Le sarò grato per sempre. Tutti noi ricevevamo, grazie alla sua regia, bigliettini e informazioni. Così grande era il conforto di quegli incontri furtivi, così immensa la gratitudine per chi con grande rischio personale li rendeva possibili, che ancora oggi il ricordo di suor Enrichetta e della sua veste frusciante suscita in me la devota ammirazione che si deve ai santi o agli eroi. In questo caso, a entrambi».
A Milano operarono nel nascondimento altre religiose sconosciute, come per esempio suor Teresa Scalpellini e suor Giovanna Mosna, infermiere all’Ospedale Maggiore di Niguarda. Tramite una rete clandestina di partigiani e antifascisti, le suore collaboravano con medici e infermiere allo scopo di assistere i detenuti politici, organizzare la loro fuga, raccogliere materiale sanitario per partigiani ed ebrei. Madre Donata Castrezzati, superiora delle Poverelle dell’Istituto Palazzolo di Milano, è un’altra figura di religiosa sconosciuta. Sotto la sua guida, con il tacito consenso delle autorità ecclesiastiche, il Palazzolo di Milano divenne il soggiorno obbligato degli ebrei che transitavano da Milano avviati clandestinamente in Svizzera. Madre Donata venne scoperta e incarcerata a San Vittore.
Sempre a Milano, nell’istituto Casa di Nazaret nel massimo segreto gli ebrei venivano seguiti da una suora. In qualche circostanza, collaborando con sacerdoti, fu possibile accompagnare gli ebrei oltre confine. Ma la Casa di Nazaret ospitò anche il Comando dei Volontari della Libertà che aveva lo scopo di organizzare e gestire le ultime fasi dell’insurrezione, Dalla cronaca della Casa Nazaret, datata proprio 25 aprile 1945, si legge: «Quante grazie per il nostro Istituto, per le nostre Case e specialmente per la nostra diletta Nazaret! La nostra rev.ma madre generale Rosa Chiarina Solari, certo per ispirazione divina, fine strumento che Dio adoperò per compiere i suoi disegni di misericordia. Fu richiesto un locale ove di tanto in tanto i capi dello Stato maggiore del Comitato di Liberazione si radunavano per studiare i loro piani di rivolta. In casa nessuno era a conoscenza di ciò».
A Viggiù operò suor Lina Manni, che per trentenni fu a capo della congregazione varesina fondata da monsignor Carlo Sonzini: «Questa suora insieme a monsignor Sonzini ebbe un ruolo decisivo nel salvataggio di molte famiglie di ebrei, che le autorità avevano confinato in Casa San Giuseppe».
Nelle vicende complesse della lotta di Liberazione non mancarono episodi di segno contrario, ma per suor Grazia Loparco la presenza delle religiose nella guerra fu «un’esperienza concreta della carità di donne che si sono chinate sulle povertà, sulle debolezze e sulle infermità di persone bisognose di aiuto.
Quasi mai le religiose, per quanto ne sappiamo, agirono per motivi politici. Erano piuttosto spinte dalla carita, che imponeva in tempi di emergenza di aiutare chiunque ne avesse bisogno. Per questo si trovarono talvolta sotto lo stesso tetto renitenti alla leva, ricercati per motivi politici, ebrei, sfollati, orfani…
In alcuni casi offrirono una base di appoggio ai partigiani. Dinanzi alle ingiustizie palesi del nazifascismo e alla durezza della guerra diedero un contributo di umanità, superando antichi steccati. Basti pensare agli ebrei: dal punto di vista religioso non c’era dialogo, ma prevalse il buon senso di rischiare per persone che forse non si sarebbero salutate per strada».