Strumenti culturali di Litterae Communionis n.8
I GRANDI DELLA CULTURA MODERNA RIVISITATI
«Oltre l’apparenza, io sono consapevole del compito affidato al mio personaggio dalla volontà totale. Sonio in una prospettiva, ogni minuto della mia vita»
Testo di Daniela Fabiani e Agostino Gentili
La sua vita
«Io non voglio morire, ma vivere»!
«Io non voglio morire, ma vivere»! Questa è la sfida che lancia il giovane Claudel alla società francese della fine dell’800, che aveva distrutto la coscienza umana seppellendola sotto la grande fede materialista nel progresso scientifico, capace di dare la spiegazione dell’universo, dell’uomo pensante e addirittura di Dio. E’ lo stesso grido che percorre in modo vibrante tutta la vita di Claudel e che dall’accorato appello iniziale diventa poi grido profondo di gioia.
Ma proprio questo grido, che molti hanno scambiato per fanatismo, ha reso il nostro autore un isolato nel suo tempo facendogli tributare una ben minima parte di quella gloria e di quell’ammirazione che i posteri hanno avuto e continuano ad avere per lui. Egli non si legò mai a scuole, gruppi, movimenti intellettuali ed artistici del suo tempo.
Partecipò al salotto di Mallarmé dove conobbe e si legò d’amicizia con personalità come Gide, Suarès, Verlaine, Villiers de l’Isle-Adam, Rivière; fu uno dei maestri che dettero vita alla Nouvelle Revue Française, ma nulla poteva legarlo alla mentalità e al modo di vivere di quegli uomini, eminenti rappresentanti di una società che si autodistruggeva. In un mondo sconvolto dalla crisi più profonda, che aveva rimesso in discussione tutto, distruggendo gli stessi valori ideali che permettono all’uomo di conservare la sua dignità umana, Claudel si erge come una strada sicura, come uno dei pochissimi uomini capaci di dare sicurezza e certezza.
La personalità di Claudel, solida e tutta protesa a portare a termine il compito di servire con la sua arte la Parola di Dio, si innalza nel suo tempo insicuro e in preda alle esaltazioni del momento provocando attorno a sé forti opposizioni e ben poche amicizie. Se Rivière, Jammes, Milhaud lo seguirono anche nella conversione a Dio perché colpiti dal grande valore che la sua vita e la sua opera esprimevano, altri, quali appunto Gide e in fondo molti dei «grandi» artisti del ‘900, ebbero nei suoi confronti un atteggiamento apertamente ostile, rifiutando in blocco la sua produzione letteraria.
Il suo carattere che non era certo facile, non si piegava ai compromessi e non ammetteva incertezze e sfumature. Là dove, ad esempio, l’ortodossia dei cattolici gli appariva imperfetta, egli troncava ogni rapporto, come è stato per Maritain. E’ certo comunque che egli stesso non ha contribuito a creare attorno a sé un clima di amicizia e di affetto, allontanando anzi quanti si mettevano in contrasto con le sue posizioni e convinzioni.
Paul Claudel nasce a Villeneuve-sur-Fère-en-Tarde-nois, il 6 agosto 1868, ultimo di quattro figli. Qui viene battezzato l’8 settembre e consacrato alla Vergine Maria, come egli stesso amerà ripetere più volte. A Villeneuve Claudel resta solo due anni, poiché il padre è costretto dalla sua professione (era conservatore delle ipoteche) a vari trasferimenti, finché nel 1882 si stabilisce a Parigi dove tuttavia la famiglia continuava a vivere disunita, ritrovandosi insieme soltanto la domenica. Durante le vacanze però Claudel ritorna al paese natale dove vive ancora il nonno materno cui il piccolo è molto legato e la cui agonia lunga e dolorosa colpirà in modo quasi traumatico il bambino tredicenne.
La lontananza, gli interessi diversi, le amicizie non faranno mai dimenticare a Claudel questo piccolo paese in cui egli ha avuto il primo contatto con il mondo e con l’universo intero.
Se Villenueve lo ha visto nascere, è tuttavia Parigi che vede plasmarsi la sua personalità. Gli anni dai quattordici ai venti, che trascorre nella capitale, sono quelli della traumatica crisi adolescenziale ed esistenziale, generata dalla domanda «Chi sono io?» che Claudel si pone di fronte alla società parigina. In questo periodo, abbandonate le pratiche religiose della infanzia, egli non ha alcun appoggio su cui contare. E’ un solitario introverso e nessuno, né della sua famiglia né tra i suoi amici, sospetterà mai la crisi profonda che attraversa.
Le sue letture sono scelte a caso, seguendo l’istinto personale: i romanzi di Hugo, di Zola, La vie de Jésus di Renan. Questi ultimi, in modo particolare, gli infondono una visione del mondo e della vita angosciosa e disperata che egli non comunica ad alcuno. Frequenta il liceo Louis-Le-Grand dove imperversa la moda del positivismo materialista di Taine e di Renan che in nulla placa la sua inquietudine interiore. L’ambiente del liceo lo sconvolge: «un positivismo materialista, piatto e grasso, spandeva il suo olio rancido sullo stagno dei pesci. Il piccolo gettato in acqua, nell’acqua sporca che lo accora, non osa, per il disgusto, chiedere aiuto (quale aiuto?), chiude la bocca e muore» (come lo descriveva R. Rolland).
La conversione
Ma Paul Claudel non vuol morire e a tutto ciò tenta di ribellarsi. La reazione immediata è il pessimismo e la rivolta: tutto gli diventa intollerabile, la morte e la vita, la solitudine e la compagnia, l’autorità e lo spirito critico. Comincia a cercare altrove risposte che sazino questa sua fame spirituale: simpatizza con il movimento anarchico del tempo e comincia a frequentare i «martedì letterari» di Mallarmé.
Nella sua lotta per la vita, mossa dal desiderio di cercare il senso e lo scopo di un’esistenza terrena, finalmente egli trova un primo punto fermo cui ancorarsi: nel giugno 1886 legge l’inizio del poema Les Illuminations di Arthur Rimbaud.
Claudel si è riconosciuto simile a Rimbaud, ambedue solitari, assetati di verità, profondamente attaccati alla stessa dura terra che è il mondo ma come attratti da qualcosa di sconosciuto, superiore e ben più importante dell’uomo in sé. Claudel ha imparato in questo modo a respirare, a dar voce e spessore alle sue domande interiori nella consapevolezza della vacuità dell’animo umano che fa di ogni persona un essere condannato all’insoddisfazione perpetua.
Una simile intuizione ha come esigenza primaria il bisogno di colmare il vuoto che esiste tra l’uomo e il soprannaturale, cioè l’incarnazione del soprannaturale, come dice Claudel stesso. E’ questo il punto di partenza fondamentale del cammino di Claudel stesso. E’ questo il punto di partenza fondamentale del cammino di Claudel verso la fede che troverà la sua seconda tappa nella conversione del Natale 1886: colpito dal canto del Magnificat mentre assiste alla funzione dei Vespri di Natale a Notre-Dame, egli avverte il sentimento vivo della presenza di Dio: In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti»
Solo ventisette anni dopo (nel 1913) Claudel si sente in grado di parlare e di raccontare questo momento capitale della sua vita; ma il tempo intercorso non ha tolto o aggiunto alcunché alla realtà di quell’avvenimento. In quell’istante luminoso Claudel ha percepito la sua vocazione, ciò a cui era chiamato, ciò che doveva dare alla sua vita il senso che le mancava. L’istante è stato come il seme gettato: resta tutta la terra umana da dissodare e quella di Claudel è integrata e dura.
Dice Armogathe che Claudel in quell’istante si è sentito chiamato alla scrittura: egli infatti comincia solo ora la sua attività letteraria che, proprio perché nata dalla certezza della presenza divina, non si disgiunge mai dal suo cammino di fede ma di questo diventa strumento di conoscenza e di espressione. Il primo abbozzo del dramma La giovane Violaine nasce proprio dalla antitesi tra terra e cielo, tra l’attaccamento profondo alla terra e a quanto essa dispensa e il desiderio insaziabile di far posto a Dio nella sua vita, teso a far sì che in ogni momento umano penetri e si dilati il soffio vitale di Colui che si è rivelato.
Intanto si prepara per lui l’ «esilio»; nell’aprile del 1893 è in America, a New York, nella sua prima esperienza consolare: la vita americana con i suoi conflitti sociali e la sua frenetica attività economica lo interessa e gli ispira la pièce (Lo Scambio), che incarna il conflitto tra spirituale e temporale. Ma si sta per aprire davanti a lui un «esilio» ben più importante che occuperà un lunghissimo periodo della sua vita: l’incontro con la Cina dove Claudel rimarrà a lungo come console di Francia; è lui stesso ad esigere tale esilio perché egli comincia a sentirsi dolorosamente estraneo al mondo che lascia dietro di sé.
Comincia a domandarsi se la sua vocazione non consista in una risposta più radicale al richiamo divino. Per il momento la risposta provvisoria è in questo devoir d’état, nel suo mestiere che esige per lui la conoscenza del nuovo mondo che è la Cina. Qui scrive la prima parte di Conoscenza dell’Est, la sua prima opera in prosa, celebrata dai contemporanei come il traguardo massimo mai raggiunto dalla lingua francese.
Ma pochi anni dopo rientra in Francia, sempre ossessionato da quella domanda sulla propria vocazione che nell’ode La Musa che è la Grazia mirabilmente prende corpo e si anima nella sua drammaticità. Finalmente, dopo un soggiorno nel monastero benedettino di Ligugé, egli trova la risposta divina che gli chiede di abbandonarsi totalmente a Dio non nell’isolamento di un convento ma nella concretezza del suo lavoro quotidiano. Riprende allora serenamente il mare per tornare nella sua Cina e sulla nave incontra una donna che suscita in lui una forte passione amorosa.
Tuttavia la donna è per lui, inaccessibile e Claudel vivrà dolorosamente questo dramma che sarà più tardi il tema di Destino a mezzogiorno. Nonostante la sofferenza di questa esperienza che renderà Claudel incapace di scrivere per un certo periodo, il suo soggiorno in Estremo Oriente (1895-1909) è estremamente fecondo. Nel 1903 scrive Conoscenza del Tempo il cui intento è di comprendere l’incontro degli esseri in un momento particolare della durata… Al di là dell’apparenza delle cose che capitano, io sono consapevole di questo compito affidato al mio personaggio dalla volontà totale. Io sono fatto in una prospettiva, ogni minuto della mia vita, seguendo il gioco della mia libertà, è calcolato da un contatto…
L’arte canta la gloria di Dio
Questo studio sarà seguito, l’anno successivo, dal Traité de la connaissance au monde et de soi-même e entrambi riuniti sotto il titolo di Art Poétique (Arte Poetica). L’Opera, che potremmo definire una vera e propria dottrina gnoseologica e metafisica spiega l’ulteriore passaggio avvenuto nel cammino di fede di Claudel. Attraverso il nuovo significato che egli dà alla parola conoscenza (connaissance = co-naissance), e cioè «nascita con», egli acquista la consapevolezza della solidarietà che lega l’uomo a tutto il creato in una trama di rapporti. L’amore divino gli si è già rivelato nell’armonia universale e a lui non resta altro che accoglierlo, abbandonarsi ad esso facendo sì che attraverso l’intelligenza e la volontà umane esso viva e si dispieghi in ogni angolo dell’esistenza. L’arte allora sarà la parola che crea, la parola che canta la gloria di Dio: l’artista sarà colui che ricrea, riconosce, riunisce.
E’ ciò che Claudel farà nelle Cinq Grandes Odes (1904-1908): in esse il poeta, consapevole che la sua parola co-nasce al mondo, ripercorre il suo cammino di fede dando libero sfogo al suo entusiasmo per la trovata comunione col mondo e con Dio. Con le odi è fissata la poetica claudeliana che resta comunque punto di partenza per ogni forma artistica toccata da Claudel: la vocazione propria del poeta è accogliere e restituire l’eterno.
Claudel ha ormai trovato la strada sicura su cui andare avanti. Gli ultimi anni vissuti in Cina sono caratterizzati da questa doppia certezza: la gioia che viene dalla certezza della vita, del lavoro, delle cose concrete e reali che ogni giorno si presentano e la gioia più grande che viene dalla certezza che non si può fare a meno di Dio e che da Lui a noi c’è un cammino tracciato e sicuro.
Nel 1909 lascia la Cina per andare a Praga: qui termina L’ Annonce faite à Marie che sarà rappresentato per la prima volta al Théâtre de l’Oeuvre di Parigi nel 1912, ricevendo un’accoglienza trionfale da un pubblico soprattutto di giovani.
Incoraggiato da questo successo Claudel si dedica con più ardore al teatro e compone pièces più costruite scenicamente come quelle che compongono la trilogia L’ Otage (L’ Otage 1911; Le Pain dur, 1918; Le Pére Humilié 1920). Ma il suo temperamento esplosivo si sente troppo costretto in un genere di teatro che molto concede all’artificio e alla convenzionalità; ne La scarpina di Raso (1919-1924) Claudel dà libero sfogo, in una scenografia limitata ai soli elementi essenziali, a tutte le peculiarità del suo genio.
Nel 1927 rientra per un lungo periodo di riposo in Francia stabilendosi nel suo castello di Brangues e qui compone la sua prima opera drammatica dopo tre anni di silenzio, Il libro di Cristoforo Colombo (1927), che fissa il metodo e la tematica di tutte le opere che seguiranno. Il mio compito non è rifare il mondo, ma di scoprirlo poiché la terra è un unico tempio consacrato alla gloria di Dio che occorre riunire, far comunicare in tutte le sue parti.
Per questo, dopo il suo ritiro dall’attività diplomatica avvenuto nel 1935, nel tuo castello di Brangues egli dedicherà la maggior parte del suo tempo a esplorare i segreti e i misteri di quella che per lui è la fonte di ogni poesia e di ogni grazia: la Bibbia. Moltiplica i suoi commenti alla Scrittura, da poeta più che da teologo, applicando la potenza del suo genio a penetrare sempre più profondamente nel mistero divino. Abbiamo così L’Introduction au Livre de Ruth (1937), Un poéte regarde la Croix (1938). Le Cantique des Cantique (1948-1954) Les Psaumes (1949), L’Evangile d’Isaie (1951) L’Apolalypse (1952), per non citare che i più famosi.
Non solo a questo si limita però la produzione letteraria del nostro autore in questo momento: pungolato dal timore di non poter dire tutto quanto vorrebbe egli scrive articoli sulla politica, sulla letteratura, sulla musica, sulla scienza; in modo particolare si interessa alla pittura scrivendo anche dei brevi studi su Rubens e Rembrandt che aveva scoperto durante un suo soggiorno in Belgio
In questi ultimi anni egli vede anche attribuirsi quel giusto riconoscimento da parte del pubblico e della critica che mai fino ad ora la cultura ufficiale gli aveva dato: le sue piéces teatrali vengono sempre più rappresentate con successo imponendosi nei teatri di tutta l’Europa e nel 1946 l’Accademia di Francia gli spalanca finalmente le sue porte. E all’apice di questo trionfo quando il 23 febbraio 1955 muore per una crisi cardiaca: è seppellito a Brangues e sulla sua tomba verrà posto l’epitaffio che egli stesso aveva scritto: «Qui riposano i resti e la semenza di Paul Claudel»
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La domanda
da Testa d’oro
Ecco, è notte.
Ma io chi sono?
Che faccio?
Che attendo?
«Non so!» rispondo. E come vorrei
piangere, o gridare, o ridere,
o ribellarmi e muovere le braccia.
Chi sono?
Chiazze di neve, ancora, si posson vedere; e
già porto fra le mani un ramo di nocciuolo.
Perché marzo è simile a una donna che soffia
su un fuoco di legna verde.
Possan cadere nell’oblìo l’estate e il bel giorno
bruciato dal sole.
O cose, qui,
io m’offro a voi!
Non so!
A me lo sguardo volgete. Ho bisogno, ma non so dire di che cosa e potrei, senza fine, gridare ad alta voce, poi a bassa voce, così come un bimbo che tu odi di lontano, così come bimbi rimasti soli presso la rosseggiante bragia. Cielo addolorato; alberi e terra; ombre e pioggia nell’ora della sera:
a me volgete lo sguardo. Non deve cadere nel vuoto questa domanda che vi pongo.
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La casa segreta
V Ode
Fa’ che in mezzo agli uomini io sia come una figura senza volto e la mia
Parola su loro senza suono alcuno come un seminatore di silenzio, come un seminatore di tenebre, come un seminatore di chiese,
Come un seminatore della misura divina.
La parola nello spirito è simile a un granello da niente,
Il quale assorbe dalla buona terra tutte le sue
forze e produce la pianta stabilita, Completa di radici e tutto. Parla dunque, o terra
inanimata tra le dita! Fa’ ch’io sia come un seminatore di solitudine e
chi ascolta la mia parola Rientri a casa inquieto e grave. Come farà Dio a entrare nel tuo cuore se non
gli lasci posto, Se non gli prepari una dimora? Per te non può
esserci Dio senza chiesa e ogni vita comincia
da una cellula. O chi è in grado di versare un liquore nel vaso
che perde?
O mio Dio, rammento quelle tenebre in cui s’era
faccia a faccia tutt’e due, quei pomeriggi oscuri
e invernali a Notre-Dame, lo tutto solo, in fondo, a rischiarare il volto del
grande Cristo di bronzo con un cero da 25
centesimi.
Gli uomini in quel tempo s’erano messi contro di noi, contro di noi la scienza, la ragione, e non dicevo nulla.
Soltanto la fede in me viveva, e ti guardavo in silenzio come uno che preferisce l’amico
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La sua opera
«Agisci in modo che le tue azioni e i tuoi pensieri segreti non solo non impediscano l’armonia di cui sei un elemento, ma la creino attorno ad essi».
Abbiamo già detto che l’esperienza umana e quella artistica in Claudel sono strettamente connesse ed anzi interdipendenti: con l’illuminazione divina del Natale 1886 Claudel ha l’intuizione della presenza di Dio come senso ultimo della vita umana. Da questa stessa data prende inizio la sua attività letteraria che si sviluppa come strumento di chiarificazione, di riflessione e di approfondimento del suo rapporto con il divino. Il cammino è lungo e difficile e a quell’intuizione della notte di Natale Claudel opporrà una lunga e tenace resistenza. Dice Claudel parlando di ciò che è seguito in lui da quel momento.
«Questa resistenza è durata quattro anni. Oso dire che feci una bella difesa e che la lotta fu leale e completa. Niente fu tralasciato. Usai tutti i mezzi di resistenza e dovetti abbandonare una dopo l’altra delle armi che non mi servivano a nulla».
Intuita quindi la possibilità di una risposta completa e tangibile al suo bisogno estremo di felicità terrena nella presenza unificante di Dio, egli però non si accontenta. La sua vita e con essa la sua opera diventano perciò il tentativo di rispondere da solo alla chiamata del Signore, di sviluppare con la propria intelligenza le conseguenze della sua conversione della notte di Natale. Egli vuole costruire con le sue mani una vita che, protesa verso Dio, nulla rinneghi però di se stessa, ma anzi sappia da sola trovare la strada per conciliare i due mondi, l’umano e il divino.
L’esperienza dei protagonisti delle sue pièces teatrali sarà allora quella di chi, fidando sulla propria capacità, cerca la strada giusta per arrivare a conoscere Dio e a incarnarlo nell’esistenza umana. Tête d’Or, protagonista della sua prima opera teatrale che da esso prende anche il titolo (Tête d’Or, 1890), è il simbolo della tenace resistenza dell’uomo che avuta la percezione dell’infinito, vuol costruirsene un’immagine concreta con le proprie mani, secondo le proprie idee e i propri schemi mentali.
Egli è il grande eroe, è l’uomo che esplora il mondo col fuoco e con la spada per vedere se veramente questo grande mondo contenga qualcosa che lo soddisfi. Tête d’Or vuol essere felice e per ottenere questo cerca l’affermazione di sé attraverso il dominio sugli altri e sulla realtà. La vittoria militare che costituisce la prima fase della sua impresa fa nascere intorno a lui l’entusiasmo e la fiducia di quanti lo circondano poiché egli è capace di dominare con la potenza e la saggezza. Il suo sogno tuttavia fallisce miseramente di fronte alla morte dell’amico Cébès e al disordine che si crea all’interno della comunità umana di cui fa parte.
Davanti a ciò il nostro eroe si rende conto dell’inutilità e dell’impotenza dello sforzo umano a cambiare tale situazione. Ma la sofferenza dell’eroe che vede cadere il senso e il valore di tutta la sua impresa di fronte ad un avvenimento su cui nulla può la sua forza, in nulla intacca il desiderio originario che lo ha mosso. La morte allora diventa per Tête d’Or lo stimolo, il pungolo per tentare un’altra impresa, per affermare se stesso ma attraverso un’altra via. Egli vuol giungere al dominio totale del mondo, vuol vedere quell’infinito che sta ponendo ostacoli al suo cammino per possederlo e diventarne il padrone.
Ma a nulla valgono i suoi sforzi: Tête d’Or, ferito, deve prendere atto della incapacità e limitatezza proprie del suo essere uomo. Tête d’Or è un eroe positivo perché sa riconoscere il proprio fallimento e ammettere la limitatezza del suo essere. Nella autenticità della sua ricerca i suoi occhi sono puri e per questo egli saprà riconoscere, poco prima di morire, la bellezza della Principessa, immagine visibile dell’infinito che più volte in precedenza aveva rifiutato di vedere. E’ la trasposizione letteraria dell’intenso momento di dolcezza e di pace vissuto a Notre-Dame il cui ricordo ritorna incalzante nell’animo di Claudel suscitando attrazione e soprattutto spavento, come egli stesso ha detto.
Ma la resistenza a questa presenza unificante del mondo è ancora dura: è una lotta accanita per non lasciare un mondo che Claudel ama così com’è, con tutte le sue contraddizioni e le sue storture pur nella consapevolezza della sua inconsistenza. Claudel sta soffocando nel suo stesso essere, come schiacciato dalla sua ricerca vana e faticosa e nulla esprime meglio il tumulto interiore di questo periodo dei dialoghi affannati della folla di personaggi che anima La Ville, il suo secondo dramma (1893).
L’avventura umana dopo il fallimento di Tête d’Or, continua la sua ricerca di conciliazione tra cielo e terra attraverso l’analisi di altri aspetti dell’esistenza che, al di là della banalità quotidiana, affermando la possibilità per l’uomo di entrare in armonia con l’universo che lo circonda: la politica, la scienza, l’arte. L’impresa di Tête d’Or è direttamente ripresa da Besme, espressione della scienza, che ha come pretesa iniziale di conoscere tutta la realtà e di dominarla. La realtà esistente è un insieme in cui ogni cosa ha un suo compito specifico, una sua funzione: la scienza ricerca questa utilità che ne viene per sfruttarla e così esercita il suo dominio sulla natura. Da ciò deriva la tecnica che usa però i suoi mezzi per manipolare le risorse naturali e condurle a un fine ad essa congeniale.
Tutta la realtà invece, ci è stata data perché l’uomo vi ritrovi la presenza dell’Essere, perché vi ricerchi i segni del Suo amore e quindi arrivi alla conoscenza vera di sé, cioè alla comprensione del compito che in questa grande armonia universale gli è stato affidato. Per il momento tuttavia, nell’evoluzione della personalità di Claudel, siamo ancora nella fase in cui la scienza resta uno strumento capace di far affermare il desiderio di costruzione positiva dell’esistenza e dello sforzo umano.
«La città»
Nella lunga dialettica che La Ville sviluppa tra scienza e arte, la prima arriva comunque al suo fallimento. Lo sforzo umano anche qui nulla può di fronte alla morte, al nulla: l’inutilità del nulla è inconcepibile per una scienza che ha la pretesa di spiegare e ordinare tutto. Qui essa si arresta, incapace di apporvi il suo dominio, e miseramente fallisce. Il dialogo serrato tra Besme e Coeuvre, portavoce della poesia, mette in luce la vera natura dell’arte e della scienza: se la prima ricerca la conoscenza della realtà, la seconda ne vuole anche il dominio.
E’ proprio questo però che corrode l’autenticità della conoscenza stessa poiché il desiderio di possesso fa manipolare il reale secondo i propri fini. In questo sta la sua menzogna che Avare, simbolo dell’anarchia, denuncia violentemente. Questa è senz’altro la figura più congeniale alla personalità e alle idee di Claudel di questo periodo; Avare è colui che tutto distrugge con il suo giudizio lucido e acuto sulla realtà circostante. E’ sempre lui che smaschera il potere politico e le sue falsità, ben espresse nel dramma dal personaggio di Lambert. Questi, riconosciuta la fatica di guidare gli uomini con la persuasione più che col ferro, ricerca il dominio sugli altri attraverso la seduzione del denaro.
Ma anche questo mezzo fallisce perché è una forma di dominio occulto e subdolo che riesce a esercitare sì un potere sulle persone e sulle coscienze, ma non arriva a dar loro il possesso della felicità. E’ questa la falsità che Claudel-Avare denuncia: la seduzione della felicità ottenuta attraverso il denaro è senza esito positivo. Lo stesso Avare che mette a ferro e fuoco la città portandola alla distruzione più completa si rende conto dell’inefficacia di ogni sforzo umano teso a dare la felicità all’uomo senza considerare l’esistenza dell’infinito. Se Avare la sente ma è incapace di dar risposta ad essa il poeta invece è colui che di fronte all’infinito fa tacere se stesso per accoglierlo. E’ infatti il poeta, secondo Claudel, che ha il compito di rivelare la verità e il senso del creato.
La Ville, attraverso la figura di Avare, ci dà la testimonianza più diretta della resa che ormai il nostro autore sta facendo al richiamo divino. E vengono in mente i Vers d’Exil scritti nel 1895: «Invano sono fuggito: dappertutto ho ritrovato la Legge. / Bisogna cedere infine! o porta, bisogna far entrare / L’ospite; cuore fremente, bisogna accettare il padrone, / Qualcuno che sia dentro di me più me stesso di me».
Il 25 dicembre 1890, allorché ha scritto solo i primi due atti de La Ville, Claudel obbligato, ridotto e spinto allo stremo, si è arreso alla Parola Assoluta. Resta un uomo che sa con certezza ciò che il suo desiderio persegue, ma non sa come raggiungerlo; resta il poeta che, arresosi alla presenza dell’Essere, si pone di fronte alla realtà in modo non preconcetto, con il solo desiderio di contemplarla, riconoscendo la gratuità del suo esistere. Una realtà che non è altro che unità, armonia, accordo perfetto di modo che le cose diverse possano consistere insieme dando vita all’universo. Questa è la giusta risposta al desiderio umano perché dà l’esatta posizione ad ogni cosa nel cosmo e quindi anche all’uomo. Così quest’ultimo dalla solitudine del suo essere rinasce dentro l’universo dando al suo animo quel soffio vitale che gli permette di respirare all’unisono con tutto il creato.
Ma a questo punto nasce la lacerazione interiore: cosa esige da lui questa Parola Assoluta, questa presenza di Dio a cui ormai ha ceduto definitivamente? Esige forse un dono totale di sé al punto da fargli abbandonare tutto quanto la vita gli ha fin qui dato? Le Odi esemplificano in modo mirabile il dissidio interiore che lo travaglia fondato appunto sul rapporto uomo-Dio. Claudel affida alla poesia la sua riflessione e l’approfondimento di ciò che man mano va intuendo.
Attraverso il linguaggio poetico egli scava dentro di sé per scoprire alla radice la lotta interiore che sta vivendo: è così che nascono Les Odes (1904-1908) e con esse l’abbozzo di un’arte poetica che, anche se non ancora codificata, è destinata fin da ora a rivoluzionare il mondo culturale del tempo. Il poeta si interroga sulla propria ispirazione e così facendo ripercorre, parallelamente a un cammino artistico che si va facendo, un cammino di fede che lo ha generato. Così egli crea una poesia in cui la scoperta di Dio si accompagna alla scoperta dei poteri del poeta: questi comincia a «nominare» il mondo per rispondere alla sua vocazione che è di continuare la creazione divina.
Come Dio ha dato un nome ad ogni cosa nella creazione così quando tu parli, o poeta, in una enumerazione deliziosa / Proferendo il nome di ogni cosa, / Come un padre tu la chiami misteriosamente nel suo principio, e come un tempo / Tu hai partecipato alla sua creazione, tu cooperi alla sua esistenza! / Ogni parola una ripetizione. / Questo è il canto che tu intoni nel silenzio e questa è la felice armonia di cui nutri in te stesso l’incontro e la dissoluzione (I Ode, Les Muses, 1900-1904).
«Le Odi»
Di fronte a questo compito che restituisce l’armonia a tutte le cose e svela la presenza reale di un Amore più grande che tutto genera e rigenera, Claudel sente infine la liberazione propria di chi si è scrollato di dosso il peso enorme della sua vanità e si è legato in modo inscindibile al cuore stesso della Creazione. Tale è l’ebrezza di questa reciproca intimità tra Dio e l’uomo che quest’ultimo gode di una sensazione di libertà completamente nuova: la libertà di chi, pur essendo creatura, può partecipare, attraverso lo Spirito, a una nuova creazione che lo svincola da ogni costrizione puramente umana. E’ questo il tema della seconda Ode, L’Esprit et l’Eau (Lo Spirito e l’Acqua, 1906) che ruota attorno all’analogia tra il mare, elemento della creazione e lo spirito, elemento della Vita
Claudel uomo e poeta ha così trovato la chiave per comprendere e guardare ogni cosa nel suo giusto posto. Il mondo si dischiude nuovo ai suoi occhi: ecco all’improvviso che tutte le cose ai miei occhi / Hanno acquistato la proporzione e la distanza. / … Salve dunque, o mondo nuovo ai miei occhi, o mondo ora totale! / O credo intero delle cose visibili e invisibili, io vi accetto con un cuore cattolico! / In qualsiasi parte volti il capo / Io scorgo l’immensa ottava della creazione! / Il mondo si apre e per quanto larga ne sia la distesa, il mio sguardo lo attraversa da un capo all’altro.
S’alza allora la preghiera per la purificazione totale del proprio essere: il poeta ripercorre il breve periodo della sua vita che lo ha visto lottare invano contro il richiamo divino, riconosce la sua sconfitta (io so che la lotta è finita. Io so che la tempesta è finita!) con un senso di liberazione e il suo canto si fa preghiera perché ogni fibra del suo essere inneggi all’amore divino. Si eleva quindi naturale e spontaneo il suo canto di riconoscenza a Dio che non a caso Claudel intitola Magnificat (III Ode, 1907).
Riconoscenza per averlo liberato dagli idoli, Giustizia, Progresso, Verità, Divinità, l’Umanità, le leggi della Natura, L’Arte, La Bellezza; riconoscenza per averlo liberato dalla morte. (Signore vi ho trovato. / Chi vi trova non tollera più la morte, / … Signore avete messo in me un germe non di morte, ma di luce; / … In voi io sono anteriore alla morte!); riconoscenza per averlo liberato da se stesso.
Comincia a questo punto una delle più belle pagine che mai siano state scritte a nostro avviso sul senso della paternità umana e divina. Claudel proprio in questo 1907, anno in cui compone la III Ode, ha avuto una figlia, Marie, e spontaneo sgorga dal suo cuore il canto di gioia per un Padre che si serve dell’uomo per rigenerare se stesso attraverso una paternità umana che esalta la gloria e l’amore di Dio. Così che la paternità umana non diventa più possesso esclusivo ma strumento di vita capace di generare affinché Dio riceva volto e dimensione… E’ così che avete voluto, o mio padrone, I Ricevere da me la vita come tra le dita del prete che consacra, e porre voi stesso in questa immagine reale tra le mie braccia!
E infine riconoscenza a Dio per averlo introdotto nella Terra Promessa indicandogli il compito che, nell’armonia del mondo, gli è stato affidato, unitamente alla preghiera affinché questo compito rimanga sempre ancorato alla certezza di Dio. Solo così egli può arrivare alla piena comprensione del mondo e di se stesso poiché comprendere è rifare / La cosa stessa che si è presa con sé
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Magnificat
III Ode
Sii benedetto, mio Dio, che mi hai liberato da me stesso,
E fai ch’io non ponga in me il mio bene o nella buia prigione dove Teresa vide i reprobi murati,
Ma nella tua sola volontà,
E non in qualche bene, ma nella tua sola volontà.
Beato non chi è libero, ma chi predestini come una freccia nella faretra. Mio Dio, che al principio d’ogni cosa e di te stesso hai posto la paternità, Sii benedetto perché mi hai dato questo figlio, E insieme a me hai disposto come renderti la vita ricevuta, Ed ecco sono suo padre con Te. Non sono io che genero, non sono io che sono generato.
Sii benedetto perché non mi hai abbandonato a me stesso.
Ma mi hai accettato come una cosa che serve ed è buona per il fine che ti prefiggi.
Ecco, non hai più timore di me come dei superbi e dei ricchi che rimandasti vuoti.
Hai posto in me la tua potenza, quella della tua umiltà per cui ti annienti dinnanzi alle opere tue,
Nel giorno delle sue generazioni quando l’uomo ricorda d’esser terra, ed ecco, son divenuto con te un principio e un cominciamento.
Come tu hai avuto bisogno di Maria della successione di tutt’i suoi antenati,
Prima che la sua anima ti glorificasse e ti desse grandezza innanzi agli uomini,
Così hai bisogno anche di me, perché così hai voluto, o mio Signore,
Ricevere da me la yita come dalle dita del prete che consacra, e metterti tra le mie braccia in questa immagine reale!
Sii benedetto perché non rimango unico,
E da me scaturisce esistenza, e incitamento dal mio figlio immortale, e a mia volta da me in questa immagine reale per sempre, da un’anima unita con un corpo,
Hai ricevuto dimensione e figura.
lo non tengo una pietra nelle mani, ma un bimbo che grida agitando le braccia e le gambe.
Eccomi congiunto all’ignoranza e alle generazioni della natura e prefisso per un fine estraneo a me stesso.
Sei tu dunque, nuova venuta, io posso alla fine guardarti.
Sei tu, anima mia, e io posso alla fine vedere il tuo viso,
Come uno specchio su Dio, ancor vergine di ogni altra immagine.
Nasce da me qualcosa d’estraneo,
Nasce dal corpo un’anima, e dall’uomo esteriore e visibile
Non so che secreto e femmineo con una strana somiglianza.
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Il suo «dovere» poetico
Claudel abbraccia così il suo dovere poetico che consiste nel ricercare la presenza di Dio in tutte le cose e nel rendere queste ultime assimilabili all’Amore. Non bisogna dimenticare però che questo periodo della vita del nostro autore è caratterizzato da quel dissidio interiore tra umano e divino, tra terra e cielo che lentamente si va ricomponendo nell’armonia del Creatore che tutto rigenera. E’ una ricomposizione interiore lenta ma inesorabile e la drammaticità di questo momento Claudel ce la esprime in tutte le sue sfumature e i suoi accenti nella IV Ode, (La Musa che è la Grazia, 1907) la più altamente lirica dell’intera sua opera.
La stessa struttura poetica che con le sue «strofe» e «antistrofe» sfugge alla definizione classica di ode, fa sì che il dialogo immaginario tra la musa e il poeta si animi davanti ai nostri occhi con un linguaggio sempre più serrato che stringe i fianchi del poeta obbligandolo a uscire dai propri progetti e schemi per aprirsi a una nuova mentalità di fede. E’ la trasposizione lirica del dramma che anima la pièce teatrale Destino a mezzogiorno (1906), cioè la difficoltà a colmare la distanza tra la natura umana e la grazia; ma è soprattutto l’abbozzo del tema fondamentale che è alla base de L’Annonce faite à Marie (1910-11).
La scelta della vocazione nel mondo non dipende dall’uomo ma dall’essere disponibili a cogliere i segni divini che ci indicano ciò che Dio ha scelto per il nostro bene, per realizzare la nostra felicità. Se Claudel chiede alla Musa, che più tardi si rivelerà essere la Grazia, di lasciargli portare a termine il suo dovere poetico riconosciuto e approvato da tutti, il suo intento è certamente buono e il suo ideale nobile.
Ma neanche questo grande ideale è motivo valido per stabilire da soli il compito che ci è stato affidato dalla volontà divina; le parole della Musa sono chiare: Io non sono accessibile alla ragione, tu non farai, tu non farai affatto di me ciò che vuoi. E’ un invito a scendere al cuore stesso della creazione poetica, a porre anche quest’ultima nella certezza di Dio che solo può farla fruttificare per il bene di tutti.
Allora egli sarà capace di guardare il mondo attorno a te non più come uno schiavo sottomesso, ma come l’erede e il figlio legittimo! I Perché non tu sei fatto per esso, ma esso è fatto per te! Poiché le cose del mondo passano mentre tu, tu sei con Dio per sempre! / Per trasformare il mondo tu non hai bisogno del piccone e della scure, della cazzuola e della spada, / Ma ti basta guardarlo solamente, con quei due occhi dello spirito che vede e che ascolta. Solo ponendo l’ispirazione poetica (e gli strumenti concreti che essa ha a disposizione) nel cuore di Dio essa sarà capace di trasformare il mondo.
L’ultima ode (La Casa segreta, 1908) non è altro che la spiegazione ulteriore della sua missione poetica: egli non cerca la gloria umana, il suo desiderio è di essere colui che riunisce la terra di Dio per cui la parola creata è ciò in cui tutte le cose create sono rese donabili all’uomo. Il dovere fondamentale allora per il poeta è vivere in Dio su questa terra dove gli è stato affidato il compito di riunire tutto in lui poiché abitiamo in un tabernacolo chiuso in cui tutto ci è fraterno.
Con la resa definitiva alla volontà divina che gli ha indicato chiaramente quale sia il suo compito invitandolo a rendersi compartecipe di Dio nella melodiosa armonia del creato, egli ritrova la vita: la creazione si offre a lui come un glorioso universo nella sua realtà fisica e metafisica. Accogliere Dio significa non solo guadagnare l’altro mondo ma anzitutto questo mondo concreto in cui vive finché esso trovi in Dio il suo principio e la sua fine, guadagnare le cose restituite alla loro densità terrestre e alla loro essenza divina.
Nel cristianesimo egli ha trovato perciò non solo la salvezza ma soprattutto la possibilità di vivere, di credere al mondo, di fare opera di poeta. In una lettera a A. Fontaine del 1903 scrive: «anche la fede non è più per me ciò che essa era nei giorni della mia giovinezza, una adesione appassionata nelle tenebre, ma una certezza solida, qualcosa di magnificamente pieno e ragionevole, dignuum, iustum, aequum, salutare, secondo le parole del Prefazio». Forte di questa unica certezza egli si appresta a scrivere una delle più belle pièce teatrali di tutti i tempi: dalla sua fede nasce il grande canto de L’Annonce faite à Marie.
L’Annuncio a Maria
La storia de L’Annonce faite à Marie è lunga. La versione originale o almeno l’abbozzo da cui è uscito il testo che conosciamo data dal 1892 e ha il titolo de La jeune file Violaine: si tratta di una pièce campagnola, ambientata nel paese natale di Claudel. Il manoscritto comunque viene accantonato e solo nel 1901 l’autore lo riprende per farne una nuova versione in cui sia la storia sia lo scenario cominciano ad assumere una configurazione più precisa. Infine nel 1910 Claudel ritorna su questi manoscritti con l’idea di dare una forma definitiva a quella storia appena abbozzata ambientandola però in un’epoca diversa, cioè nel Medio Evo.
E’ in questo stesso momento che cambia anche il titolo e diventa L’Annonce. Ci sarà un nuovo rifacimento nel 1938, pur se insignificante nei cambiamenti e infine un adattamento definitivo per la scena nel 1948. L’Annonce come lo leggiamo oggi (e cioè nella versione del 1910) è un mistero in quattro atti, come lo stesso autore l’ha chiamato, ed è senz’altro l’opera più rappresentata a teatro godendo di un successo di pubblico che ha sempre stupito lo stesso autore.
La trama, se così possiamo chiamarla, è molto semplice: Mara sorprende la sorella Violaine ad abbracciare Pierre de Craon, un costruttore di cattedrali; quest’ultimo però è lebbroso e il suo bacio contamina la giovane che è costretta a cedere il fidanzato Giacomo a Mara e ad allontanarsi da casa. Mara e Giacomo hanno una figlia che muore e nel momento del dolore Mara torna da Violaine, ormai cieca e ridotta allo stremo, poiché sa che può domandare tutto a Dio. Il piccolo cadavere nelle braccia di Violaine rivive e Mara, gelosa, spinge sotto un carro la sorella che muore.
Il tema fondamentale su cui tutta la pièce si snoda è quello che già Claudel aveva trattato nelle Odi e nell’Art Poétique: ogni essere umano vive nel mondo per volontà di Dio che ha affidato ad ognuno un compito particolare nell’insieme del creato. E’ un compito specifico che ciascuno ha personalmente ma che concorre all’armonia del tutto. Lo stesso titolo esemplifica quanto detto: l’annuncio dell’angelo a Maria Vergine fu il segno concreto della volontà divina che chiamava la giovane ad una missione nel mondo che avrebbe non solo sconvolto la sua vita ma cambiato radicalmente le sorti dell’umanità intera.
Esso è stato la manifestazione di una vocazione. L’Annonce di Claudel parte da questo dato e vuole mettere in luce l’errore che di fronte a ciò l’uomo può compiere e cioè il ritenere che la scelta della vocazione ultima dipenda esclusivamente da se stessi.
Il dramma coglie i personaggi in questo atteggiamento, intenti a costruirsi la vita che hanno deciso di vivere ma attenti e disponibili a riconoscere la volontà del Signore. E’ per questo che ognuno si troverà a percorrere una strada diversa da quella prevista. Nel determinare questa vocazione concorre anche il male, il peccato, a condizione però che esso sia riconosciuto come tale e che ne sia accettata la punizione. La consapevolezza del limite umano è l’inizio della bontà. Dio anche dal male trae il bene e a Pietro, che ha saputo riconoscere il suo sbaglio e accettarne le conseguenze, ha destinato un compito ben più grande di quanto egli potesse aspettarsi. Violaine -Come è bello il mondo e come sono felice! Pietro Di Craon – Come il mondo è bello e come io sono infelice!».
Questa espressione di Pietro è estrema mente significativa per capire il suo atteggiamento: nonostante la sua croce che è la lebbra egli non può non riconoscere una bellezza e un’armonia che esistono intorno a lui e a cui, anzi, egli stesso coopera. Pietro sa di aver sbagliato: Forse non avevo abbastanza pietre da ammassare e legnami da commettere e metalli da foggiare — l’opera ch’era mia — perché d’un tratto mettessi la mano sull’opera di un Altro, e, empio, desiderassi un’anima? L’aver voluto per sé Violaine che era invece di Dio lo ha gettato in una situazione triste e miserevole, poiché è attaccato dalla lebbra e costretto per questo all’isolamento, anche se non tale come quello degli altri lebbrosi. Egli accetta questa condizione perché sa di essere peccatore: il male riconosciuto è ciò che dà all’uomo la disponibilità verso Dio.
Così era stato anche per Besme e per Avare anche se la catarsi finale per essi non c’è stata. Pietro invece accetta questo giudizio di Dio e diventa più attento e disponibile all’ascolto della volontà divina; egli viene mantenuto nel suo compito di costruttore di cattedrali: non può rimanere tra gli altri e dà il luogo alla comunità di tutti. La sua apertura alla Verità diventa sempre più grande, tanto che quando Violaine gli offre in dono per la cattedrale di S. Giustizia l’anello regalatole da Giacomo, egli dice: Proprio questo solo avete da darmi per essa? un po’ d’oro che portavate al dito?
La donazione all’Amore divino deve essere totale poiché solo così si può vivere liberamente la propria vocazione nel mondo. Pietro – Una pietra occorre per la base, una diversa per il sommo… Non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma at Maestro dell’Opera che l’ha scelta… Santità non è farsi lapidare in terra di Paganìa o baciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più in alto. Il senso dell’opera è tutto qui, nel Prologo che introduce e focalizza il tema su cui tutti i personaggi dovranno misurarsi: i vari atti colgono poi questi ultimi alle prese con il loro destino.
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Il giogo
da L’Annuncio a Maria
GIACOMO HURY – Oh, Violaine! crudele Violaine; oh, tu, desiderio della mia anima, come mi hai tradito. Oh, giardino ch’io detesto! oh, amore inutile e non compreso! Giardino in mala ora piantato.
Dolce Violaine! perfida Violaine! oh, silenzio e dissimulazione della donna! Sei dunque per sempre partita, anima mia? Mi inganna, e se ne va; mi rivela tutto con quelle sue parole mortali e dolci, e parte; e io, con quel dardo avvelenato qui, bisogna che viva, io, e duri! come la bestia che si prende per le corna torcendole il muso dalla greppia, come il cavallo che la sera si stacca dal bilancino battendogli la groppa.
Sei tu, bue, che vai innanzi, ma allo stesso giogo siamo entrambi accoppiati. Che il solco sia tracciato,
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Adesione al Disegno
Primo fra tutti Anna Vercors, il padre di Violaine e di Mara. Dopo aver costruito la sua famiglia con l’aiuto e il sostegno di Dio, nello slancio generoso di chi ha avuto anche troppa felicità nella sua vita (Siamo troppo felici. E gli altri non abbastanza… Troppo mi pesa questa felicità!), egli crede che il compito cui Dio ora lo chiama è offrire la sua stessa vita per il bene e la felicità del popolo intero. Decide quindi di partire per la Terra Santa per ottenere pace all’umanità e alla Chiesa. Anna Vercos – Chi sa se altrove non hanno bisogno di me? Tutto è sottosopra e chi sa se io non turbo l’ordine di Dio restando a questo posto dove il bisogno che s’aveva di me è cessato?
Affidata la sua casa e la figlia Violaine a Giacomo, il suo promesso sposo, Anna parte convinto che il suo compito è offrirsi in sacrificio per il bene del mondo e della sua patria, così sconvolta in questo momento. Ma neanche il più nobile e grande ideale è motivo sufficiente per stabilire da soli il posto assegnatoci nel mondo: alla fine della pièce Anna torna sano e salvo da questo lungo viaggio e nella desolazione della sua casa ritrovata dove la moglie e Violaine sono morte, egli capisce di aver sbagliato, di aver peccato di presunzione verso Dio.
Anche Violaine è un personaggio che vede stravolta la propria strada dalia volontà divina: Lodato sia dunque Iddio che mi ha segnato subito il mio compito, e io non ho da cercarlo. E altro posto non chiedo a lui. Sono Violaine, ho diciotto anni, mio padre si chiama Anna Vercors e mia madre Elisabetta. Mia sorella si chiama Mara, il mio fidanzato Giacomo. Questo è tutto, ecco; non c’è altro da conoscere. Tutto è chiaro all’evidenza, tutto è prestabilito e io sono contentissima. Il matrimonio, la famiglia: questo è il compito che Violaine crede di dover soddisfare in questo mondo. Dio invece la chiama a ben altra fecondità.
Anche per lei l’accettazione della volontà divina passa attraverso il male, il riconoscimento della propria miseria, condizione indispensabile per Claudel per poter accogliere la Grazia. Violaine tenta di avere da Giacomo la dichiarazione di fedeltà a prescindere dalle apparenze, dalla sua bellezza fisica: non esiste vero amore se esso non è pronto a lasciare ciò che ama. Violaine ha capito che l’amore autentico implica il distacco, la separazione: di fronte alla sua grandezza semplice crolla però Giacomo. Questi non ne è capace perché il suo sentimento è basato sulla adesione affettiva all’esteriorità di lei.
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La morte di Violaine
da L’Annuncio a Maria
ANNA VERCORS – Che importa! buona è la pace, ma la guerra ci troverà muniti. O Pietro! tempo è questo che le donne e gii infanti ne san più dei saggi e dei vecchi! lo ho avuto scandalo come un Giudeo perché la faccia della Chiesa s’è oscurata ed essa procede barcollando nell’abbandono universale. E ho voluto abbracciare il Sepolcro vuoto, e metter la mano nella buca della Croce.
Ma la mia piccola Violaine è stata più saggia. Forse che fine della vita è vivere? forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere, ma morire, e non digrossar la croce ma salirvi, e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna! e viva Dio se il sangue del vecchio sul lino del sacrificio non fa presso quello del giovane una macchia così rossa, così fresca, come il sangue dell’agnello d’un anno!
O Violaine! fanciulla di grazia! carne della mia carne! Così lontano com’è il fuoco fumoso della mia fattoria dalla stella del mattino, quando in guisa di vergine poggia sui seno del sole la sua bella testa luminosa, oh, possa tuo padre, lassù, lassù, vederti per l’eternità al posto che ti è stato serbato! Viva Dio, se dove passa questa piccola non passa anche il padre.
Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per esser data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire? Così Violaine, tutta pronta, segue la mano che prende la sua.
PIETRO DI CRAON – O padre! lo la tenni ultimo fra le braccia, ché ella aveva fiducia in Pietro di Craon, sapendo che non v’è più desiderio della carne nel cuore di lui. E il giovane corpo di quel divino fratello era fra le mie braccia come un albero tagliato che pende. Come l’acceso colore del fior di melagrano da ogni lato scoppia nella gemma che non lo sa più contenere, già lo splendore dell’angelo che non conosce morte illuminava la nostra piccola sorella. E l’odore del paradiso si esalava fra le mie braccia da quei tabernacolo infranto. Non piangere, Giacomo, amico mio.
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La fecondità di Violaine
Il mondo è bello per Giacomo perché Violaine gli è stata affidata, perché egli ne è il promesso sposo e si sente esaltato dal fatto di avere per sé una bellezza così pura. Ma quando quest’ultima viene meno crolla anche il suo amore perché sono crollate le apparenze, l’esteriorità su cui era basato.
Violaine non era mai stata amata effettivamente con un amore che tutto accoglie dell’altro: il dolore della giovane si fa perciò più acuto e più profondo. Il progetto che ella aveva per la sua vita era il matrimonio: scoperta la fallacità di questo compito che cade di fronte al male, Violaine deve andarsene subito, lontano da tutti e capisce che ella allora dovrà vivere la disponibilità totale all’amore di Dio nella croce del suo male fisico che la isola da tutto e da tutti. L’unico compito della sua vita sarà vivere nella volontà di Dio. Violaine – Guarirà forse la mia lebbra? No, fin che vi sarà una particella di carne mortale da divorare. E forse guarirà nel mio cuore l’amore? Mai, fin che vi sarà un’anima immortale per fornirgli l’alimento.
La sofferenza umana abbracciata totalmente come atto supremo d’amore non può essere infeconda poiché nulla che a Dio è dato resta sterile: quanto più si abbraccia la croce tanto più si fa il bene in questo mondo. E’ questo il cammino di Violaine che nel compimento della sua missione umana aprirà il cuore di tutti i suoi cari al totale affidamento a Dio.
Mara, sposato Giacomo, ha una bambina che si ammala e muore: va allora da Violaine per chiedere il suo aiuto. Dal seno di quest’ultima sgorga una goccia di latte che rianima la bimba: è il miracolo, e Violaine che aveva abbandonato la fecondità umana ha ora una fecondità immensamente più grande. Tuttavia Mara sente che ormai la sua dipendenza dalla sorella è totale: la bimba ha ora gli occhi azzurri come Violaine, è come se fosse sua figlia. Il sentimento di invidia che ha sempre nutrito per lei si acuisce ancora di più e Mara tira le conseguenza ultime di questa situazione che si è venuta a creare.
Di fronte alla ricchezza umana di Violaine gli si rivolta contro e per sconfiggere l’ingiustizia che pesantemente sente per se stessa getta la sorella sotto un carretto di ghiaia per eliminare totalmente la sua presenza dal mondo. A Violaine è stato chiesto il sacrificio estremo.
Il quarto atto sottolinea questo gesto di suprema donazione e facendo rientrare in scena tutti i personaggi chiarisce la loro evoluzione. Pietro riporta Violaine morente a Combernon: solo a lui è dato ora di toccare la giovane martire perché è l’unico ad aver riacquistato la sua completa libertà. L’accettazione della croce in lui ha generato e il miracolo della guarigione dalla lebbra e il suo distacco dall’amore per la giovane Violaine – Chiamate Pietro di Craon. Egli ha avuto la lebbra, benché Dio poi l’abbia sanato. Egli non ha orrore di me. E io so che per lui sono come un fratello: la donna non ha più potere sulla sua anima.
Nel dolore della sua croce Pietro ha trovato la sua vera libertà, il vero senso della sua appartenenza alla grande armonia generata dall’amore divino. All’arrivo di Violaine accorre Giacomo, ma è un Giacomo totalmente diverso da quello che la giovane ha supplicato un giorno. Morente, ella lo invita ancora una volta ad accogliere e ad accettare la volontà divina come unico criterio per la sua esistenza e l’uomo, pur se con fatica, comincia a sentirsi in sintonia con quanto gli viene chiesto. Ora che la bellezza è scomparsa e non gli offusca più la purezza del suo amore, Giacomo crede a Violaine amandola per ciò che essa è e non più per ciò che essa appare. Egli scopre la profondità di un amore umano non più fine a se stesso e si libera finalmente dai suoi schemi mentali, dalla sua pretesa di giustizia che gli chiudeva il cuore alla vera gioia.
Giacomo – Credo. Non dubito più. Violaine – E dimmi, dov’è in tutto questo la parte della giustizia? La giustizia della quale così altiero parlavi? Giacomo – Non sono più altiero. A Giacomo non resta altro che continuare a vivere senza Violaine in questa nuova dimensione che la giovane gli ha spalancato davanti agli occhi. L’unico modo per continuare un’esistenza che abbia un senso che superi la sua stessa disperazione e la sofferenza di questo momento è quello di obbedire al Dio che l’ha generato e che proprio attraverso il dolore gli ha indicato la strada da percorrere nel mondo. Il sacrificio genera l’unità degli esseri e del mondo (Violaine –Questo ti resti di me, mio diletto. La comunione sulla croce...) e il segno tangibile di questo servizio al mondo è il lavoro che solo così acquista un suo significato e un valore precisi.
Anche per Anna Vercors, il padre, il sacrificio di Violaine è significato un rendersi conto del proprio peccato, della propria alterigia di fronte a Dio: tornando a casa Anna trova tutto cambiato e nonostante il dolore per la morte della sua sposa e della figlia, il suo cuore è riconoscente al Signore per avergli fatto capire il suo errore e indicato la strada per andare avanti.
Anna – E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire? Rinunciare al proprio progetto per aderire totalmente a una vita che tutto alimenta e genera: questo è il sacrificio che gli è chiesto unitamente alla sofferenza nel sapere che la morte si avvicina cogliendolo nella solitudine. Ma di fronte alla sua vita che sta per chiudersi non c’è paura in Anna perché Benedetta sia la morte nella quale tutte le domande del Pater si compiono; la morte è il momento della catarsi finale in cui la vocazione umana si compie per fondersi con l’amore di Dio.
Pietro, Giacomo, Anna: tre personaggi la cui profonda diversità rendeva quasi estranei e che hanno invece riscoperto il profondo legame che li unisce nell’amore divino attraverso il sacrificio di Violaine. La pièce si chiude con la proclamazione della nascita, della morte e della resurrezione di Cristo: in questo modo Claudel sembra lanciarci il messaggio che solo morendo a noi stessi possiamo accogliere totalmente l’amore di Dio e renderci compartecipi con lui della salvezza del mondo. Il sacrificio di Cristo ha portato la salvezza nel mondo: così il sacrificio di Violaine ha generato l’unità in Cristo di coloro che l’hanno amata.
L’avventura artistica di P. Claudel si inoltra con sempre maggior precisione dentro la storia ed i suoi personaggi.
Dopo aver precisato l’entità del Dio che lo ha chiamato e il compito affidato all’uomo, dopo aver definitivamente affermato la propria decisione nel seguire il suo destino, Claudel indaga nella storia la lotta dell’uomo, e i frutti, che questa fatica ha portato, riconoscendoli come segni della presenza di Dio nel tempo attraverso l’opera dell’uomo obbediente.
Come Pietro di Craon lasciava le pure e massicce cattedrali come frutto della propria opera così nella storia, nel tempo rimangono i fatti, episodici, quotidiani comunque importanti. E rileggere questi fatti, conoscere il tempo, si potrebbe dire, è conoscere se stessi. Ripercorrere la storia, non per classificarne gli eventi, ma per evidenziare il disegno che nel tempo si sta realizzando, vuol dire poter collocare se stessi entro tale ordine e precisare quindi il proprio compito.
Dopo la trilogia dei Coûfantaine, in cui viene analizzato il delicato momento storico del secolo XIX con la lotta tra il nuovo tiranno nato dalla rivoluzione francese e l’autorità del Papa, Claudel passa ad esaminare con Le Soulier de satin un analogo periodo storico in cui si sono strettamente intrecciati la fede ed il potere, l’amore e la legge, il XVI. La trilogia è dominata da Cristo, attraverso il Crocifisso dei Coûfantaine, La scarpina di raso ha invece come protagonista la terra, tutti i suoi continenti rappresentati dai vari personaggi e dai luoghi di scena.
Ne L’Ostaggio, opera della Trilogia con cui Claudel inizia l’indagine per «comprendere i mezzi misteriosi di cui si serve Dio per ricondurre tutte le cose ai suoi disegni, egli ha descritto il sacrificio della nobile Sygne che accetta di sposare l’arido Barone Turelure, giungendo perfino a morire per salvargli la vita. Ma questa offerta fatta per «orgoglio feudale», per dare discendenza ai Coûfantaine, senza un ideale che la potesse sorreggere, costringe Sygne a soccombere, ad un annullamento totale di sé che la rende incapace di riconciliarsi con il marito in punto di morte.
Nell’opera che conclude la trilogia, Le pére humilié, la cieca Pensée é amata da due fratelli, Orso e Orian. Lei ama Orian a cui si unisce prima che questi parta per la guerra nella quale rimane ucciso. Orso, che si finge suo fratello, ritorna «per richiamare la donna alla regola del matrimonio e per l’imposizione del nome» al figlio avuto da Orian.
E’ su questo terreno, del vincolo matrimoniale e del puro amore umano che deborda da esso, che Claudel continua la propria indagine. Il dramma, infatti, è dato proprio da questa divisione, «da una parte il desiderio passionale della felicità individuale, dall’altra l’ingiunzione di un imperativo con cui questo desiderio si deve concordare».
Nel regno su cui non tramontava mai il sole, negli splendori del regno di Spagna si svolge l’avventura di Donna Prodezza e Don Rodrigo. Lei già sposata a don Pelagio, saggio ma anziano, ama profondamente Don Rodrigo. Nemmeno dopo la morte del marito potrà realizzare la propria aspirazione, poiché i due sono stati separati dal Re: donna Prodezza a difendere la fortezza di Magadar contro i Mori in Africa, don Rodrigo quale viceré del Nuovo Mondo, in America. E’ il mare a tenerli separati.
Ma Claudel già pone il significato del dramma nelle due citazioni del frontespizio: un proverbio portoghese «Deus escreve direito por linhas tortas», ed una espressione di Sant’Agostino: «Etiam peccata».
Questa è la domanda che si pone donna Prodezza: le linee storte, i peccati, l’amore per Don Rodrigo, «un simile desiderio mi è stato dato per il male?, una cosa tanto fondamentale come può essere cattiva?». Simile interrogativo tormenta anche don Rodrigo, cui viene rimproverato di chiedere in una sola volta il soddisfacimento del corpo e quello dell’anima: «E’ colpa mia se in me le due nature sono congiunte così fortemente da fare tutt’uno?».
La « Scarpina di raso »
La legge eterna del sacramento mentre unisce Prodezza a Pelagio, la divide però da Rodrigo, come il vasto oceano che copre l’orizzonte. Prodezza invoca l’aiuto del suo sorvegliante per impedirle la fuga verso l’amante «Custoditemi bene e io vi sarò molto grata»! Dì più! Ella si consacra alla Vergine consegnando le scarpine di raso: — «Impedite ch’io sia a questa casa di cui custodire la porte, augusta tornerà, una causa di corruzione!… Allora, mentre è ancora tempo, tenendo il mio cuore in una mano e la mia scarpina nell’altra,
Mi rimetto a Voi! Vergine madre, vi do la mia scarpina! Vergine madre custodite nella vostra mano il mio sventurato piede!
Vi prevengo che quanto prima non vi vedrò più e che sto per fare tutto contro di voi!
Ma quando tenterò di lanciarmi verso il male, sia con un piede zoppo! e quando vorrò sorvolare
La barriera che avete posta, sia con un’ala tarpata»! —. Anche Rodrigo riconosce il valore della legge, che neanche la più forte passione potrebbe rendere vana: «Se chiudessi gli occhi non distruggerei il sole»! Anch’egli è protetto, dalla preghiera di suo fratello, padre gesuita:
«Signore, non è così facile sfuggirTi e s’egli non viene a Te attraverso ciò che è chiaro, giunga a Te per quello che è oscuro; e se non viene a Te attraverso ciò che è diretto, giunga a Te per quello che è indiretto, e attraverso ciò che è semplice;
Attraverso ciò che è in lui numeroso, e laborioso e confuso,
E se desidera il male, sia un male tale che possa essere compatibile solo col bene,
E se desidera il disordine, un tal disordine che implichi la scossa e il crollo delle muraglie che gli sbarravano la salvezza,
Questo dico a lui e a codesta moltitudine ch’è con lui che egli coinvolge oscuramente.
Poiché egli è di quelli che possono salvarsi solo salvando tutta la massa che prende a loro forma dietro di loro.
E già Tu gli avevi insegnato il desiderio ma egli non sa ancora nulla di ciò che è essere desiderato».
Nessuno dei due però, pur di affrontare la sofferenza che ne consegue, vuol rinunciare alla passione, all’amore che li lega nonostante la separazione.
Già nel cammino delineato nelle Odi, Claudel aveva chiarito e superato questa tentazione: niente dell’uomo, pur povero e imperfetto, deve essere soffocato nell’incontro con Dio, anzi ad esso viene dato il giusto valore e il suo significato nel totale esistere dell’universo.
E’ un angelo che svela a Prodezza, mentre la solleva in cielo attraverso il purgatorio, il mistero del disegno di Dio su di lei e su Rodrigo. Questa rivelazione è perché la sua fedeltà, che mai era venuta meno, sia ora piena e cosciente. «Il cuore deve obbedire e non la volontà costretta materialmente da un ostacolo».
Tanto più facile e definitiva sarà l’adesione del cuore se saprà di essere uno strumento, un’esca per la «cattura» di Rodrigo. «Altro mezzo non v’era, per far comprendere il prossimo a quell’orgoglioso, di entrargli nella carne. Non v’era altro mezzo per fargli capire la dipendenza, la necessità e il bisogno, un altro su di lui, la legge su di lui di un altro essere differente per nessun’altra ragione se non ch’egli esiste».
E per questo etiam peccata, anche l’amore fuori dal sacramento serve, per suscitare il desiderio di ciò che esiste, che è eterno, attraverso l’illusione e la precarietà della propria immagine.
Così l’unione dei due amanti diventa pronta, disponibile a compiere una vera e propria funzione storica: l’unione del vecchio mondo con il nuovo: «E’ il desiderio che avvince la disperazione! E’ l’Africa che sopra i mari sposa le terre avvelenate del Messico».
Se la legge non ha permesso l’unione dei corpi, il disegno di Dio compie il desiderio degli uomini nella verità del loro destino; l’angelo perciò fa di Prodezza una stella in modo tale che l’altro non possa più desiderarla senza desiderare allo stesso tempo il luogo dove ella è, ed iniziare a percorrere le vie dirette dal Signore, riscattandosi dalla perdizione in cui era caduto.
Gli ultimi due drammi
Come ne L’annuncio a Maria alla fine la vita riprende a Montevergine per le nuove anime consacrate, così Le soulier de satin termina con una nuova speranza per il mondo: l’unione della figlia di Rodrigo con Giovanni d’Austria.
L’unione del cosmo, questo cammino dell’universo visto nella storia attraverso la decisione e l’avventura di persone che liberamente e fino in fondo si sono assunte questo compito, è anche l’argomento di due tra le ultime opere drammatiche di Claudel: «Le livre de Cristophe Coulomb» e «Jeanne d’are au Bucher».
Dapprima scettico sulla possibilità di rendere in dramma l’avventura di Cristoforo Colombo, successivamente, dopo contatti con Milhaud e J.L. Barrault, Claudel viene affascinato da questo personaggio: «E’ stato l’eroe di una idea che io avevo sempre avuta, questa idea dell’unificazione della terra, della riunione delle diverse parti sparse dell’umanità». Come nella celebrazione liturgica della notte di Pasqua, viene nell’opera rievocata la creazione della terra ancora informe e tenebrosa su, cui si libra lo Spirito di Dio come la Colomba portatrice di Cristo (Cristoforo Colombo), che si lancia verso le genti del nuovo mondo per annunciare la buona novella, in mezzo all’ingratitudine e alle critiche dei contemporanei.
Questo, in Claudel, è vero per tutto l’universo: l’amore a Dio, dentro la creaturalità in cui siamo, è il motivo del nostro compito; l’armonia, la comunione del piccolo particolare con il tutto, è la modalità di realizzazione del proprio destino.
Tutto questo Claudel non poteva non riconoscerlo nell’eroina che pienamente ha incarnato questo ideale nella storia della sua Francia. Giovanna d’Arco al rogo rappresenta la giovane, già legata al palo del supplizio, a cui Frate Domenico presenta il libro della vita scritto con la sua impresa. Come Cristoforo Colombo, anche Giovanna viene interrogata, ed ella confessa e professa che non con le proprie forze, ma con l’aiuto di Dio, che l’ha chiamata, ha sfidato la violenza del potere, della stoltezza, della superbia e dell’avarizia:
Giovanna «Gesù Maria! ho scritto questi due nomi sulla mia bella bandiera azzurra e bianca. Gesù! Maria! Ed io la piccina tra le ortiche e i bottoni d’oro, sì attonita che dimenticava di mangiare la sua tartina». Le Voci «Giovanna! Giovanna! Giovanna! Figlia di Dio, va’ va’ va’». Giovanna «Andrò! Andrò! Vado! Vado! Sono andata! Ov’è la mia valente spada? Vado! Vado! Sono andata!».
La risposta alla vocazione, contro ogni speranza, contro l’evidenza della propria incapacità e delle enormi potenze avversarie, è la prima grandezza di Giovanna, che la rende capace del compito storico: riunire la Francia riconducendo il re alla sede di Reims. «Il re non voleva seguirmi ed io ho preso il suo cavallo per la briglia». «Son io che l’ho condotto attraverso tutta la Francia!». «Son io che l’ho condotto a Reims!». «Son io che ho salvato la Francia! Son io che ho riunito la Francia! Tutte le mani della Francia in una sola mano! In tal mano ch’ella non sarà più divisa».
E Giovanna riconosce che «E’ Dio! E’ Dio! che ha fatto questo insieme con Giovanna!». Poiché se la sua debolezza era troppo inadeguata, «Vi è la speranza che è la più forte!… Vi è la fede che è la più forte!».
In questi eroi si può rispecchiare perfettamente l’opera di P. Claudel. Non costruttore di cattedrali, non condottiero, ma poeta, egli artefice della parola e dell’essere, ha ricondotto l’universo alla sua verità affermandone la incompiutezza e la tensione alla armonia suscitata dall’amore di Dio nella creazione e nell’opera salvifica di Cristo.
Tutto questo si svolge nella storia, si rivela nel ritmo del tempo scandito non da meccaniche misure, ma dal respiro; dal sospiro dell’uomo, della vita, del mare, dal moto dell’onda prende infatti la misura, la poesia di Claudel, quel «verset» che già aveva espresso i ritmi della presenza di Dio nella Bibbia. Ed è a questo libro che il nostro poeta si volge più volte negli ultimi anni.
In questo periodo la cattolicità francese viveva di labili rapporti; Mounier, Maritain, Mauriac, Green, Marcel, per citare i maggiori, si presentavano abbastanza isolati e forse con minor nettezza nei confronti della propria fede rispetto a Claudel.
Quest’ultimo, inoltre, rimasto a lungo poco conosciuto attraverso i testi letterari deve attendere gli anni quaranta, quando le regie di J.L. Barrault e di Jean Vilar, faranno uscire le sue opere dai teatri ristretti degli intellettuali, facendole conoscere al grande pubblico con enorme successo.
La profonda caratterizzazione personale con cui Claudel ha dato forma alle sue opere, ai suoi temi e alla modalità espressiva, ha reso impossibile ogni imitazione. Ma proprio quando l’arte occidentale si stava soffocando tra una riproduzione distanziata della realtà e l’espressione sempre più isolata del proprio io, Claudel, partito dal simbolismo, sconvolge ogni schema riportando l’arte alla sua responsabilità di conoscere e di rivelare il significato della realtà, descrivendola realisticamente in ogni particolare.
L’eredità di Claudel è così l’indicazione di un compito, il richiamo ad una responsabilità e una proposta perché l’arte nella specificità delle forme e della metafisica occidentale possa rinascere.
Per comprendere e realizzare tale funzione non occorreranno nuovi schemi, ma il tempo e la disponibilità, poiché: «Si l’ordre est le plaisir de la raison, le desordre est le delice de l’imagination».
BIBLIOGRAFIA
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