Pensando alla Patria.

Karol WojtylaCSEO documentazione n.138-9 del 1979

Stanislaw Andrzej CrudaKarol Wojtyla

Quando penso alla Patria, m’esprimo e m’affondo nelle radici,
me lo dice il cuore, come frontiera segreta che da me va agli altri,
per accogliere tutti in un passato più antico d’ognuno di noi:
da cui emergo… quando penso alla Patria — per racchiuderlo in me come tesoro.
E chiedo sempre come moltiplicare, come dilatare questo spazio che lo riempie.

QUANDO LINGUE SI PARLANO D’INTORNO

1. Quando lingue si parlano d’intorno, sento come le generazioni si sono sovrapposte, portando nel tesoro della loro terra cose vecchie e cose nuove.
La terra s’è fatta alveo di luci accese nel profondo degli uomini, i medesimi fiumi sono sempre scorsi nel medesimo modo, e il torrente del linguaggio ha continuato a girare intorno alla terra, ingrossando di storia.
L’acque dei fiumi sono scese a valle, verso la cima è andato il torrente del linguaggio.
Cima era ogni uomo cresciuto da questa terra, ed ogni uomo lo è
– s’innalza la cima sopra di ciascuno e insieme sopra di tutti, sempre più ripida s’eleva e sempre più profonda precipita nelle coscienze.

2. Quando lingue si parlano d’intorno, ne risuona una: la nostra. Nello spirito affonda delle generazioni, gira intorno alla nostra terra, si fa tetto della casa in cui insieme stiamo –
solo di rado ne risuona fuori –
(in gruppi d’uomini che parlano attorno quasi isole avvolte dall’oceano dell’umano linguaggio universale, non trovo la mia onda) –
non crebbero le risorse della mia terra; salpò sì il linguaggio, ma solo per estinguersi pian piano in fondali prosciugati –
le lingue delle nazioni non accolsero il linguaggio dei miei padri, adducendo «troppo difficile» oppure «inutile» –
nella grande assemblea delle nazioni parliamo una lingua non nostra. La nostra lingua ci rinchiude in noi; ci serra e non ci apre.

3. Rinserrati così tra noi da un unico linguaggio, esistiamo verso le radici nostre profonde, aspettando il frutto di stagioni e solstizi.
Presi ogni giorno dalla bellezza del linguaggio nostro, non sentiamo amarezza se il nostro pensiero non si compra nei mercati del mondo per il troppo alto prezzo delle parole.
Non nutriamo noi desiderio d’uno scambio ancora più profondo?
Un popolo che nel cuore vive del suo linguaggio per generazioni, resta mistero d’un pensiero mai scrutato del tutto.

SENTO SEMPRE IL SUONO DELLA FALCE…

Quando penso alla Patria sento sempre il suono della falce, mentre batte contro la parete del grano,
unendosi in un solo profilo al chiarore del firmamento.
Ma ecco le falciatrici s’avvicinano, dentro la parete affondando
e la monotonia dei suoni e le bracciate impetuose dei movimenti tagliano…

GIUNGO AL CUORE DEL DRAMMA…

1. S’apre oltre il linguaggio un abisso. È l’incognita della debolezza subita nei nostri padri ed ora ereditata in noi?
La libertà va sempre conquistata, non si può solamente possederla! Viene come dono, permane con la lotta. Dono e lotta s’iscrivono in carte nascoste, eppur palesi.
Per la libertà paghi con tutto te stesso — libertà dunque chiama il poterti possedere pagando sempre nuovamente.
Questo è il tributo con cui entriamo nella storia e ne tocchiamo le epoche:
Dove scorre il confine delle generazioni tra coloro che troppo poco hanno pagato e coloro che hanno dovuto pagare troppo? Da che parte stiamo?
Non ha forse in passato l’eccesso di tante autodeterminazioni superato le nostre forze? Non portiamo forse come pilastro il peso della storia, la cui crepa ancora non s’è cicatrizzata?

2. Patria: sfida di questa terra lanciata ai nostri avi e a noi per decidere del bene comune e con il nostro linguaggio cantare come bandiera la storia?
Il canto della storia si compie con atti costruiti sulle rocce della volontà. Con la maturità dell’autodeterminazione giudichiamo la nostra giovinezza, tempi della spartizione e età dell’oro.
La perdita dell’indipendenza ha giudicato l’aurea libertà.
Portavano in sé questo verdetto gli eroi dei secoli passati: come in buia notte entravano nella sfida della terra, gridando: «libertà è più cara della vita!».
Più giustamente d’altri giudicammo la nostra libertà (levò la sua voce il mistero della storia): sull’altare dell’autodeterminazione arsero sacrifici di generazioni — sconvolgente grido di libertà più forte della morte.

3. Possiamo rinnegare il grido che urla in noi, come corrente in troppo alti e ripidi argini?
Possiamo prendere a misura della nostra la libertà degli altri?
— lotta e dono —
Voi che avete la vostra libertà legata alla nostra, perdonateci!
E guardate! — riscopriamo sempre come dono che viene e come lotta sempre insufficiente la nostra e vostra libertà.

RITORNELLO

Quando penso alla Patria, cerco la strada che i declivi taglia come corrente d’alta tensione, che passa lassù in alto — così ripida corre in ciascuno di noi e non permette soste.
La strada corre sugli stessi declivi, torna allo stesso luogo, si fa grande silenzio, che ogni sera visita i polmoni antichi della mia terra.

PENSANDO ALLA PATRIA, TORNO VERSO L’ALBERO…

1. L’albero della conoscenza del bene e del male è cresciuto sulle rive dei fiumi della nostra terra, è cresciuto insieme a noi per secoli, è penetrato nella Chiesa con le radici delle coscienze.
Portammo frutti che pesano e arricchiscono. Sentimmo quanto profondamente si spacca il tronco, anche se le radici affondano nello stesso terreno…
La storia copre con lo strato degli eventi la lotta delle coscienze. Uno strato in cui oscillano vittorie e sconfitte. La storia non le nasconde ma le rende evidenti…
Può scorrere la storia contro la corrente delle coscienze?

2. Da quale parte ha messo rami il tronco? Da quale parte le coscienze corrono? Da quale parte cresce la storia della nostra terra? L’albero della conoscenza è senza limiti.
Limite è quell’Avvento che lotte delle coscienze e misteri della storia unirà in un unico Corpo — e muterà l’albero della conoscenza in Fonte della Vita che s’ingrossa sempre.
Ma finora ogni giorno reca in ogni pensiero e atto, la stessa spaccatura da cui la Chiesa delle coscienze cresce nelle radici della storia.

3. Magari non perdessimo dagli occhi quella limpidezza con cui a noi giungono sperduti eventi nell’incommensurabile torre, in cui l’uomo sa tuttavia dove sta andando. L’amore solo equilibra il destino.
Magari non allargassimo lo spazio dell’ombra.
Che un raggio di luce cada nei cuori e penetri le tenebre delle generazioni. Che la corrente della forza penetri la debolezza.
Non possiamo consentire alla debolezza.

4. Debole è un popolo se accetta la sua sconfitta, quando dimentica d’essere stato inviato per vigilare fino a che non arrivi la sua ora. Le ore ritornano sempre sul grande quadrante della storia.
Questa è la liturgia della storia. Vigilanza è parola del Signore e parola del Popolo che accoglieremo sempre nuovamente. Le ore volgono in salmo d’incessanti conversioni: Andiamo a prender parte all’Eucaristia dei mondi.

5. A te dunque scendiamo, terra, per dilatarti in tutti gli uomini — terra delle nostre sconfitte e vittorie, che t’innalzi in tutti i cuori come mistero pasquale.
Terra che non cessi d’essere parte del nostro tempo.
Imparando nuova speranza andiamo per questo tempo verso nuova terra. E t’innalziamo, vecchia terra, come frutto d’amore di generazioni che ha oltrepassato l’odio.

Cracovia, 1974.

Stanislaw Andrzej Cruda Da Znak, n. 295-296.