Dalla pagina Internet di Robi Ronza
25 Dicembre 2017
di Robi Ronza
Negli Usa, dove comunque l’aborto è illegale in 30 Stati su 50, lo scorso 22 dicembre nello Stato dell’Ohio è entrata in vigore una nuova legge, il Down Syndrome Non-Discrimination Act, che esclude la sindrome di Down dai motivi legittimi per cui una donna può abortire. Leggi simili sono già in vigore nel Nord Dakota e nell’Indiana. Nei giorni in cui si celebra il Natale, ossia il compleanno del Bambino, questa è più che mai una buona notizia.
Ben di rado, anzi mai, i corrispondenti da New York e da Washington dei giornali e dei telegiornali italiani, un club nel quale non si entra se non si è radical-chic, informano riguardo all’aborto negli Usa. Che nel grande Paese preso come simbolo della modernità l’aborto venga sempre più limitato e contestato è qualcosa che Giovanna Botteri, le sue amiche e i suoi amici non trovano elegante farci sapere. Quindi c’è da scommettere che nemmeno di questa nuova legge dell’Ohio ci daranno notizia.
In modo sempre più marcato dal 2013 in avanti negli Usa il numero degli aborti declina, e non soltanto non aumenta il numero degli Stati in cui è legale, ma in quelli in cui lo è si moltiplicano le leggi che ne riducono i casi legittimi nonché i termini entro i quali è legalmente praticabile. Tra le altre cose riguardo all’aborto negli Usa c’è un significativo dato di fondo che mai la stampa europea mette in luce. Negli Usa tutti sono d’accordo nel ritenere che l’aborto procurato non sia (come infatti non è) una prestazione sanitaria. Perciò non viene di regola coperto dalle assicurazioni sanitarie e non viene praticato negli ospedali bensì in appositi ambulatori, finanziati da fondazioni, dove viene offerto anche gratuitamente.
Nel nostro Paese l’ordine costituito della stampa ama farci credere che il no all’aborto sia una…cosa cattolica: qualcosa insomma senza senso per chiunque sia moderno e progressista. Il fatto che negli Usa il grosso del movimento anti-abortista sia di altra matrice, per lo più protestante ma non solo, diventa perciò più che mai sgradevole per il club dei nostri corrispondenti. Fanno allora ciò che nella loro cultura è la regola quando la realtà delle cose non quadra con i propri pregiudizi: per non rinunciare ai propri pregiudizi si rinuncia alla realtà.
Negli Stati Uniti fa parte del comune sentire la giusta convinzione che senza un’adeguata crescita demografica non c’è sviluppo. Ciò spiega come mai tra il 1970 e il 2016, nell’arco di meno di cinquant’anni, la popolazione degli Usa sia passata da 205 a 323 milioni abitanti, fatto che non si spiega soltanto con l’immigrazione ma anche e prima ancora con la fertilità delle famiglie americane autoctone.
Questa enorme crescita demografica, sconosciuta ai più perché sistematicamente ignorata dalla cultura e dalla comunicazione di massa, appare tanto più significativa se si considera che nel frattempo la Fondazione Rockfeller e altre grandi fondazioni americane hanno speso enormi somme per diffondere nel resto del mondo la paura della crescita demografica; e con ottimi risultati. Con questa campagna la super-potenza americana – osserviamo qui per inciso — ha tirato sul resto del mondo una bomba nucleare pulitissima, ma ciononostante micidiale.
Beninteso, la crescita deve essere adeguata, il che significa che altrove un analogo boom non sarebbe stato sostenibile; resta vero però che, seppur in modo adeguato, di una certa misura di crescita hanno bisogno tutti. Viceversa mai nella storia è accaduto che si uscisse da una crisi strutturale (come quella in cui ci troviamo) in una situazione di declino demografico. In questo quadro diventa chiaro che il superamento della cultura della sfiducia e dell’incapacità della speranza, di cui la pretesa della legalizzazione dell’aborto è un elemento-chiave, ha un valore non solo individuale ma anche sociale, non solo morale ma anche politico e civile.