Esce anche in Italia il libro di Robert B.Stinnet che cancella decenni di letteratura ufficiale su un episodio chiave del secondo conflitto mondiale. Vi si dimostra che il presidente degli Stati Uniti utilizzò la sua flotta come esca per i giapponesi e che l’ammiraglio Kimmel e il generale Short furono ingiustamente disonorati.
di Maurizio Cabona
La principale piaga storico-politica del Novecento americano si chiude dunque proprio quando “Pearl Harbor” di Michael Bayl, un film, commuove un pubblico con tre personaggi inventati. Dei quasi tremila veri, e veramente morti, ormai importa a pochi. Ma a Stinnet si, che è di quella generazione falcidiata. E’ in loro nome che smantella la verità di stato che ha resistito per sessant’anni. Se non può rendere la vita a chi l’ha perduta, può dare la colpa a chi ce l’ha: Roosvelt. E scagionare chi l’ha presa ingiustamente: l’ammiraglio Husband Kimmel della Marina e il generale Walter Short dell’Esercito degli Stati Uniti.
Una flotta abbandonata al suo destino
La Francia ha avuto per oltre un decennio il caso Dreyfus. Gli Stati Uniti hanno avuto per oltre mezzo secolo il caso di Kimmel e Short, dichiarati “inadempienti in servizio”. Messi sotto inchiesta, degradati, collocati a riposo, Kimmel e Short perdono l’onore. In realtà sono stati raggirati. I risultati delle intercettazioni e delle decrittazioni dei codici giapponesi, che arrivano regolarmente sul tavolo del presidente, non vengono loro comunicati.
E se gran parte della flotta del Pacifico è esposta alle bombe dei giapponesi a Pearl Harbor, anziché restare al sicuro a San Diego, non è per loro volontà. E’ Roosvelt a volerla lì. La flotta è l’esca.
Prologo. Nel 1921-22, la conferenza navale di Washington stabilisce i rapporti di forza tra le maggiori potenze. Gli stati Uniti e la Gran Bretagna vogliono imporre al Giappone il rapporto 5-5-3: 5 unità di ogni tipo (portaerei, corazzate, incrociatori, ecc..) per Washington e Londra, solo tre per Tokio. I diplomatici giapponesi hanno ordine di resistere, ma senza rompere le trattative. Infine cedono. Nel 1930 esce negli Stati Uniti un libro di Herbert Osborne Yardley che racconta come, allora, decrittava i messaggi fra Tokio e i suoi diplomatici.
La superiorità tecnologica americana si sarebbe sommata a quella strategica con la decisione nel 1923 di costruire bombardieri transoceanici: i B.17, i B.24 e i B.29. Potenza regionale, di recente e incompleta industrializzazione, il Giappone degli anni Trenta ragiona invece ancora in termini di acquisizione di materie prime, guardando alla Cina, all’Indocina francese, alle Indie olandesi. Consapevole di queste mire, dal 1940 Roosvelt cerca di ampliarle a Pearl Harbour. Può farlo perché i codici giapponesi continuano a essere un libro aperto per i decrittitatori americani.
Il popolo degli Stati Uniti è ostile a Germania e Italia, alleate del Giappone, ma non abbastanza da mandare i suoi figli a morire per dimostrarlo. Roosvelt ritiene però necessaria la guerra. Perché il Congresso la voti, ha bisogno di un’ “aggressione” e la cerca: da parte dei giapponesi, i più ingenui dell’Asse. Nel giro di un anno il presidente rompe – fra l’altro – le relazioni commerciali e taglia i rifornimenti di petrolio. Di conseguenza cade il governo del principe Konoye e nasce quello del generale Tojo.
Dopo aver occupato l’Indocina francese nel luglio 1941, i giapponesi potrebbero però limitarsi ad attaccare gli inglesi a Hong Kong e Singapore, e gli olandesi a Sumatra. E il casus belli per gli Stati Uniti, che sono una democrazia e quindi poco inclini a combattere, mancherebbe sempre. Trasferire la flotta a Pearl Harbor, lasciarla indifesa, fare che i giapponesi lo sappiano, serve proprio per attrarre il fulmine. Ma occorre anche tacere a Kimmel e Short l’avvicinarsi della flotta dell’ammiraglio Yamamoto. Se la base fosse in allarme, Yamamoto rinuncerebbe a colpirla. Basta che le portaerei – nell’Atlantico e nel Mediterraneo rivelatesi decisive – escano in mare aperto, lasciando le corazzate, ormai superate, e i loro equipaggi al loro destino.
Verità segretate
Il 7 dicembre 1941 il Giappone attacca, nel maggio 1945 è pronto alla resa. Gli americani lo sanno, perché hanno continuato a decrittarne i messaggi in codice. Il neopresidente Truman, democratico anche lui, ha però bisogno di tempo per mettere a punto la bomba atomica: sganciata in duplice copia sul Giappone, come monito per l’Unione Sovietica.
Per cogliere l’importanza del libro di Stinnet, che è un reduce della seconda guerra mondiale, basta confrontarlo con quello di un altro reduce, Gordon W. Prange, Pearl Harbor. La storia segreta (Rizzoli, pp.987, L.42000). Pubblicato originariamente nel 1986, è un esempio degli “adattamenti” della verità praticati dalla storiografia ufficiale fino al 1999, quando la classificazione “segretissimo” sui documenti è caduta.
Kimmel e Short sono qui presentati come non all’altezza, tacendo però che non avrebbero raggiunto gradi così alti senza il consenso di Roosvelt. Prange si scaglia anche contro i politici, gli storici e i giornalisti che avevano subito colto l’inganno: ancora nel 1995, la commissione di inchiesta del Senato americano – nominata su richiesta delle famiglie di Kimmel e Short e guidata dal senatore repubblicano Strom Thurmond – non aveva ottenuto dai servizi segreti i documenti sullo spionaggio nel periodo precedente il dicembre 1941.
Girato nel 2000 col sostegno della Marina, il film di Bay raggiunge un compromesso fra verità e leggenda di Roosvelt (interpretato da Jon Voigt). Riferisce delle sue provocazioni e della decrittazione dei codici. E così Kimmel (interpretato da Colm Feare) viene presentato con dignità, senza dire che si oppone a tenere la flotta a Pearl Harbor e che Roosvelt gliela farà pagare nei modi che si è detto.
Della ricostruzione dell’attacco, nel film come nei libri, resta solo un dettaglio: bombe e siluri giapponesi contro gli americani ricalcano tecniche inglesi contro gli italiani: bassi fondali, navi ormeggiate vicine, Pearl Harbor 1941 replica Taranto 1940
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Sulla II Guerra Mondiale:
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