Padre Pavel Florenskij brilla nella storia della cultura russa di questo secolo come uno dei pensatori più attenti ai segni dei tempi e alle novità, e brilla ancora, con la sua mente di matematico, per l’incredibile attenzione all’ordine della forma. Potrà sembrare strano allora che all’inizio degli anni Venti, in un momento così tragico per la Chiesa russa e per tutto il paese, abbia voluto dedicare un articolo al tema della cultura e abbia poi dato in esso ampio spazio al problema ecumenico: un tema apparentemente astratto e teorico, sviluppato con un fuori tema ancor più teorico, quale potrebbe sembrare appunto il discorso sull’ecumenismo. Ma padre Florenskij era anche un mistico, cioè un maestro di quella suprema esperienza di unità e di integrazione che è la vita con Dio, e questa esperienza lo rendeva capace di apprendere e poi di comunicare nessi a prima vista sfuggenti e inessenziali, in realtà però concreti ed essenziali, come concreto ed essenziale è per il cristiano quel rapporto con Dio che la tradizione chiama vita mistica.
In un tempo tragico e decisivo per il destino dell’uomo, Florenskij sembra allora suggerire che il problema dell’uomo è il problema culturale, perché come è stato ripetuto più volte in questi anni «l’uomo vive una vita veramente umana grazie alla cultura» e «la cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo» (Giovanni Paolo II, Allocuzione all’Unesco del 2 giugno 1980). Ma se è vero, come ci insegna tutta la tradizione cristiana d’Oriente e d’Occidente, che l’uomo non ha senso nel mondo se non come immagine e somiglianza di Dio, sarà evidente anche che il problema della cultura, il problema della capacità di dare un senso unitario alle cose, è il problema dell’unità di quel Corpo — la Chiesa — che di quell’immagine vive in maniera privilegiata.
Scritto più di sessant’anni fa, l’articolo di Florenskij giunge dunque all’essenziale così da poter sembrare «scritto soltanto oggi», come ricorda in una sua fine nota lo ieromonaco Andronik, che ha curato l’edizione russa (Zurnal Moskovskoj Patriarchii, 1983, n. 4, pp. 52-57) del testo di Florenskij, già pubblicato in inglese nel 1924 e qui tradotto per la prima volta da Adriano Dell’Asta.
La divisione in paragrafi è dell’originale russo, i sottotitoli sono invece redazionali.
L’epoca storica testé conclusasi è caratterizzata dal fatto di essersi totalmente allontanata dagli interessi spirituali superiori e dalla cultura spirituale integra. Nello stesso tempo, però, essa è caratterizzata anche dal fatto che un po’ dappertutto riappare la loro esigenza e sempre più chiaramente si riconosce che l’umanità e la sua cultura sono destinate a dissolversi se non si lasciano determinare dai superiori fini dello spirito.
La situazione in cui è venuto a trovarsi il mondo della cultura non è però qualcosa di casuale o che si sarebbe prodotto da un giorno all’altro, è piuttosto l’esito inevitabile dell’indirizzo che questo mondo ha seguito ormai da diversi secoli, sforzandosi in ogni modo — nella maggioranza dei casi in maniera non pienamente cosciente — per erigere un muro tra sé e la Fonte della vita eterna.
Ora, proprio il lungo protrarsi di questo processo dissolutivo, se per un verso rende particolarmente grave il malessere dell’umanità, per un altro verso consente anche di comprendere chiaramente la natura della malattia e di confidare quindi nella possibilità di curarla.
2) La riduzione moralista
Si può avere il caso di una rivolta contro Dio, diretta e palese, il tentativo di proclamarsi indipendenti da Dio e di considerarsi quindi suoi nemici. Si ha allora una sorta di infezione spirituale acuta che conduce o a una rapida catastrofe o, al contrario, a un’altrettanto rapida guarigione che lascia però un senso di profondo imbarazzo nell’anima che si chiede come sia stata possibile questa rivolta.
Ma si da anche il caso in cui il contagio dello stesso veleno produce una sorta di infezione cronica e allora l’uomo, che pure non si considera ancora separato da Dio e che anzi, da un punto di vista formale, continua ancora a difendere la religione, comincia di fatto, passo dopo passo, a cercare di strappare alla religione degli ambiti in cui far valere la propria autonomia e finisce quindi col sottrarre alla religione stessa le corrispondenti sfere dell’esistenza, come se fossero degli aspetti inessenziali, capitati nella sfera d’influenza della religione in maniera storicamente casuale.
Uno dopo l’altro, la religione si vede sottrarre i più diversi settori dell’attività umana finché da ultimo non si arriva alle verità fondamentali dell’ontologia religiosa sulle quali si regge la morale cristiana. Quando nella coscienza comincia a venir meno anche questo fondamento e la religione viene ridotta alla morale, la morale stessa cessa di essere qualcosa di vivo e di vitalmente ispirato dal bene per diventare invece una serie di regole esteriori di comportamento, prive di qualsiasi nesso e perciò del tutto casuali.
Non si può parlare qui di un’autodeterminazione morale, ma solo di una morale farisaica il cui destino è evidentemente segnato. La logica della storia ci ha posti di fronte a un dilemma ineludibile: o rinunciare a quell’ultimo residuo di cristianesimo che è «la morale cristiana», o rinunciare a tutto il corso della precedente cultura anticristiana e riconoscere francamente che un Dio, al quale siamo disposti a concedere in noi stessi e nella nostra vita solo un angolino per lasciare poi che tutto il resto se ne vada per «la sua strada» (At 14, 16), non è già più nella nostra coscienza Dio.
3) La riduzione scientista
Gli errori della recente evoluzione culturale non dipendono dai peccati degli esponenti della cultura. Ben sappiamo infatti che «l’uomo non può essere vivo e non peccare» (3 Esd 8,35). E già in partenza sappiamo che, quale che sia l’evoluzione futura della cultura, ciascuno di noi continuerà a peccare e a cadere, e anche, in certi periodi, a cadere fino a staccarsi da Dio. E sappiamo pure che la peccaminosa affermazione della nostra autonomia pervade tutto il nostro essere e rischia di essere il motore nascosto di ogni nostra azione.
Ma l’errore fondamentale della recente evoluzione culturale consiste appunto nell’aver considerato naturale, e perciò giusto, questo stato della nostra natura. In tal modo, la cultura non solo non si oppose al peccato, ma arrivò addirittura a far impazzire la bussola della coscienza, giustificando l’autonomia.
Come è noto, a Napoleone che gli chiedeva perché nei Principia di Newton si incontrasse il Nome di Dio e nella Mécanique Celeste no, Laplace rispose: «Non avevo bisogno di questa ipotesi», esprimendo così, nella maniera più esatta possibile, lo spirito stesso della cultura europea moderna. Per questa cultura, in effetti, Dio non è quella Persona viva senza la quale «niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1, 3), non è quella Verità al di fuori della quale non v’è alcuna verità, ma solo un’ipotesi, l’ipotesi con la quale si rattoppano i buchi del nostro sapere e in generale della nostra cultura. Quanto più alta sarà la cultura, tanto meno vi sarà posto in essa per questa ipotesi.
Una cultura giunta al suo pieno compimento deve essere del tutto priva di Dio. Per la cultura della modernità, la Persona cui l’anima mia anela, «come la cerva anela ai corsi d’acqua» (Sai 42, 2), lo Sposo dell’anima umana, è soltanto un insopportabile concetto astratto, l’altro nome per dire l’imperfezione della nostra cultura, concetto che sarà tollerato solo finché la cultura sarà ancora effettivamente incompiuta (…).
4) La riduzione filosofica
La struttura della cultura è determinata dalla legge spirituale proclamata da Nostro Signore: «Dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Le 12, 34). Il tesoro è il bene spirituale, ciò che noi poniamo come significato oggettivo e giustificazione della nostra vita. Il cuore, nel linguaggio biblico, indica il centro in cui si raccolgono tutte le nostre forze e facoltà spirituali, il nodo che da connessione e unità alla nostra persona.
Il Salvatore dice che la nostra persona, e quindi tutte le sue manifestazioni, sono interamente determinate dal nostro tesoro. Così, la nostra conoscenza è determinata da ciò che affermiamo essere la Verità, a dispetto di quello che sostiene la filosofia kantiana centro della modernità, per la quale non è la Verità che determina la nostra coscienza, ma è anzi la nostra coscienza che determina la Verità. Le culture dei tempi moderni, con la loro proclamazione dell’autonomia dell’uomo, hanno posto come «tesoro», come oggetto di fede insindacabile, noi stessi.
Al posto di Dio venne eretto un idolo, l’uomo che si autodivinizza; a quel punto divenne inevitabile anche tutta l’evoluzione successiva della cultura, che cominciò a giustificare indiscriminatamente ogni autodivinizzazione umana.
5) La riduzione storicista
Ci siamo così abituati a credere nella cultura invece che a Dio che la maggioranza della gente non è più capace di distinguere tra il concetto di «cultura» e quello di «cultura del nostro tempo», così che l’accenno alla necessità di mutare il corso della cultura viene preso come un’esaltazione della vita dei trogloditi. Storicamente questa confusione è profondamente errata perché la cultura ha avuto e può avere delle forme assolutamente diverse.
La maggior parte delle culture, per esempio, conformemente alla etimologia di questo termine (cultura è ciò che si sviluppa a partire dal cultus), fu proprio la maturazione del seme della religione, l’albero di senape nato dal seme della fede. Questo fatto storico viene tranquillamente accettato da quasi tutti gli studiosi e la sua validità viene estesa a tutte le religioni e, bontà loro, anche al cristianesimo, nella misura però in cui viene considerato esclusivamente come un fatto storico. Il cristianesimo attuale, invece, per i nostri contemporanei è privo di una forza genetica anche solo in parte uguale a quella delle altre religioni.
Ed è ben difficile non sentirsi profondamente pervasi da un oscuro senso d’angoscia quando si sente una così gran massa di dottrine contemporanee atteggiarsi favorevolmente nei confronti del cristianesimo, e poi però proclamare senza mezzi termini l’impotenza del cristianesimo, la sua incapacità di divenire l’albero della vita, e la necessità in cui esso si troverebbe di lasciare che tutti gli ambiti della vita, tranne quello della coscienza intima, siano interamente dominati da un modo d’agire a sé, determinato dagli elementi di questo mondo (Col 2, 8).
Sono atteggiamenti questi ben più desolanti di una franca professione di ateismo che per lo meno è un’espressione d’odio e riconosce dunque una certa forza. Dottrine teologiche di questo tipo non sono altro che commemorazioni funebri del cristianesimo, pronunciate quando ormai s’è completamente sedato il fragore della battaglia e quando dunque non costa più nulla pronunciare una parola d’encomio anche per l’avversario sbaragliato.
Queste dottrine, che lodano il cristianesimo e nello stesso tempo gli sottraggono tutti i settori dell’esistenza, finiscono per annullarlo anche come nostra dimensione interiore: infatti se il cristianesimo viene espulso da tutti gli ambiti della vita in base al fatto che ciascuno di questi ambiti è regolato dalla propria autonomia e cioè dalle leggi di questo mondo che sono estranee alla spiritualità, è evidente che lo stesso principio dovrà valere anche per la vita della nostra anima, che è anch’essa soggetta alle proprie leggi, che è anch’essa autonoma e non può concedere dunque alcuno spazio alla grazia. Se il mondo è in tutto e per tutto autonomo ciò significa che è in se stesso assolutamente incrollabile, cioè che è lui stesso Dio.
6) La trasfigurazione della cultura
«Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6, 24). La fede in Dio non ammette la fede in un mondo a sé stante e non considera il «mondo» un’essenza ma solo uno stato. Se in noi resta anche soltanto una scintilla della fede in Cristo, non potremo non riconoscere che «passa la figura di questo mondo» (1 Cor 7, 31) e che in virtù della forza del Cristo essa viene trasfigurata nella figura di Cristo.
Questa figura di Cristo è innanzitutto il principio della religione cristiana preso in tutta la sua efficacia, è poi la cultura cristiana e, da ultimo, la consacrazione della natura. Nessuno dei vari ambiti dell’esistenza — l’arte, la filosofia, la scienza, la politica, l’economia, ecc. — può essere considerato un’essenza a sé stante, si tratta soltanto di figure che assumono sì, veramente, le forme dettate dalle leggi di questo mondo, ma solo in certi momenti e in certe condizioni, e cioè solo quando e solo nella misura in cui la cultura complessivamente presa rifiuta di strutturarsi secondo la figura del Cristo.
Nell’ambito della cultura se non si è con Cristo si è inevitabilmente contro il Cristo, perché nella vita non v’è e non può esservi alcuna neutralità in rapporto a Dio. Il cristianesimo non può essere passivo di fronte al mondo e non può assumerne indifferentemente qualsiasi elemento, come se fosse qualcosa che va comunque bene di per sé.
Lo spirito non può essere passivo: può accogliere ogni cosa e di ogni cosa servirsi ma solo dopo averla trasfigurata secondo la figura del Cristo. Il cristianesimo occidentale dell’età barocca commise un errore fondamentale quando cercò di assimilare alcuni frammenti grezzi della cultura anticristiana e, senza spiritualizzarli dall’interno, cercò di dar loro una patina esteriore di devozione o di imbellettarli con una vaga tinta ecclesiale.
L’azione scientifica e culturale dei gesuiti può essere degna di grande rispetto per la sua intenzione di dare al cristianesimo una cultura cristiana. Ma è profondamente sbagliata perché non da costruzioni solide e autentiche ma solo una serie di scenografie d’apparato e di montagne di cartapesta: una simile pseudocultura può essere edificata solo per stupire degli ingenui scolaretti, ma non certo per essere effettivamente messa in pratica.
L’umanità contemporanea ha bisogno di una cultura cristiana, non posticcia ma seria, realmente di Cristo e realmente cultura. Comunque sia, ciascuno di noi non può più fare a meno di decidere una volta per tutte se davvero vuole e ritiene possibile una cultura di questo tipo. Se la risposta è negativa, non vi sarà più alcuna ragione di parlare del cristianesimo e di ingannare se stessi e gli altri con oscure speranze in qualcosa che è del tutto inattuabile.
E allora avrà ragione chi esige che ci si sforzi per costruire qualcosa di diverso. E allora saranno sciocche e inutili tutte le proteste contro la negazione degli ideali della morale cristiana, perché senza la fede cristiana questi ideali sono soltanto delle vane fantasie che, in quanto tali, possono solo essere d’ostacolo alla vita autentica: «Se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede … mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» ( 1 Cor 15, 17. 32).
7) L’unico Cristo cuore del problema culturale
La cultura, sia nelle sue linee guida più fondamentali sia nei suoi particolari più minuti, è sempre determinata dall’orientamento della nostra coscienza, cioè dalla stella polare che decidiamo di seguire per scegliere il nostro posto nel cammino della vita. Il mondo cristiano vuole porre a fondamento della propria coscienza il Cristo, Figlio di Dio, venuto nella carne.
Ma, sia che lo voglia sinceramente, sia che lo proclami solo formalmente, nella maggior parte dei casi non vuole e neppure capisce che è necessario imparare a volere. Dopo aver formalmente proclamato l’orientamento della coscienza al Cristo, i credenti di tutte le confessioni ritengono ancora ammissibile seguire i propri desideri secondo la figura di questo mondo e consacrano i loro sforzi alla costruzione non della città di Dio ma della torre di Babele.
Di fronte a quella che appare come la questione di gran lunga più importante e decisiva per la salvezza, e cioè l’orientamento di fondo della coscienza al Cristo, ogni disaccordo particolare tra i cristiani passa in secondo piano, così come passa in secondo piano, per un altro verso, anche quando è considerato nel quadro complessivo del servizio che i cristiani rendono di fatto a questo mondo. In questo senso, sia che si innalzino verso le vette sia che si sprofondino negli abissi, i cristiani comunque si avvicinano sempre più gli uni agli altri.
Se i cristiani di una confessione credessero nella sincerità dell’orientamento al Cristo dei cristiani delle altre confessioni, è probabile che non vi sarebbero più divisioni, il che non significa però che scomparirebbero anche le differenze.
E viceversa, non vi sarebbero più divisioni religiose anche nel caso in cui si arrivasse a considerare l’orientamento cristiano come una mera sopravvivenza del tutto impotente e per nulla vincolante. Ma i cristiani continuano a dividersi e a lottare gli uni contro gli altri appunto perché non credono nella sincerità dei reciproci orientamenti cristiani ma non arrivano ancora a negare in linea di principio il valore dell’orientamento stesso.
E questo è vero non solo per le diverse confessioni, ma anche per le diverse correnti all’interno delle singole confessioni, e addirittura per i rapporti tra i singoli cristiani. Il mondo cristiano è preso nelle catene di una reciproca diffidenza, fatta di sentimenti ostili e di inimicizia. È arrivato a corrompersi sin nel suo stesso fondamento, poiché è privo dell’operosità del Cristo e nello stesso tempo non ha il coraggio e la sincerità di riconoscere la corruzione della propria fede.
Ci si attarda compiaciuti a discutere di particolari, di sottigliezze e della scrupolosa fedeltà alle formule dogmatiche, al rito e alle leggi canoniche, si discute senza fine e non si riesce mai a trovare un accordo su niente. E non è forse evidente che l’infecondità di tutte queste discussioni dipende dal fatto che ci si accosta alle questioni di fede non dall’interno, come credenti, ma dall’esterno, come archeologi e che in tal modo, perdendo il senso della realtà spirituale, si finisce inevitabilmente col diventare ciechi, del tutto incapaci di abbracciare l’intero?
Tutto si può dire dei teologi del nostro tempo tranne che parlino «come uno che ha autorità» (Me 1, 22). Ma se riconosceranno essi stessi di non avere autorità come potranno osare di mettersi a discutere di questioni che possono essere risolte solo in forza dell’autorità?
Nessuna cancelleria ecclesiastica, nessuna burocrazia e nessuna diplomazia potrà mai creare l’unità della fede e dell’amore là dove tutto ciò non esiste. Tutte queste giunture esteriori non solo non danno unità al mondo cristiano ma anzi non possono far altro che rivelare ancor più profondamente l’isolamento delle varie confessioni.
Dobbiamo riconoscere che l’autentica causa della divisione che affligge il mondo cristiano non è data da certe particolari differenze di dottrina, di rito e di struttura ecclesiale ma da una profonda e reciproca diffidenza in ciò che è fondamentale, e cioè nella fede in Cristo, Figlio di Dio, venuto nella carne.
E dobbiamo riconoscere che questi sospetti non sono del tutto infondati poiché la fede si è effettivamente svigorita in quelli che sono i suoi fondamenti spirituali più decisivi, come risulta evidente tra l’altro da quello che è il frutto dell’incredulità, la cultura anticristiana. E questo vale non per certe confessioni prese isolatamente, ma per tutto il mondo cristiano nel suo complesso, che attualmente è sì unito ma nel segno di un’identica caduta di fede.
Di fronte all’attuale crisi del cristianesimo, tutti coloro che si fregiano del nome cristiano non possono fare a meno di imporsi un compito ultimativo e di pentirsi «con un solo animo e una voce sola» (Rm 15, 6), invocando: Signore, «aiutami nella mia incredulità» (Me 9, 24). E allora il problema della riunificazione del mondo cristiano uscirà finalmente dal chiuso delle cancellerie all’aria aperta, e ciò che è difficile e impossibile per gli uomini si rivelerà del tutto possibile per Dio.
8) L’unità autentica è un Corpo concreto
Ciò non significa che le forme concrete della vita ecclesiale, le formule, il rito, i canoni, la struttura ecclesiastica siano qualcosa di non importante e che dovrebbe essere messo da parte in nome della riunificazione. Innanzitutto chi non rispetta le forme concrete che caratterizzano la vita religiosa della propria confessione non saprà rispettare neppure le forme delle altre confessioni, e allora la riunificazione si rivelerà falsa e pregiudizievole proprio per quella vita religiosa per la cui pienezza gli uomini si erano tanto affannati nella ricerca dell’unità.
E se si proseguirà per la stessa strada non sarà difficile riunificare anche tutta l’umanità in una certa qual vacuità umanistica. L’umanità però non ha bisogno di un’unità a sé stante, raggiunta a ogni costo, ma piuttosto di una vita nella verità e nell’amore.
Il conseguimento della verità religiosa, inoltre, non si da in maniera astratta, ma si realizza in un ambiente concreto e traboccante di vita. In quanto appartengo a una ben determinata confessione è naturale per me ritenere che gli ordinamenti della mia Chiesa siano in grado di organizzare la vita autentica; ed è ovvio che ingannerei la mia Chiesa o i credenti delle altre confessioni se, a un certo punto, in nome dell’unità, per leggerezza o per motivi tattici, cominciassi a contestare proprio i suoi ordinamenti.
Ma è ugualmente chiaro d’altro canto che, riconoscendo la loro importanza, finirei per violare il comandamento cristiano dell’amore se, come condizione assoluta dell’unità, cominciassi a porre l’esigenza che tutte le altre confessioni assumano come proprie le forme concrete di vita religiosa che caratterizzano la mia Chiesa.
Se sono fermamente convinto che una determinata coscienza è sinceramente orientata verso il Cristo, e le rende possibile e anzi necessario il riconoscimento reciproco e l’unità, perché tutta la vita concreta fiorisce dai germogli, di lì e soltanto di lì, mentre tutto il resto dipende dal clima e dal terreno sul quale è cresciuto il seme della fede.
Ma le discordanze e le differenze saranno comunque inevitabili. In primo luogo, a causa del diverso livello di maturazione spirituale: alcune confessioni possono non essere ancora arrivate a certe forme di vita religiosa e nutrirsi «di latte e non di cibo solido» (Eb 5, 12). Non è proprio il caso qui di ingannare se stessi e di cercare di sviare l’attenzione da queste differenze di maturità spirituale e culturale, che esistono tra l’altro anche all’interno della stessa confessione, e persino in una stessa famiglia e fra le persone intellettualmente più vicine.
Ma queste differenze non dicono ancora nulla contro la possibilità di un riconoscimento reciproco, perché un bambino o un ragazzo, che capiscono poco di quello che è chiaro invece a un anziano, non sono meno necessari sulla terra e graditi a Dio di quanto lo sia quest’ultimo.
Quando poi si tratta di incomprensioni è chiaro che bisogna lasciare tempo al tempo. In secondo luogo, sia nel cristianesimo preso nel suo complesso sia nelle singole confessioni, vi sono delle differenze che dipendono dalla razza, dalla nazione, dal temperamento, dalle diverse esperienze storiche ecc. In questo caso a una confessione che vive secondo certe forme se ne contrappone un’altra che ha forme diverse.
Si hanno allora delle forme confessionali inconsuete, che possono anche apparire organicamente estranee e incomprensibili le une alle altre; è ovvio che in questo caso sarebbe ipocrita e ingiusto far proprie queste forme estranee. Ma anche in questo caso non v’è motivo per concludere alla necessità di un reciproco mi-sconoscimento.
La vita sobornica della Chiesa universale non è la somma delle vite dei singoli uomini e neppure di quelle delle singole Chiese: l’intero è maggiore della somma delle parti. Come l’organismo di un singolo uomo, grazie ai due diversi occhi, ciascuno dei quali è fornito di un proprio punto di vista, vede qualcosa di qualitativamente diverso da quello che potrebbe vedere se guardasse prima con un occhio e poi con un altro, così le differenze di struttura e di funzionamento dei diversi organi del Corpo di Cristo gli danno la possibilità di manifestazioni vitali che sarebbero invece inaccessibili nel caso di un’assoluta uniformità: «È necessario infatti che avvengano divisioni» (1 Cor 11, 19).
L’occhio non assomiglia affatto alla mano, e la sua struttura gli è del tutto estranea. Ma non per questo può dire alla mano: «Non mi servi»; così come d’altro canto neppure la mano può dire all’occhio, la cui struttura le è altrettanto incomprensibile, «Non mi servi».
Il fatto è che in un organismo sano tutti gli organi, ciascuno con la propria funzione differente dalle funzioni degli altri, vivono in pieno accordo tra di loro, avendo bisogno di uni negli altri e tutti concorrendo a servire un unico organismo. L’identica vita che li pervade li induce ad aver fiducia gli uni degli altri, anche quando non capiscono le funzioni e la struttura altrui, e da loro la certezza di essere guidati e vivificati da un’unica anima, grazie alla quale appunto tutti sussistono.
La malattia di uno si ripercuote su tutti gli altri, e quando si scopre che quasi tutti gli organi sono malati ciò significa che anche i restanti lo sono. A chi non capisce la vita dell’intero organismo può sembrare che, dal punto di vista di un certo organo, ve ne siano degli altri che funzionano in maniera chiaramente sbagliata.
Non è forse da questo restringimento della coscienza che è nata l’idea di un’inimicizia fra le nostre due gambe, che quando camminiamo fanno l’una il contrario di quello che fa l’altra? E invece è proprio questo loro antagonismo a costituire la condizione necessaria perché l’intero organismo possa camminare, mentre è evidente che se le gambe agissero sempre e contemporaneamente nello stesso modo non si potrebbe avere altro che una perenne fissità o una goffa serie di salti.
Le differenze confessionali non devono certo essere smussate in nome dell’unità; anzi è estremamente importante che queste differenze vengano chiaramente individuate. Ma ciò nonostante, se saremo veramente animati da una fiducia e da un amore sinceri — non innanzitutto gli uni verso gli altri, perché tutti noi possiamo sempre ingannarci, ma nei confronti di Colui che vive nella Chiesa universale e ne è la guida — è evidente che queste differenze non saranno per noi motivo di ostilità ma ci suggeriranno piuttosto l’idea della solidarietà del mondo cristiano e ci ispireranno un senso di devozione per i piani della Provvidenza.
Noi sappiamo che lo Spirito è Uno e i doni molti. Ma questo sapere ci resta come estrinseco e noi continuiamo a considerare come autentico dono dello Spirito solo ciò che ci è consueto, mentre tutto il resto lo sottovalutiamo quando poi non arriviamo addirittura a escludere che sia un frutto dello Spirito.
V’è nel nostro tempo un peccato comune a tutte le confessioni, che consiste appunto nella dimenticanza del termine «cattolico», cui nel migliore dei casi viene attribuito un significato estensivo e quantitativo mentre l’espressione katholikos indica innanzitutto qualcosa di intensivo e di qualitativo. Il cristianesimo è «cattolico» perché «tutto è stato fatto» (Gv 1, 3) per mezzo del Verbo Preeterno di Dio e quindi l’orientamento della coscienza al Cristo implica la pienezza e l’infinità delle manifestazioni.
«Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto» (Gc 1,17). La resistenza a riconoscere nella Chiesa la Pienezza stessa è un’eresia e una forma di settarismo, quale che sia la confessione in cui simili resistenze prendono voce. Ogni singolo credente, come ogni singola parrocchia, diocesi, Chiesa e confessione, presa nella sua singolarità, ha i caratteri della limitatezza e quando si afferma in questa sua limitatezza assume inevitabilmente le forme di una setta; al contrario, la coscienza della propria limitatezza e la conseguente aspirazione a completare il proprio dono con i doni altrui, presenti al di fuori di un dato gruppo, da un carattere di «cattolicità» alle diverse confessioni.
9) L’antinomia di identità e diversità
È del tutto naturale che una mezza fede, timorosa di precipitare in una piena mancanza di fede, si aggrappi piena di paura alle forme della vita religiosa e, non sapendo vedere in esse la cristallizzazione delle manifestazioni dello Spirito e della Verità, finisca poi per considerarle alla stregua di norme di una legislazione giuridica.
Avrà allora con esse un rapporto puramente esteriore e guarderà a esse non come a una finestra che ci fa pervenire la Luce del Cristo ma come alle esigenze convenzionali di un’autorità esteriore. La coscienza cristiana sa perfettamente che le istituzioni ecclesiastiche non sono casuali e ci vengono anzi offerte dalla Chiesa, nella sua bontà, come uno strumento di salvezza; per una comunità cristiana è questa in effetti la regola e la condizione di una sana vita spirituale.
Ma la coscienza cristiana d’altra parte, non perde mai di vista il fatto che certe prescrizioni di igiene spirituale in determinate condizioni possono essere sostituite da altre: la fedeltà agli ordinamenti ecclesiastici secondo quella che è la loro essenza interiore — contribuire alla salvezza — in qualche caso può portare a essere infedeli alla loro lettera, così come la fedeltà alla lettera può contraddire la loro essenza spirituale.
Nell’antinomia della legge e della libertà, che costituisce il tessuto del Nuovo Testamento, nessuno dei due termini deve essere fatto passare in secondo piano: il sabato è veramente santo, ma il Figlio dell’Uomo è Signore del sabato. Per il cristianesimo, una sconsiderata negazione del sabato può essere altrettanto dannosa del mancato riconoscimento della libertà cristiana, e solo la grazia di poter passare attraverso entrambi i poli di questa antinomia definisce il cristiano autentico.
Al contrario, la perdita o l’inaridimento della vita di grazia porta inevitabilmente alla rottura di questa antinomia. Il mondo cristiano, così, in tutte le sue confessioni, si è scisso in un nuovo sadduceismo e in un nuovo farisaismo. Ed è solo penetrando profondamente con uno sguardo di fede nelle forme concrete della vita religiosa, che le varie confessioni potranno avere la possibilità di liberarsi dall’uno e dall’altro.
Le forme della vita religiosa devono essere interpretate appunto come manifestazioni della vita e noi non dobbiamo fare altro che decifrare questi geroglifici della ragione sobornica della Chiesa universale e farli nostri come espressione della ragione di Cristo. E allora ci diventerà chiaro che tutto ciò è stato scritto a nostra edificazione dall’Unico Legislatore e non può essere arbitrariamente modificato, così come non può essere annullata nessuna delle altre scritture.
L’ostilità delle varie confessioni nei confronti di questi simboli sacri delle altre confessioni si fonda su un modo assolutamente non spirituale di accostarsi ai simboli stessi. Ma affrontare in maniera non spirituale ciò che è spirituale non è forse un errore grossolano? E non porta inevitabilmente a una pericolosa ignoranza?
10) La metanoia presupposto dell’unità
L’unità del mondo cristiano, dunque, può essere resa possibile solo da un «cambiamento del modo di pensare» (metanoia) e di giudicare, innanzitutto all’interno della propria confessione. Chi cerca di immedesimarsi spiritualmente nella propria confessione e di essere veramente un figlio leale della propria Chiesa, per ciò stesso si troverà immediatamente unito in Cristo anche agli altri cristiani. In Cristo, appunto, perché solo questa unità può essere effettivamente salvifica. Non abbiamo bisogno di coalizioni artificiose costruite su calcoli umani.
A dire il vero, per spiegare le differenze, oltre alle cause indicate più sopra, se ne può addurre anche una terza: il semplice errore. Ma le vie del Signore sono imperscrutabili, e nell’edificazione della Chiesa universale anche gli errori, a volte, possono avere un loro significato. A parte questo però, né il singolo credente, né la singola confessione debbono sentirsi chiamati a considerare come una verità l’errore altrui, ciò che sarebbe una violazione della propria coscienza.
Finché permane un sincero orientamento al Cristo v’è motivo di sperare che questo errore sia temporaneo e possa essere corretto a tempo debito. Spesso simili errori possono trovare un terreno favorevole in una chiarificazione non del tutto piena di certe verità essenziali da parte di chi questi errori non condivide, e in questo senso gli errori stessi possono portare a un ulteriore chiarimento della verità.
Invece di una apologetica difensiva, le varie confessioni hanno tutte bisogno di spiegare o di chiarire positivamente il significato delle loro speranze ed è a quel punto, evidentemente, che diventeranno più comprensibili le une alle altre e tutte ai non credenti, più comprensibili, s’intende, di quanto sarebbero se cercassero di difendere le proprie posizioni attraverso la denunzia delle contraddizioni e dei paralogismi contenuti negli argomenti degli avversari.
In particolare, l’ateismo può trovare spunti favorevoli nel mancato sviluppo di quelle idee sulla natura dell’uomo e su tutte le creature che sono implicitamente contenute nella fede in Cristo. Una concezione del mondo che non dica nulla di questi problemi fondamentali non può che destare sfiducia in tutti coloro che bene o male, ma comunque sinceramente, dedicano ogni attenzione e forza proprio a tali questioni.
Oltre tutto è assolutamente evidente che il cristianesimo ha qualcosa da dire a questo proposito, così come è evidente che esso ha ben chiaro quali siano gli obblighi dei cristiani nei confronti delle creature.
Tuttavia, anche dopo tutte queste chiarificazioni, possono esserci e di fatto ci saranno dei casi di accanita inconciliabilità e di presuntuosa volontà di isolamento. È però chiaro che a questo punto non si potrà più parlare di orientamento della coscienza a Cristo anche se si arrivasse a prendere proprio il Cristo come pretesto di azioni aggressive.
Comunque sia, le divisioni e l’inimicizia si ridurrebbero se il mondo cristiano facesse proprie le parole dell’apostolo che disse a questo proposito: «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone» (Rm 14,4). E non v’è alcun motivo per limitare l’applicazione di queste parole a un solo «servo» e per non estenderla invece all’intera comunità dei servi.
11) La vocazione all’unità
Nel mondo cristiano deve ormai risuonare un appello al pentimento, un appello che chiami a passare dalla mezza fede alla fede intera e dalla Torre di Babele alla Città di Dio. Tale appello non costringe nessuno ad abbandonare le forme concrete che caratterizzano la sua confessione, ma chiama soltanto ciascuno di noi ad approfondire la propria fede e una sola cosa ci suggerisce: l’attività spirituale.
L’enorme pericolo che incombe su tutti noi, e minaccia tutto ciò da cui pensiamo di poter attingere forza, deve costringere i cristiani a porsi con senso di responsabilità di fronte a questo appello, per il loro bene immediato e per il bene futuro dei loro figli. Non di rado ci capita di essere in disaccordo su cose di infima importanza, quando invece il nostro tempo è di quelli in cui, se davvero si vuole salvare ciò che è fondamentale, bisogna passar sopra a motivi di divisione anche di primaria importanza.
Diciamo di essere ricchi, ma in realtà siamo poveri, perché le opere della nostra cultura ci rendono evidente l’autentico orientamento della nostra coscienza, che è un orientamento anticristiano. Lasciamo dunque da parte queste chiacchiere vanagloriose sulla nostra ricchezza e rendiamoci chiaramente conto che gli enormi tesori della Chiesa universale possono sì diventare nostri attraverso il Cristo, ma di fatto non sono assolutamente una nostra proprietà.
Senza rinunciare a nulla di ciò che è proprio a ogni singola Chiesa, i cristiani devono issare, innanzitutto, il vessillo del cristianesimo e mostrarlo come un appello al mondo cristiano perché impari a conoscersi e sappia finalmente edificare una cultura cristiana; e attorno a questa bandiera si riunirà allora tutto il gregge di Cristo.
Non può e non deve essere troppo complicato questo vessillo: vi devono essere riunite solo quelle peculiarità spirituali senza le quali non vi sarebbe più alcun motivo per chiamarsi cristiani. Si tratta di esigenze minime, e non possono non sembrare poca cosa rispetto alle dottrine così elaborate delle singole confessioni.
Ma attualmente solo un compendio estremamente succinto della fede cristiana, come appunto è questo, può permetterci di concentrare la nostra attenzione su ciò che è più fondamentale, lasciando dunque da parte tutti gli altri problemi, che possono anche essere importanti, ma vengono tuttavia in seconda o addirittura in terza istanza, e poi sono tali che comunque oggi il cristianesimo ben difficilmente sarebbe in grado di risolverli concordemente, così che sarebbe ben poco ragionevole e addirittura criminale attardarsi attorno a questi problemi proprio mentre si è in cammino verso una confessione unanime del Cristo come Figlio di Dio venuto nella carne (…).
12) II compito futuro
Se fosse possibile instaurare un rapporto di reciproca fiducia e stabilire un sincero accordo attorno alle non molte tesi proposte da L.M. Lopatin (1) è sicuro che si aprirebbero delle nuove strade per la futura unificazione delle diverse confessioni, e nello stesso tempo alcune confessioni diventerebbero una sorta di naturale punto di incontro e di unità con altre confessioni, imparentate a loro volta da diverse caratteristiche.
Il grado di vicinanza o di lontananza tra le diverse confessioni sarebbe allora determinato da ragioni interne e cesserebbe di essere un imperscrutabile fatto giuridico. L’aver così stabilito un rapporto vero darebbe poi la possibilità di giudicare molte cose cominciando finalmente ad affrontarle nella loro essenza
1923.VI.4 (V.22 vecchio stile)
1) Florenskij allude a quella che fu l’occasione esteriore di questo articolo e cioè due scritti del filosofo Lev Michajlovic Lopatin (1855-1920) che risalgono al 1918 e il cui sunto è stato però tralasciato nell’edizione russa da noi utilizzata per la traduzione. Ndt