La storia della tratta in una mostra a Nantes
di Cesare De Seta
La tratta degli schiavi dall’Africa principia già nel Cinquecento, ma è nel corso del Settecento che prospera grazie all’intraprendenza spietata di armatori inglesi, portoghesi e francesi. Nantes fu tra le città della Francia la capitale di questo commercio che ebbe come protagonista Bristol, Liverpool, Londra in Inghilterra, Lisbona e Cadice nella penisola Iberica. Su questi trascorsi ingloriosi la municipalità di Nantes ha allestito una mostra che sarebbe stupido e ingiurioso definire bella, perché essa turba, per la violenza e la crudezza degli eventi che mette in scena nella sede austera e possente del castello del duca di Bretagna, simbolo della città.
Il merito della mostra è quello di trasformare una nota tragedia della storia in un evento che ci colpisce perché nessun dato statistico, nessun disegno, nessuna descrizione letteraria è capace di trasmetterci la sensazione che procura una nave sezionata nella cui pancia sono stipati centinaia di uomini, donne e adolescenti in un modo che è persino banale definire inumano. In questo traffico comunque nulla è lasciato al caso: di solito l’armatore non dispone da solo dei capitali necessari ad allestire una spedizione negriera, il rischio viene dunque diviso tra soci rispettabili borghesi della società locale.
L’equipaggio per la tratta è in numero triplo rispetto a quello di un normale traffico commerciale di caffè, riso, zucchero, tabacco, cotone: l’armatore si garantisce sui rischi stipulando un’assicurazione, scegliendo un buon capitano e una buona imbarcazione. I vascelli destinati a questo traffico non sono molto diversi da quelli in uso per il trasporto di altre merci, salvo che per l’attenzione a rendere più capienti gli scafi che ospitano fino a cinquecento negri un quarto dei quali donne. La nave ha il suo medico che controlla a terra lo stato di salute della “merce” che viene pagata di solito in alcool, armi da fuoco, tessuti e altre chincaglierie.
Ha scritto di recente lo storico senegalese Babacar Fall che la caccia agli schiavi era una istituzione dei regimi che dominavano le coste atlantiche dell’Africa: erano costoro ad organizzare la caccia e i primi beneficiari di questo mercato che grazie allo scambio di armi consentì una lunga stabilità politica.
Compiuto lo scambio sulla costa africana il capitano intraprende la traversata dell’Atlantico. Mal di mare, malattie, “malinconia”, denutrizione sono causa di morte per il dieci-venti per cento degli schiavi. Sono frequenti le rivolte represse nel sangue, ma giunti nei Carabi o sulle coste dell’America Centrale la merce viene “rinfrescata”: un buon armatore infatti ha teste di ponte nei porti più importanti dove gli schiavi possono mangiare meglio per alcuni giorni, lavarsi ed essere più presentabili agli acquirenti potenziali che sono di solito proprietari terrieri di coltivazioni di caffè e canna da zucchero.
Uno schiavo viene venduto ad un valore cinque volte superiore al prezzo d’acquisto: i coloni pagano poco in contanti e soprattutto in natura (caffè, zucchero, cotone, tabacco indigo). la nave carica di queste merci riprende la via del ritorno: il triangolo Africa-Europa- America si chiude.
Molto spesso il capitano deve sostituire parte dell’equipaggio anch’esso falcidiato dalla durezza del viaggio. Molte imprese schiaviste organizzano sia in Africa che nei luoghi di destinazione accampamenti fortificati che rassomigliano per disegno – sia pur in forma assai dimessa – a quelle di Vauban o della trattatistica rinascimentale rivisitata dai gesuiti nella loro opera di evangelizzazione del nuovo mondo.
Visitando questa mostra possiamo conoscere non solo i mezzi di trasporto, il porto di partenza e quelli di arrivo, ma vedere i ceppi per polsi e caviglie, gli strumenti di tortura, i diari di bordo, le rotte adottate, i contratti di assicurazione, quelli di vendita e di acquisto: da essi risulta che tra il XVIII e XIX secolo circa la metà del traffico negriero intrapreso da armatori francesi fece capo a Nantes, l’altro diviso tra Bordeaux, le Havre e la Rochelle.
Dunque Nantes che pure ha un suo posto nella storia per l’editto con il quale Enrico IV dava libertà di culto ai protestanti, guadagnò un primato nella tratta degli schiavi. Gli anni della memoria, questo il titolo della mostra aperta fino a febbraio, è dunque una sorta di autocoscienza collettiva svolta dalla città nei confronti della sua storia ed è molto istruttivo seguire le vicende di alcune di queste famiglie di armatori.
Caso esemplare quello di Guillaume Grou che nel corso di una decina d’anni considerati tra i più fruttuosi per questo commercio – tra il 1730 ed il 1740 – accumulò enormi ricchezze: dagli anni venti fino al 1761 la sua famiglia allestì cinquanta spedizioni negriere e il patriarca prima di morire volle salvarsi l’anima e lasciò una fortuna all’Ospedale di Nantes per gli orfanelli. L’HotelGrou è ancora oggi una delle più eleganti dimore dell’Isola Feydeau: nella piazza della Petite-Hollande si affaccia il piano nobile con dieci stanze, servizi e nove domestici.
Nel corso della Rivoluzione francese quello della schiavitù fu un tema scottante, ma solo il 4 febbraio del 1794 la Convenzione l’abolì in tutte le colonie francesi. I traffici di fatto continuarono: d’altronde Napoleone nel 1802 inviò truppe a San Domingo per ristabilire il potere francese dopo una rivolta e, con esso, la schiavitù che rimase operante fino a metà secolo.
L’iconografia che illustra questo dibattito è di per sé significativa dei diversi e persino opposti sentimenti che si confrontano: Nantes, per meglio dire la vicina Angers, diede pure i natali all’Abate Gregoire che dal 1981 riposa nel Panthéon a Parigi assieme a Monge e ai Condorcet, per essere stato uno dei più convinti assertori durante la Convenzione dell’abolizione della schiavitù. Il busto severo scolpito da David d’Angers ci ammonisce, alla fine di questo itinerario, che il secolo dei Lumi ha soffitte buie e sordide.