Supplemento a Litterae Communionis
I GRANDI DELLA CULTURA MODERNA RIVISITATI
«Sto lavorando senza sosta, intravedo la Terra Promessa. Mi accadrà come al capo degli Ebrei, o potrò entrarvi?»
testo di Giuseppe Frangi e Flaviano Vitali
La sua vita
«Je me suis juré de mourir en peignant».
Figlio d’una regione, la Provenza, che lungo la sua storia non aveva mai nascosto nei confronti prima della corona come poi della repubblica un proprio piglio autonomistico; figlio anche di una terra, la cui solidità si misurava tanto sugli immutabili verdi della sua vegetazione, dei suoi ulivi, cioè, e dei suoi pini, quanto sui certi e ben scanditi rilievi; figlio altresì di una cittadina, Aix, che in un passato s’era infiammata per i fasti e le glorie di una celebre aristocrazia ma che s’era poi via via assopita nella vita rilasciata e tranquilla di un modesto centro di provincia, Paul Cézanne era venuto alla luce il 19 gennaio del 1839.
La sua famiglia vantava una lontana origine italiana, per la più precisione piemontese: pare anzi certo che il suo patronimico derivi da Cesana, borgo del Piemonte occidentale da cui i suoi antenati si sarebbero mossi attorno al 1650 per mettere a frutto, in territorio transalpino, giusto valicate le Alpi, la loro perizia di cappellai.
Giunti ben presto ad Aix, nel cuore cioè della Provenza, la fortuna si presentò loro con volti alterni e con favori incostanti; si riservava, invece, d’appoggiar con incondizionata generosità il destino di Jean Auguste Cézanne, padre di Paul, il quale, abbandonato il mestiere dei suoi antenati, si lanciava con completo successo nell’attività di banchiere; per questo proprio lui s’era proposto, e talora imperiosamente proposto, di fare del figlio, unico figlio maschio, il degno e preparato erede di tanta prosperità; ma, proprio lui, regalando a quel figlio, ormai adolescente, una scatola di acquerelli, aveva contribuito a orientarne gli interessi, la vita e le passioni verso l’unico porto della pittura.
I prevedibili e comunque contenuti dissidi col padre non risultarono sufficienti a che ombra alcuna velasse la giovinezza di Cézanne; la quale invece trascorreva serena e bruciava i suoi tempi al fianco di quella d’un altro celebre nome della cultura francese. Emile Zola. S’erano trovati infatti sui banchi liceali e uniti da una saldissima amicizia s’erano insieme introdotti, spinti da comune passione, tra le fosche, fascinose atmosfere di Hugo e di De Musset.
Insieme lungo le settimane del Corpus Domini, quando Aix bardata di velluti e di damaschi accoglieva nelle proprie strade il fervore religioso e cattolico della sua gente, seguivano con devota e puntuale festosità, le rituali processioni; ancora insieme, stimolati da un identico entusiasmo per la natura, avevano perlustrato, approfittando delle scorribande d’obbligo per quell’età, boschi, cave, rocce, torrenti e castelli che sarebbero, di lì a poco, divenuti i più assidui e noti motivi della pittura di Cézanne.
Risultavano tutti ricordi, questi, che non dovevano più uscire dal cuore e dalla mente del maestro di Aix e che anzi, intrecciandosi e lievitando, costituiranno poi l’ossatura, se non l’anima stessa della sua rocciosa e grandissima poetica. Perché chi ancora si aspettasse di leggere tra le righe di questa biografia le emozioni di qualche colpo di scena, le polveri di qualche scandalo o le ferite di qualche avventura sentimentale s’ingannerebbe: la biografia di Cézanne non registra episodi vistosi né trascina nel vortice di clamorose avventure; scivola invece via di soppiatto, quasi quella di un semplice paesano o contadino del meridione della Francia che invece di piegar la schiena sulla terra si fosse applicato a consumare l’intera propria esistenza sulla pittura.
Alcuni tra i suoi biografi hanno addirittura sostenuto che la sua la si poteva quasi prendere per la vita di un santo; noi, con Cézanne, preferiamo limitarci a credere che perché all’artista sia dato d’elevarsi, l’uomo deve necessariamente rimaner sconosciuto.
Ci tramandano che sin d’allora dipingesse «partout et toujours», sempre e dappertutto, e sappiamo da un aneddoto come una volta fosse stato sorpreso quando ancora non aveva che cinque anni a dipingere un Pont-Mirabeau, con sbalorditiva e precocissima abilità, sugli intonaci della cantina della casa paterna. Così quanto più quella passione veniva assumendo il crisma di una indefettibile vocazione, tanto più i dissidi col padre s’inasprivano: da Parigi Zola lo chiamava e lo teneva informato del fervore culturale che faceva in quegli anni della capitale francese il fulcro della cultura europea; a Parigi il padre s’illudeva invece che il giovane Cézanne, una volta misurata la propria imperizia di fronte agli astri della pittura ufficiale, deponesse ogni sogno ed ogni pretesa riguardo al proprio destino di artista. Proprio lui così, con quella segreta speranza in cuore, l’aveva accompagnato durante l’estate del ’61 nella capitale e gli aveva pagato un soggiorno di qualche mese.
Accadeva però quel che né Zola né il facoltoso banchiere di Aix avevano previsto: Cézanne con incredibile voracità consumava le sue giornate tra il Louvre, il Salon di quell’anno e i corsi dell’«Accademie Suisse», degnava il suo amico d’infanzia di qualche sporadica visita (più tardi si sarebbe giustificato che lui, nella vita di mondo, non sapeva proprio come muoversi; che insomma lo riguardavano ben altre cose), mentre il preventivato scoraggiamento di fronte all’abilità e alla perizia di un Meissonier o di un Cabanel si risolveva in ulteriore impegno nel dedicarsi alla pittura.
A Parigi, anche nei successivi soggiorni, con quell’accento che rivelava pesantemente la sua origine meridionale, si sentiva, al contrario di Zola, come uno straniero; per di più pochi riuscivano a perforare la cortina che aveva alzato attorno a sé e tra quei pochi solo Camille Pissarro, una delle punte di diamante dell’ormai prossimo gruppo impressionista, riusciva ad intrecciare un’amicizia e a stabilire un rapporto di stima col giovane di Aix.
Pissarro infatti al pari di Cézanne si sentiva assai più legato alla propria origine contadina di quanto non fosse riuscito ad inserirsi nella disinvolta e spregiudicata vita parigina; di modo che la sua pittura facendo ben poche concessioni allo spirito moderno e borghese si rivelava piuttosto propensa a riversare la recente conquista del «plein air» su d’un fondo di antico, onesto, generoso anarchismo.
Così mentre dall’alto della sua benevola e paterna autorità Pissarro lo convinceva a liberarsi dei toni troppo foschi e scuri appresi in eccessive frequentazioni dei musei, Cézanne nel 1866, candidandosi invano al Salon, all’esposizione ufficiale cioè dell’arte francese, trovava il modo di sperimentare quanto aspro e ottuso fosse il rifiuto che il mondo della contemporanea cultura gli avrebbe regolarmente opposto sino al termine dei suoi giorni; e se si pensa come la pittura cézanniana avanti il ’70 risultasse pittura di stampo palesemente romantico, improntato cioè sull’illustre e accettatissismo modello di Delacroix, non resta che credere a un eccesso di temperamento già d’allora fuori registro rispetto a ogni stabilito canone e ad ogni stabilita formula; «temmperammennt» pare dicesse Cézanne facendo così tutt’uno tanto del significato medesimo del termine quanto dei gravi esiti sonori della sua parlata meridionale; «il faut avoir du temmperammennt pour faire de la peinture» ripeteva testardamente a sé e agli altri in ogni circostanza quasi a significare il proprio distacco dai fragili, esili equilibri della pittura di quei tempi, impressionismo compreso).
Pissarro stesso lo convinceva, nel ’72, a un soggiorno a Auvers, un paese della Francia occidentale dove, 18 anni più tardi, sarebbe giunto per mettere fine ai suoi tormentati giorni pure Vincent Van Gogh: qui Cézanne invece dipingeva, tra i suoi primi quadri a cielo aperto, quella celebre Maison du Pendii con cui si presentava nel ’74 alla prima fatidica uscita degli impressionisti; se ne sarebbe ben presto pentito lui, il riservato provenzale di Aix, di non aver resistito a simile tentazione: perché se giornali, critici e pubblico avevano levato chiassosamente gli scudi contro l’intero gruppo, avevano riservato un accanimento e una cecità del tutto particolari per il solo Cézanne; l’essersi ritrovato così nell’occhio di un ciclone che oltretutto non sentiva di condividere appieno lo convinceva a tirarsi indietro sin dalla seconda esposizione apertasi nel ’76; alla terza, spinto ancora una volta dal buon Pissarro, faceva invece un’altra conclusiva comparsa ricevendo comunque uguale accoglienza, nonostante sul resto della compagine impressionista cominciasse già a planare un generale, incontrastato consenso.
Quale potesse risultare il suo stato d’animo, quale il fastidio che tanto rumore levatosi attorno alla sua persona doveva procurargli, ognuno può ben immaginarlo: ci si permetta comunque di citare, a conferma di quell’impressione, i due versi di Vigny che taluni, in quei giorni, più volte gli avevano sentito sulle labbra: «Seigneur, vous m’aviez fait puissant et solitaire. / Laissez-moi m’endormir du sommeil de la terre ».
Non che l’opera di Cézanne incontrasse sempre e dovunque ostilità: c’era chi l’apprezzava e c’era, soprattutto, chi sin d’allora ne proclamava appassionatamente la grandezza: proprio per le fortissime quanto generose pressioni d’uno di questi, il pittore Guillemet, un’opera di Cézanne, lasciamo perdere tra quali commenti, faceva ingresso, nel ’72, al Salon; ma simile circostanza toccava solo di striscio il maestro di Aix: ben altra invece la sua emozione quando, quattro anni più tardi, Zola dava alle stampe un romanzo, L’Oeuvre, il cui protagonista, da molti identificato con Cézanne medesimo, risultava appunto un pittore che, avendo misurato il proprio limite di fronte all’insuperabile scoglio di un quadro, sceglieva per il suicidio.
Lungi dal lasciarsi sconvolgere da una simile ipotesi, tanto estranea e distante dal suo spirito da suscitargli, oltretutto, la più chiara ed ovvia delle risposte, visto che a suo avviso se un’opera non fosse riuscita la si doveva buttare nel fuoco per ricominciarne subito un’altra, Cézanne restò piuttosto sorpreso dalla condanna contenuta nelle pagine del suo grande amico; non era certo tipo da dimenticare con troppa fretta i propri sentimenti e se non lo toccava la vicenda narrata in quel romanzo, moltissimo lo addolorava invece la conseguente, definitiva rottura del rapporto con Zola: dieci anni più tardi tenterà infatti invano di riprenderne le fila e, nel 1902, un enorme scoramento lo coglierà alla notizia della morte del suo vecchio amico.
Un altro fatto d’ancor maggior gravità, la morte cioè di suo padre, doveva scuoterlo in quell’anno 1886; i dissidi li aveva portati via con sé il tempo e, benché il banchiere di Aix continuasse a non darsi pace sulle scelte del figlio, i rapporti erano tornati alla primitiva serenità. Per altro a dir dell’affetto e del rispetto che sempre avevano tenuto legato il maestro a suo padre restano i passi di alcune lettere, scritte nei più critici frangenti, lettere nelle quali Cézanne stesso si premurava di salvare agli occhi degli amici l’immagine dell’intransigente genitore.
Simili dolori non facevano che aumentare il suo isolamento e il suo silenzio: dal 1877 ormai non aveva più presentato novità alcuna alla troppo ostile ribalta parigina e, tolta la fugace apparizione al Salon del 1882 e l’ancor più clandestina partecipazione all’esposizione universale del 1889, tolte dicevamo quelle due occasioni, gli aggressivi e ottusi taccuini delle intelligenze della capitale dovevano tenersi tranquilli sino al 1895. In quell’anno, infatti, un grande e celebre mercante, Ambroise Vollard, colpito da alcune tele di Cézanne che un mercante di colori amico di tutti gli impressionisti, Pére Tanguy, custodiva gelosamente nel suo retrobottega, s’imponeva di ospitare nella sua galleria la prima grande personale del maestro di Aix.
Una gran quantità di problemi gli si parava dinnanzi: primo tra gli altri quello, non certo secondario, di rintracciare Cézanne; il quale pur abitando per molti mesi all’anno a Parigi non usava lasciar recapito ad alcuno sia perché, a suo giudizio, in pochi risultavano interessati a conoscerlo, sia perché le esigenze del suo lavoro gli imponevano il più ermetico isolamento. Stabiliti comunque i contatti col figlio ormai ventitreenne del maestro, ben presto al mercante parigino furono recapitate centocinquanta tele arrotolate che una volta esposte provocarono i soliti, rissosi commenti.
Qualcosa comunque in quei vent’anni era mutato e l’ombra dell’immane grandezza di Cézanne era cominciata a calare davanti agli occhi di qualcuno: Monet, ad esempio, più illustre rappresentante oltre che vero e proprio faro del gruppo impressionista, aveva confessato quanto il bistrattato Cézanne, il Cézanne che le valutazioni di mercato davano talora come dieci volte inferiore a Renoir, a Manet e a Monet medesimo, ebbene quel Cézanne fosse, in verità, il più grande di tutti loro.
Caso ha voluto che da tale lapidaria affermazione (affermazione che oltretutto risultava individuazione già di per sé critica, che se Cézanne di qualcosa poteva ben farsi vanto di fronte alla frammentaria occasionalità degli impressionisti era proprio di quel suo trasudar solidità e grandezza) si possa far cominciare l’ultimo, appunto grandissimo, periodo del pittore di Aix: era accaduto infatti che, invitato da Monet a trascorrere qualche giorno nel suo atelier di Giverny, senza motivo apparente e senz’altra spiegazione che la scarsa tenuta della sua emotività, se ne fosse di qui partito all’improvviso; dovendo poi fornire ragione e porgere scuse per quanto accaduto, aveva confessato che l’attrazione per la sua terra pesava ormai sulla sua anima al pari d’una fatalità.
«Sprofondare nel meridione» suonavano per l’esattezza le sue parole; sprofondare nel meridione per potersi dedicare con più totale ed esclusiva dedizione alla pittura. Così, ridotti dapprima i suoi soggiorni a Parigi, abbandonata poi, col nuovo secolo, la stessa capitale Cézanne si rifugiava ad Aix: qui, tra il ’95 e il ’97, lo costringevano oltretutto le continue affettuosissime premure nei confronti della madre paralizzata; qui, soltanto qui, avvertiva gli si sarebbe spalancata la «terra promessa» della pittura.
Non sorprenda l’essere ricorsi a simile risvolto biblico perché a suggerircelo, era stato, in una lettera inviata a Vollard, proprio lui, Cézanne; il quale ben sapendo come tale «terra promessa» non navigasse per cicli e galassie, bensì affondasse nella fisica e concreta verità dell’uomo e della natura e come quindi, chi la perseguiva, dovesse assoggettarsi al più quotidiano e contadino dei possibili ritmi di vita, dava inizio alla propria giornata alle cinque di ogni mattina.
Più tardi, una volta ascoltata la prima messa, si portava sul lavoro da dove non si muoveva sin sulle soglie del mezzogiorno; dedicava invece il pomeriggio e soprattutto le ore che precedevano il cader delle prime ombre della sera alla ricerca del «motif», del brano di paesaggio cioè su cui la sua emozione si fosse posata con particolare intensità; a Aix chiamavano quell’ora «l’heure de Cézanne»: era infatti il momento in cui il maestro, vecchio di aspetto più di quanto la sua stessa età non avrebbe lasciato immaginare, usciva e, a piedi o in carrozza, si metteva a perlustrare le rocce, i torrenti, i tagli dei boschi su cui i suoi pennelli si sarebbero ben presto accaniti per giorni se non per settimane intere.
Nel frattempo i dolorosi frangenti dell’agonia, prima, e della morte, poi, di sua madre l’avevano convinto, nel ’99, a disfarsi della tenuta, il Jas de Bouffan, voluta e costruita da suo padre più di quarant’anni avanti. Di troppi tristi ricordi, di troppa malinconia s’erano ormai intrisi quei muri, mentre quei prati e quei vialetti sovrastati dai grandi castani, che erano stati, ai tempi della giovinezza, i più frequenti «motifs» dei suoi quadri, si legavano alla memoria delle ultime, faticose uscite della mamma malata e afflitta; al maestro non restava così che adattarsi alla ben ,più ristretta disponibilità di un appartamento in pieno centro cittadino: di lì, alle prime luci dell’alba, partiva per recarsi di volta in volta a Lauves, dove si trovava il suo vero e proprio atelier, al Chateau Noir, dove di una piccola stanza presa in affitto aveva fatto il punto d’osservazione preferito verso la montagna di Sainte-Victoire, o a Bibémus, dove invece, dipingeva le rocce quasi color ruggine di una cava abbandonata.
Tale risultava poi l’impegno con cui Cézanne scavava dentro la verità d’una mela come d’un paesaggio che, ad esempio, frequentemente si disponeva a passeggiate domenicali con un geologo di Aix certo Marion, il quale gli veniva spiegando sul posto la morfologia e la natura delle rocce e delle terre che allora stava dipingendo; tuttavia negli ultimi anni l’attenzione di Cézanne s’andava fissando soprattutto sui ritratti, a proposito dei quali si tramandano come leggendarie le infinite, estenuanti sedute cui sottoponeva i suoi modelli; proprio tale semplicissima ragione spiega il ricorrere con tanta frequenza delle immagini della moglie, della governante e, più avanti, dei contadini o dei paesani di Aix e spiega anchesì come mai compaiono invece così raramente i volti dei pochi amici.
Intanto, mentre a Aix Cézanne procedeva con silenziosa costanza nel suo lavoro, a Parigi accadeva quel che era fatale dovesse prima o poi accadere: nel 1900 il Museo Statale di Berlino comprava un suo quadro e nel 1904 gli organizzatori del Salon d’Automne, suscitando vastissima eco, gli riservavano un’intera sala. Simile, troppo ritardato successo l’aveva però lasciato alquanto indifferente e, in cuor suo, assai più l’allietavano i numerosi giovani pittori che riconoscendo in lui il loro maestro accettavano di venire sino ad Aix per vederlo ed incontrarlo; con alcuni ingaggiò anche una regolare corrispondenza, nonostante il depositario unico e fedele delle ansie e delle gioie degli ultimi suoi anni risultasse il figlio Paul; a lui s’abbandonava («Tu est mon orient» aveva scritto una volta), a lui confidava i segreti di un’anima contesa dal sottile, implacabile tormento di talune ossessioni e gli scoramenti provocati dai continui sbalzi d’umore: non sopportava, ad esempio, d’essere toccato e se chi lo conosceva si guardava bene anche solo dallo sfiorarlo, chi invece lo incontrava per la prima volta incorreva, talvolta, in spiacevoli quanto del tutto imprevedibili disavventure; alle quali poi Cézanne stesso poneva immediato rimedio tornando agli sconcertati amici, poco dopo, per farsi perdonare.
Lui per primo infatti misurava la precarietà e la fragilità del proprio carattere: così a chi, approfittando dei suoi momenti migliori, gli chiedeva qualcosa al proposito, rispondeva divertito che per gente debole come lui, e indicava intanto lì, sul suo tavolo, una copia del quotidiano cattolico La Croix, “non restava che appoggiarsi a Roma; dove si deve notare come, al di là del gioco, Cézanne neanche venisse sfiorato dall’idea di caricare di significati il proprio malessere psicologico né, tanto meno, d’accentuarne i toni per intenti o pretesti creativi; e come, piuttosto, gli riuscisse assai più naturale spiegare quegli stessi malesseri dentro la più normale e scontata quotidianità.
Non appena invece si ritrovava con dei pennelli in mano e una tela davanti, sopravveniva a sorreggere, tanto il suo carattere quanto il suo fisico minato da una grave forma di diabete, un’indomabile energia; lo sorreggeva nelle lunghe, faticose ore di lavoro quando, scavando e sprofondando, dentro i modelli finiva col ripercorrere l’intera loro verità fisica e spirituale.
Quell’energia non gli sarebbe neppure .venuta meno quel 15 ottobre del 1906: nonostante infatti il giorno prima, colpito da una sincope mentre dipingeva in aperta campagna, avesse dovuto restare per qualche ora incosciente sotto lo scrosciare d’un violento temporale; nonostante, per tornare a casa, avesse dovuto attendere che un contadino, accortosi di lui, provvedesse a caricarlo su d’un carretto da lavandaia; nonostante tutto questo, la mattina di quel 15 ottobre a nessuno riuscì di trattenerlo nel letto e d’impedirgli di tornare sotto il tiglio di Lauves a lavorare sul ritratto del giardiniere Vallier. Proprio qui doveva coglierlo così il coma che in pochi giorni lo conduceva implacabilmente alla morte.
La sua opera
«Ma méthode e’est d’aimer le travail»
A molteplici sollecitazioni, talora anche letterarie, si dispongono le prime esperienze pittoriche di Cézanne, tanto nel loro facile e immediato recepire temi e motivi di indole metologica, panica o idilliaca, quanto in quel sovraccaricarsi di influenze, stilistiche e di gusto, non sempre facilmente individuabili. L’ambiente provinciale, ancora saturo di echi e di atteggiamenti romantici e cioè di un’integra, seppur volgarizzata, venerazione per Delacroix, non poteva infatti offrire al giovane pittore provenzale più precisi e riconoscibili riferimenti.
Lecito pensare, per questi tortuosi inizi, a una personalità artistica, sensibile, anzi, esageratamente ricettiva ma condannata all’impossibilità di pervenire ad una sintesi significativa e originale. Se qualcosa di unitario è dato scorgere nelle prime opere risulta proprio quel persistente interesse per le figure prese all’aperto, immerse cioè nella natura; figure che di volta in volta potevano essere quelle di ninfe e di satiri, degli amici Marion e Valabrègue a passeggio, di bagnanti o di conversanti sull’erba; talora invece era la scena lugubre di un assassinio nel mezzo di una campagna cupa, o il racconto delle tentazioni di Sant’Antonio nel folto di un boschetto a prender posto sulla tela.
I ritratti del primo decennio (1860-70) non stabiliscono una più ordinata traiettoria: acuti nel cogliere, come anche nell’inseguire in un trasporto, ogni sottile movenza del sentimento che la ricercatezza della posa potesse suggerire, egli sceglieva per l’occasione amici il cui carattere e il cui abituale stato d’animo, già a lui in qualche modo noti, si prestassero allo scopo. Uno di questi è Boyer, l’Uomo dal cappello di paglia.
Non si può mancare d’intravvedere, pur nel differenziarsi degli spunti, il timido prevalere di una certa inclinazione nella ricerca, a volte oscura, di questi anni; quasi l’insinuarsi della crescente esigenza di verificare nell’impegno con una realtà oggettiva la nativa predisposizione alla pittura, quasi il desiderio di varcare il muro delle suggestioni di cui tanto velocemente la sua pittura s’era intrisa. I paesaggi dipinti negli anni immediatamente seguenti al 1860, nei quali trapela la nitida influenza di Corot, altro non sembrano che un genere accanto agli altri, innumerevoli, già sperimentati; tuttavia più visibilmente in essi affiora e si compone un’iniziale e semplice esperienza della natura.
Non secondario, al riguardo, è il contatto con il cosiddetto «barocco provenzale», una tendenza, quasi una scuola, portata avanti dai pittori locali Loubon e Monticelli e segnata da una naturale vena naturalistica; la quale era a sua volta maturata in un rapporto istintivo con la pienezza e l’esuberanza del paesaggio meridionale e, fattasi densa di un gusto insolito per i forti contrasti di colore, s’era impregnata di un clima fantastico e talora quasi fiabesco. Ad essi Cézanne si accosta spontaneamente, tanto per una sua affinità di temperamento e di sensibilità, quanto perché il problema della natura e del rapporto con essa iniziava così a catalizzare le sue aspirazioni.
Nei paesaggi degli anni intorno al ’70 si avvertiva il tentativo di penetrare, in forza di una soggettiva irruenza, nel movimento segreto della natura, per afferrarne un più profondo contatto: radure, alberi, rocce e scorci del bosco al Jas de Bouffan sono i motivi ricorrenti, resi a macchie contrapposte di colore intenso e corposo, come per conformare il proprio gesto al rilievo della natura o per trattenerne tutta la fisicità e in questa poi presagire l’origine e la compostezza di ogni forma.
Non è ancora una totale esperienza della natura, ma piuttosto il sorgere e il dilagare di un’emozione sincera provata nel contatto con essa. A scioglierlo dal laccio di un atteggiamento ancora incluso, in fondo, nell’orizzonte romantico e ad introdurlo in una più approfondita e stimolante vicenda personale sarebbe insorto, clamorosamente e in breve tempo, il fenomeno impressionista.
Già nel 1866 in una lettera a Zola egli aveva espresso entusiasticamente la scoperta dell’impareggiabile bellezza dei quadri eseguiti all’aperto rispetto a quelli realizzati in studio e aveva così proclamato la sua decisione di dipingere da quel momento esclusivamente dal vero; ma la pittura «en plein air» di Monet e amici portava con sé, oltre all’assoluta libertà e immediatezza della visione, affidata alla pura impressione visiva, l’abbandono di ogni rigore che in qualche modo precedesse e violasse il costituirsi spontaneo del rapporto con la realtà.
A Auvers come a Pontoise, dal ’72 al ’74, Cézanne lavora a fianco di Pissarro e inizia, in questa luce, una costante verifica sulla natura della propria emozione; meglio sarebbe dire una verifica di quelle sensazioni di colore attraverso cui la visione poteva essere colta e configurata; qui infatti egli inizia ad accorgersi che è la natura stessa, nella sua più profonda verità, a offrire e a rivelare, proprio attraverso il fenomeno della visione, l’intima e inesplorata sua compaginazione. Per Cézanne la sensazione implica tutte le capacità sensitive, comprese quelle del cuore. «Ce n’est qu’un oeil» sarà il suo giudizio, espresso molti anni più tardi su Monet (nonostante aggiungesse poi «… mais quel oeil!») a riprova di una presa di distanza presente sin da questo momento rispetto all’impressionismo.
A tale posizione doveva contribuire non poco l’insegnamento raccolto nelle visite abituali e appassionate al Louvre, nelle quali Cézanne rimaneva appunto affascinato dalla capacità irrudicibile della pittura di perseguire e di rendere visibile, al di là della natura che ognuno può avere sotto gli occhi, quel fattore ineffabile che invece la sottende.
Abituato ad ammirare il paesaggio della sua terra, a immergersi in esso e ad amarne inesorabilmente, pur nella grande varietà delle vedute, l’immutabilità, Cézanne non rinuncia ad un’integrale esperienza della realtà, non si abbandona alla fragilità di un’impressione contingente, come il riverbero del sole fugacemente catturato o il riflesso sull’acqua che s’è appena composto e già si dilegua.
Egli coglie piuttosto le sensazioni di colore in una rocciosità quasi arida di materia, come per non smarrire, nel gioco della visione, la totale profondità della natura. La Maison du pendii, del ’72, risulta l’esempio più significativo di questa maturazione; con lei tuttavia anche i paesaggi alla Estaque e le frequenti vedute al Jas de Bouffan, oltre ai dipinti di Auvers, ne segnano i passi.
Ognuno sa come una delle armi cui la critica più di consueto ricorre risulti quella dell’enucleare, entro la parabola di un artista, alcuni momenti o, per dirla con termine più ricorrente, alcuni periodi; ora con Cézanne simile individuazione non può che poggiarsi su apporti e constatazioni del tutto esteriori e non è giustificabile altrimenti che come necessità di catalogaziene.
La sua opera, infatti, anziché procedere per mutamenti improvvisi o per imprevedibili colpi d’ala, avanza per progressiva, caparbia organizzazione d’un impulso già ben riconoscibile negli scoordinati e talora contorti esiti dei primi anni. Così ragioni biografiche assai più che ragioni espressive spiegano presunte svolte di frequente intravviste dalla critica dentro il cammino cézanniano: non fa eccezione naturalmente quella che molti sostengono essersi verificata dopo il 1877, quando, per le amare e desolanti accoglienze ricevute alla terza esposizione degli impressionisti, spinto altresì dall’inasprirsi dei rapporti con il padre, Cézanne s’era deciso a lasciar Parigi e a rifugiarsi ad Aix per tre anni.
In verità interpretare quella decisione come una volontà di togliere gli ormeggi dal porto impressionista risulta abusivo: Cézanne con i maestri del 1874 aveva sempre avuto ben poco da spartire e quel poco che da loro aveva appreso se lo sarebbe portato dentro, nonostante tutto, ancora per quasi dieci anni.
Certo dell’abissale distanza che lo separava da loro s’era fatto, di per sé, sufficiente consapevolezza; mai infatti s’era trovato a spartire la casualità con cui l’occhio impressionista abitualmente si posava sugli oggetti, tanto meno ora che dentro di sé sentiva maturare la coscienza del «motif», del motivo cioè su cui la sua pittura poteva affinare senza sosta, quasi come per una moderna e rivoluzionata accademia, la propria capacità d’affondare dentro le cose e di percepire la verità.
Insomma, di contro a quanto andava accadendo a tutta la pittura europea, Cézanne sceglieva di privarsi di una libertà, quella per cui, di lì a poco, il campo del rappresentabile avrebbe abbattuto ogni previsto e legittimo confine, per acquisirne invece un’altra, di libertà, meno vistosa ma ben più vera e sofferta, che gli permettesse appunto di scovare e di muoversi nel profondo della vita.
Degli impressionisti anche la fragilità doveva poi ossessionarlo: sentiva i loro quadri traballare proprio per avere voluto erigersi su semplici sensazioni ottiche senza aver tenuto presente quel «souci classique», quel retaggio classico che ognuno di loro si portava dentro e a cui, volenti o nolenti, si avrebbe dovuto rendere conto.
Ma se s’intendesse misurare in tutto e per tutto la distanza che si poneva tra Cézanne e il gruppo del ’74 bisogna spendere due parole anche sul come, lui e loro, s’eran trovati a mettere le rispettive mani sulla natura; perché, contrariamente a quanto talune interferenze biografiche potrebbero lasciar supporre, punto di riferimento unico ed esclusivo al proposito risultava, per il maestro di Aix, il gran padre Courbet.
Se qualcuno ne dubitasse, se a qualcuno cioè non bastasse un quadro quale la Maison du Pendu per capire come una così certa impostazione naturalistica non potesse derivare a Cézanne dall’effimero colpo d’occhio impressionista, ma presupponesse un ben più saldo precedente, ebbene a costui consiglieremmo di attendere, per fugare ogni residua incertezza, le seguenti parole del maestro provenzale; parole che, come ognuno potrà ben constatare, risultano non soltanto straripare di passione e venerazione, ma anchesì reggersi su d’una ineccepibile lucidità critica: «Courbet è l’odore delle foglie fradicie e quello del muschio cresciuto sulle pietre del sottobosco, lo scrosciare delle piogge, l’ombra delle macchie e l’avanzare del sole tra le fronde degli alberi; Courbet è l’irrompere della natura dentro la pittura del diciannovesimo secolo».
Certo anche Courbet, al pari degli impressionisti, aveva chiuso un occhio su quel «souci classique» di cui s’era innanzi parlato; tuttavia, tanto terrestre e potente risultava il suo sentimento della natura che i suoi quadri, in quanto appunto a solidità, non avevano assolutamente nulla da recriminare.
Resta comunque il fatto che proprio di fronte alla comune, seppur diversificata incompletezza di chi l’aveva preceduto come, soprattutto, di fronte a quella di chi gli camminava al fianco si aveva la misura della grande coscienza morale di Cézanne; lui solo, trovandosi davanti a una tela, si poneva la necessità, che si traduceva immediatamente in fatica e in infinita pazienza, di tener dentro e di abbracciare ogni volta tutto: la parzialità lo esasperava come lo esasperava, del resto, la miseria di una cultura sempre più esclusivamente attenta e disponibile agli estri sentimentali, psicologici ed emotivi del singolo.
Non comprendeva poi quale senso quella medesima cultura potesse ancora vantare, visto come aveva ormai abdicato al suo dovere e alla sua funzione d’erigersi a centro e a punto di riferimento della vita di tutti; ben per questo lui stesso si sforzava con generosità, che risultava nel medesimo tempo biblica e commovente, di restar fedele a tale mancato dovere e a tale destituita funzione.
La pittura insomma col passare degli anni sempre più assumeva per Cézanne l’ampiezza e la portata d’un atto morale: come tale non pioveva certo su di lui come una grazia del cielo, né, tanto meno, si rapprendeva su illuminazioni improvvise e fulminanti; avanzava bensì, e si erigeva, a passi lenti e faticosi, conseguiti a furia di continui tentativi, di ripetute prove, d’insistiti assaggi. Per farsene un’idea bisogna ripercorrere quella lunga serie di «Bagnanti» che proprio in quanto prevedevano delle figure immerse in un paesaggio costituivano, per ogni pittore e ancor più per Cézanne, uno dei più completi banchi di prova.
Su quelle tele la coscienza costruttiva tentava di arginare, ogni volta, l’erompere del sentimento naturale; l’inquietudine invece, che faceva per altro vibrare quelle figure sin quasi ad avvolgerle in vampate di fiamma, veniva a sua volta a ricomporsi in un più totale e panico respiro; «le souci classique», insomma, si tendeva e dilatava sino ad accogliere ed abbracciare in sé il palpito e il fragore della vita; e la mai risolta irrequietezza dello spirito accettava, se non di placarsi, almeno di stemperarsi dentro il vastissimo ansimare della natura.
Man mano poi che gli anni passavano, l’abbandonava la certezza o la presunzione di poter di volta in volta porre un sigillo, si trattasse pur di quello della firma, ai propri quadri: di volta in volta lo sforzo anziché concludersi e risolversi in equilibrio finalmente conseguito, domandava altra fatica, altri tentativi. I «motifs» costituivano così gli appoggi, gli insostituibili sostegni del suo cammino: nel 1883 aveva scoperto il blu folgorante del golfo di Marsiglia visto dalla Estaque; nel 1885 era stata invece la volta di Gardanne, un borgo arroccato su d’una collina non distante da Aix; per la verità questo medesimo anno doveva restare nella cronistoria cézanniana per un’altra, fondamentale rivelazione, quella della montagna Sainte-Victoire.
Si ergeva, la Sainte-Victoire, alle spalle di Aix e si ergeva con quella sapienza e giustezza che è propria di tutti gli eventi che sfuggano alla logica della storia e della ragione; con tale sovrana eleganza poi si protendeva a tacito, fedele custode della cittadina provenzale da farci ragionevolmente supporre che Cézanne l’avesse fin lì schivata proprio per un di più di timore e di riverenza.
Decidendosi dunque a dipingerla, lui stesso s’apprestava ad accostarla con una cura ed un amore del tutto particolari: riconosceva in lei, ancor più che la custode, l’anima stessa di Aix, lo spirito che vegliava vigile, dall’alto della sua mole, sui tetti, le strade, le piazze, i campi lì circostanti; voleva saperne senz’altro di più, voleva conoscerla meglio questa montagna che Dio, che solo e soltanto Dio poteva aver voluto con quella sagoma e in quella posizione; così, secondo quanto s’è già detto in sede biografica, spesso, le domeniche di primavera, si recava sul posto col geologo Marion per farsi spiegare la morfologia e la natura delle rocce che la costituivano: non s’accontentava, infatti, di ammirarne quelle forme e quell’eleganza che ne facevano quasi un Olimpo della Provenza, voleva scavarla, immergervi le mani quasi avesse avuto il presagio che lì dentro, nelle sue profondità, battesse un cuore, magari il cuore stesso della sua terra o fors’anche di tutto e intero il mondo.
Diremo anzi che col sopraggiungere dell’estrema stagione della sua vita quel presagio sembrava, di poco in poco, farsi miracolosa certezza; e come per una sinfonia che crescendo nota per nota e suono per suono si fosse arrampicata verso le massime intensità drammatiche ed espressive, così la Sainte-Victoire s’andava caricando d’insolite, grevi ombre e le sue pendici grondavano di macchie verdi e sempre più scure e cupe.
S’avviava insomma a smarrire la sua medesima forma, quasi un vulcano che invece di deflagrare in una devastazione di fuoco e di lava, si disfacesse nell’attimo d’emanare, impastata di terra e di luce, l’anima stessa del mondo, il suo respiro, il suo primo battito, il suo più arcano sussulto.
Da quel 1885 Cézanne si sarebbe trovato una trentina di volte, volendo tenere esclusivo conto degli oli, a dipingere la Sainte-Victoire: ciò non toglie che quella sua suprema capacità d’entrare nella verità delle cose e della vita la riversasse poi su altri «motifs» e che, anzi, tutti i quadri dipinti in quell’ultimo decennio, decennio celebrato giusto un anno fa da una memorabile esposizione parigina, ne risentisse in maniera eccezionale.
Così anche le nature morte, e ne sia esempio quella con «Cipolle e bottiglia», che si riproduce in queste pagine, sembrano disporsi, anziché alla tensione astrattiva di un genio, alla fatica e allo sforzo di chi, dal di dentro, voleva ricondurre la presenza e la realtà di ognuno di quegli oggetti alla necessità di un principio (tra l’altro doveva avvertire in questa sua « operazione» l’eco lontana d’una qualche liturgia; liturgia i cui fasti, quei grandi tendaggi o «paramenti» che talora sovrastano le sue Nature morte, vorrebbero appunto ancora rievocare).
Sembrava dirci Cézanne che, per riconoscere l’impronta di quel principio dentro la vita, non occorrevano folgorazioni o estasi, bastava guardare una mela; purché naturalmente sul cammino di quel principio non si erigessero le rovinose barricate d’altre effimere e sacrileghe certezze; purché, insomma, lo si lasciasse fluire, quel principio, come, dentro le proprie fibre, lo lasciavano fluire, ad esempio, quei vecchi di cui Cézanne aveva una volta detto: «amo più di ogni cosa al mondo l’aspetto delle persone invecchiate senza far violenza alle abitudini, lasciandosi andare alle leggi del tempo».
Non per un caso quindi proprio sul ritratto d’un vecchio, sul ritratto cioè del giardiniere Vallier, Cézanne doveva toccare l’apice, la punta più alta della sua attività; né, tanto meno, per un caso su d’un altro successivo ritratto di quel medesimo giardiniere doveva addirittura chiudere la propria permanenza terrena.
Così, come per una maturazione avvenuta proprio alle soglie della morte, l’inquetudine cézanniana andava finalmente a placarsi: il suo innato istinto alla costruzione finalmente s’era, in tutto e per tutto, appoggiato alle strutture stesse della terra e della vita; ora quell’istinto non domandava più di piegar le apparenze a qualche semplificazione o approssimazione geometrica, ora esigeva il rispetto totale della realtà e delle sue forme.
Che tornassero quindi pure le ombre a coprire il volto, che tornassero i solchi delle rughe a segnare i dolori e le fatiche d’una vita, che tornasse la carne a impastarsi con la terra, che tornasse la luce a immergersi nel più segreto pulsare della vita; che tornasse pure tutto questo perché tra le sue bibliche seppur ormai tremanti mani un vecchio di Aix aveva ritrovato, con la coscienza della verità, un bandolo del filo che univa e unisce ogni cosa al Principio.
La sua eredità
«Une tradition pourra.it repartir de moi».
Confessandosi un giorno nei modi che gli erano consueti, spalancando cioè senza remissione il proprio cuore, al suo amico e concittadino Joaquim Gasquet, Cézanne ebbe una volta a rivelare che, tra i sogni e i progetti più cari, teneva in serbo quello di poter un giorno ricondurre la pittura all’antica saldezza di una tradizione.
Non lo interessava una semplice scuola, pur se fondata sul suo moralissimo prestigio, poiché ambiva a lasciar dietro di sé non tanto una schiera di allievi imbevuti come spugne alla fonte del suo insegnamento, bensì un manipolo di ferratissimi artigiani che s’apprestassero a innalzare le cattedrali del suo tempo: «il punto fermo ritrovato»: ecco cosa voleva diventasse per il mondo la sua pittura; la quercia cioè nel mezzo della pianura caotica e desolata, la guglia svettante sopra i superstiti muri e le macerie.
Perché ciò potesse verificarsi s’era già disposto a concedere la propria persona al limbo della storia, ad abbandonarla, quasi fosse quella d’un «artijex» d’altri, oscuri tempi, all’oblio dell’anonimato; la certezza gli bastava che la sua coscienza potesse trovare sulla terra altre anime cui abbracciarsi, altri occhi e altre mani disposte a lasciarsi guidare da lei.
Non se ne contarono molti, tra i pittori e le intelligenze di quei giorni, pronti a giurar fede a simile solenne progetto; tutti preferivano anziché porsi al riparo di quella biblica quercia, continuare a trastullarsi con le rovine, le nostalgie, talvolta persine con le sconcezze che il progresso aveva disseminato per le lande circostanti.
Non che dalle loro bocche stentassero ad uscire parole di scoperto, incondizionato consenso per il maestro di Aix, ma a quelle parole mai faceva seguito pari realtà; tutti presumevano d’averlo dalla loro parte, pochi pochissimi avevano in verità le carte in regola. Così, di passo in passo, la vicenda che della eredità cézanniana in questo conclusivo capitolo dovevamo ripercorrere assumeva, invece, il taglio di resoconto di tutti gli equivoci, che sulla indiscussa autorità di Cézanne s’erano col tempo inventati e costruiti.
Del resto, tanto per cominciare, non altrimenti che considerandolo appunto un equivoco possiamo oggi spiegarci la devozione e la riverenza che avevano condotto due pittori come Emile Bernard e Maurice Denis, pittori cresciuti all’esangue simbolismo di Gauguin, a seguir da vicino le ultime e penultime vicende del grande provenzale; il quale oltretutto, in un fitto epistolario, s’ostinava a mettere nella testa del primo alcune basilari idee riguardo alla natura come primo e supremo punto di riferimento per un pittore, ma s’ostinava del tutto invano; tanto che le rituali riserve per una pittura, quella appunto di stampo gaugeniano, che a suo avviso non aveva né carne né sangue e quindi, come tale, neanche sussisteva, ebbene quelle medesime riserve dovevano ben presto venire estese alla persona stessa del suo ammiratore, cioè a Emile Bernard.
Simile episodio avrebbe potuto apparire del tutto marginale se, sin d’allora, non si fosse stabilito a sintomo, a paradigma d’una china su cui tutta la pittura europea stava scivolando; serpeggiava infatti per l’Europa un malumore i cui principali se non unici imputati risultavano gli impressionisti: se ne avversava talvolta la tranquillità con cui avevano destituito ogni problema d’ordine mentale e stilistico, si respingeva, altrove, la loro calma coscienza borghese; sempre e dovunque si deprecava il libero, disinvolto fluire del loro naturalismo.
La Francia stessa, che pur di lì a non molto, avrebbe reputato i maestri della famosa esposizione del 1874 al pari di glorie nazionali, presa tra la dolorosa epopea di Van Gogh e l’anemico esotismo di Gauguin, s’era trovata a dover subito spostare i propri tiri; morto poi nel ’90 l’uno ed attraccato nel ’95 a nuovi più confacenti lidi il secondo, anziché trovar l’energia necessaria per rivolgere i propri passi verso la grande strada tracciata dal maestro di Aix, le era riuscito più facile lasciarsi cullare dai dolci, intimi interni di Bonnard e di Matisse.
Soprattutto il gusto impareggiabile di quest’ultimo le aveva tagliato le gambe e un suo quadro dipinto, quasi a volerci ricordare che di un equivoco stiamo appunto tracciando la storia, proprio all’Estaque, cioè in piena terra cézanniana, nel 1905, si stabiliva a programma di una breve esperienza, nella quale sarebbero rimaste invischiate tutte le più fresche energie della nazione: il fauvisme. Per altro niente più del titolo che proprio a quel quadro era stato apposto, Luxe, calme, volupté, può dire, anzi quasi gridare, del clima della Francia di quegli anni.
Fuori di lì le cose non marciavano molto diversamente: in Germania, ad esempio, reggeva con maggior vigore il ricordo di Van Gogh su cui s’era riversato l’angoscioso, esasperato rovello di Munch; l’ambigua miscela, precipitando, aveva dato vita al corrosivo acido espressionista, al contraltare cioè, in terra tedesca, dell’esperienza fauve.
Col che il terreno su cui Cézanne avrebbe voluto impiantare il suo impressionismo consolidato in tradizione s’era completamente smangiato: non trovava spazio e consenso alcuno la sostanza stessa dell’impressionismo e, per quanto riguardava la tradizione, non c’era entità meno consona ad un’arte che ormai sempre più si concedeva agli asfittici registri emozionali e espressivi del presente: quale sorte il futuro poteva infatti mai riservare al fiotto di luce gialla che s’era precariamente impregnato nelle tende, nelle tovaglie, nelle teiere o tra i capelli delle modelle di Bonnard? E a chi mai riusciva di riconoscere le stigmate d’un qualsiasi passato sotto lo scalpitìo nevrotico d’un quadro espressionista?
Ogni privilegio ed ogni energia erano state insomma riservate alle totalitarie esigenze del presente e nel presente s’esaurivano: così, sia che s’agisse per stimoli sentimentali, sia che ci si lasciasse travolgere da moventi psichici s’allentavano comunque i legami con la biblica ponderatezza di Cézanne.
Erano quelli i giorni in cui la vita del maestro di Aix volgeva al proprio prescritto termine, in cui, cioè, l’arte europea, sollevata dalla sua imponente presenza, poteva ancor più andar tronfia d’una sua illusione di libertà: ora infatti le era quotidianamente permesso di calpestare i germi del futuro e di disperdere con uguale dissennatezza le linfe della tradizione e del passato; nel contempo, strozzata, qua e là, da soprassalti d’angoscia, cominciava la vana e tuttora inconclusa ricerca del proprio senso e delle proprie smarrite ragioni.
Eppure allorché nell’autunno del 1907 il Salon e la galleria Bernheim Jeune mettevano in piedi due grandi retrospettive rispettivamente dei suoi quadri e dei suoi acquarelli, un coro unanime aveva percorso Parigi a sancire la sua grandezza e il suo genio; bastò però che sul Mereure de France Bernard pubblicasse, poco dopo, tra le altre lettere recapitategli da Aix, quella in data 15 aprile 1904, perché si comprendesse di quale autentica pasta fossero quei commenti.
Parlava casualmente Cézanne tra quelle righe di una struttura geometrica cui sarebbe stata riconducibile l’intera natura; ne parlava in quanto pretendeva di guarire dal generico misticismo il suo giovane ammiratore e di guarirlo senza naturalmente schifare il ricorso ad espressioni troppo chiare e quindi un tantino semplicistiche.
Avendo però badato in pochi a tale circostanza, l’attenzione generale finì con l’appuntarsi su quella frase più che sugli stessi quadri; in tal modo mancava soltanto che Picasso, in quello stesso ottobre, cominciasse a mostrare, ad amici e non, le sue famose Demoiselles d’Avignon perché agli occhi di tutti si squadernasse, con malaugurata chiarezza, la traiettoria che da quella lettera cézanniana proseguiva appunto sino all’atto di fondazione del cubismo.
Ma da quale ciclo pioveva mai questo Picasso? L’averne taciuto sino ad ora non deve lasciar credere che la sua carriera non avesse già preso avvio da qualche anno, perché alle prime luci del secolo Picasso s’era fatto avanti ed aveva, tra l’altro, imboccato con decisione strade del tutto nuove e personali; sorretto già d’allora dalla sua rumorosa e devastante intelligenza, primo tra tutti aveva posato con una certa coerenza il suo sguardo su Cézanne, saccheggiandolo, tra l’altro, di quei «Ragazzi al bagno» che il maestro di Aix aveva dipinto verso il 1885; su quegli spunti, che talora intrideva abilmente di un appiccicoso sentimentalismo di lontano sapore spagnolo, aveva dato poi vita a quel periodo dalla critica in seguito tempestivamente definito «blu e rosa».
Non altrimenti accadeva per le Demoiselles, inventate palesemente da Picasso sulle immagini dei numerosi, sofferti progetti delle bagnanti cézanniane; con la differenza però che il gioco s’era fatto nel frattempo più scoperto e non può nasconderci oggi, al fuoco dell’impietosa lente di settantanni di storia i suoi scandalosi meccanismi.
Nulla difatti restava dell’inquietudine mai risolta di Cézanne, nulla del suo lento, faticoso procedere; nulla infine della sua stessa incertezza, delle sue esitazioni, dei suoi continui ripensamenti; tutto in quel quadro risultava al contrario chiarito, decifrato, sillabato: l’anima medesima dell’uomo stava lì, presuntuosamente smontata, una luce divoratrice ne visitava ogni più segreta piega: non più il soffio d’un mistero la pervadeva, non più ombra alcuna l’avvolgeva e la fasciava.
Resti così pure deluso chi, sapendo dell’origine spagnola di Picasso, si poneva nella sacrosanta attesa di vedere che almeno quanto di ardentemente irrequieto Cézanne stesso aveva tratto da uno dei più grandi spiriti di quella nazione, da El Greco, passasse, pur voltato in gioco, nella Demoiselles; resti pure deluso perché, comunque, Picasso, travolto com’era da una sconcertante e sconsiderata attenzione, non avrebbe potuto concedersi a simili esitazioni, trovandosi a dover piuttosto macinare vita ed esperienze senza sosta, a dover cioè imporre a sé e, soprattutto al mondo, un ritmo cieco e frastornante. Solo imbastendolo col seguito incessante delle sue invenzioni, solo riuscendo a trasformarlo nella colossale platea di un mai terminato circo quel mondo gli sarebbe restato ai piedi.
Nessuno, penso, meglio del grande mercante parigino Ambroise Vollard che, in un lasso di tempo di 10 anni, era passato sotto i pennelli tanto di Cézanne come di Picasso potrebbe a questo punto darci misura di quanto il secondo si fosse allontanato dalla strada tracciata dal primo.
Lui, Vollard, nel ’99, appoggiato al più provvisorio e malcerto dei trespoli, lungo centoquindici leggendarie sedute aveva seguito il crescere lento e faticoso della propria immagine sulla tela del maestro di Aix; aveva visto Cézanne ora scavare con gli occhi e con le mani, ora generosamente sbilanciarsi per inseguire ogni sussulto della prona sensibilità, ora ansiosamente cercare, tra improvvisi sbalzi di umore, la formula di un cemento divino che stando al fondo di quella come d’ogni altra forma, poteva lui solo garantire fisica, perenne solidità al futuro capolavoro.
Intanto, per conseguenza di quell’interminabile depositarsi di strati sopra altri strati di materia, l’immagine si ergeva sotto i suoi occhi, acquisiva insospettata solidità, guadagnava di passo in passo in fermezza; al trespolo si conferiva la stabilità di una cattedra e lui, il mercante parigino, assumeva infine le sembianze di un profeta che, lì, sulla cattedra, come nel luogo designato, si fosse insediato.
Dieci anni più tardi, ad attenderlo dietro un altro cavalletto parigino, Vollard avrebbe invece trovato Picasso; il quale, anziché armarsi come ognuno si sarebbe aspettato di pennelli e spatole, sembrava aver impugnato una punta di diamante di cui servirsi per sminuzzare, triturare e quindi ingordamente dominare ogni forma.
Durante la stesura di quel ritratto mai il lampo di una incertezza l’aveva attraversato, un dubbio mai s’era insinuato nel suo disegno, mai s’era impastato con i suoi colori; presunte certezze spianandosi di continuo al fianco d’altre presunte certezze soffocavano ogni possibilità che dietro le apparenze trasparisse qualcosa di non preventivato.
Col tempo, poi, la sicurezza montava in protervia, la protervia in ingordigia e ad ogni suggestione formale si metteva in movimento l’insaziabile meccanismo della sua intelligenza. Così, di lì, a quasi trent’anni, quando, con Guernica, non gli riuscirà più di fermarsi neanche davanti alla tragedia di un popolo e il dolore, irriso, verrà ridotto a smorfia e il dramma verrà banalizzato nella facile genialità di un fumetto, allora Cézanne sarà, questa volta sì, irremediabilmente lontano. Allora l’equivoco che sempre c’eravamo limitati a definire formale assurgerà, in tutto e per tutto, alle gravissime proporzioni d’un equivoco d’ordine appunto morale.
Si sarà inteso come l’esperienza picassiana non fosse certo tale da contenersi nell’avventura del suo protagonista, come anzi il dover ad ogni costo imporsi all’esperienza e alla cultura altrui, il dover fare cioè di se il centro unico ed esclusivo risultasse ragione e condizione medesima della sua esistenza. In tal modo il «picassismo» dilagava ovunque e pur sconfinando di frequente nel fatto di moda o di costume, finiva poi, quasi sempre, per stritolare con la sua esuberanza qualsiasi ipotesi che, dentro la vicenda della pittura, tendesse a divergere; che se poi qualcuno riusciva a sfuggire alla sua presa, questi, quasi regolarmente, s’impaludava negli astratti sofismi delle avanguardie.
In verità qualche eccezione, qualche voce cioè che, avendo spaccato la crosta di quel conformismo, ancora poteva affondare le proprie radici in terre ben più feconde e umane resisteva; l’onda potente di Cézanne, continuava insomma ad abbracciare chi, sentendo come ancora troppo, troppo urgente il peso della propria e dell’altrui carne, del proprio e dell’altrui dolore scansava, ripugnato, il gioco picassiano e si metteva in cerca d’altre fonti e d’altri maestri.
Scendeva giù da Cézanne, fluendo nelle profondità della terra, una corrente di verità che di tanto in tanto tornava a farsi largo, a palpitare e a premere dentro le vene e dentro la coscienza di alcuni. Di tale certezza vorremmo bene potesse, qui ed ora, farsi garante ciascuno, naturalmente aiutato da un adeguato supporto delle immagini; purtroppo l’evidente irrealizzabilità di questo e la scontata insensatezza d’un elenco di nomi scisso dalle rispettive realtà e ragioni, rendono quasi proibitivo l’intento.
Non che il progetto di seguire dentro la vicenda della pittura del nostro secolo il filo continuo, seppur segreto e silenzioso del cézannismo debba così risultare per sempre abbandonato, semplicemente si rimanda il lettore ad altra, più confacente occasione; solo per ora si sappia che, ogni qualvolta sul cammino dell’arte moderna torni a vibrare l’incontenibile luce dell’anima, ogni qualvolta quel cammino torni a sussultare nelle sue profondità per una dimenticata pressione religiosa, lì è il segno di Cézanne, lì il tacito costituirsi della sua tradizione.
Lui aveva sostenuto che gli bastava una mela per poter «significare» adeguatamente Dio e che, anzi, giunti dove s’era giunti, risultava assai più decisivo riconoscere l’impronta di Dio dentro un frammento della natura, dentro cioè qualsiasi «motif», piuttosto che, di Dio, riferire stancamente secondo i termini e le immagini dell’iconografia religiosa.
Il sacro come ineluttabilità: ecco quale gigantesco segno di sé Cézanne ha lasciato all’arte del nostro secolo; segno per il quale nulla è dato conoscere se non s’accetta dentro le cose, al loro fondo, il mistero del principio; e nulla è dato neppure conoscere se non si sono assunte le stigmate di chi, passo per passo, partendo da quel principio, ha depositato le forme della vita e della realtà dentro le nostre mani; se, insomma, tra quel principio e queste forme non s’è individuata e rispettata la grande, solenne impalcatura della tradizione.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Sulla vita:
Vollard, Paul Cézanne, Paris 1914
Gasquet, Paul Cézanne, Paris 1921
Bernard, Cézanne. Ricordi e lettere, Longanesi, Milano 1953
Morosini-E. Treccani, Lettere di Paul Cézanne, Bompiani, Milano 1945
Sull’opera:
L’opera completa di Cézanne, Rizzoli, Milano 1970
Venturi, Cézanne, son art, son oeuvre, Paris 1936