Elizabeth Marquardt, membro dell’ “Institute for American Values”, è l’autrice del libro appena pubblicato “Between Two Worlds: The Inner Lives of Children of Divorce” (Crown).
di Elizabeth Marquardt, Elizabeth@americanvalues.org
Traduzione di Costanza Stagetti
“Come suddividerete 7 giorni?” domanda il figlio sconvolto e confuso.
“A me tocca il martedì, il mercoledì e il sabato, e ogni altro giovedì,” dice il papà con voce rassicurante.
“E’ stata un’idea di vostro padre” fa notare orgogliosamente la mamma.
“Be’, e il gatto?” domanda ansiosamente il figlio. Una pausa. “Non abbiamo discusso del gatto” dice la mamma leggermente costernata.
Questa scena, così com’è raccontata, è tratta da un nuovo film, “The Squid and the Whale” – in cui il trentaseienne regista Noah Baumbach affronta il divorzio dei suoi genitori avvenuto quando era un ragazzino. Ma per quelli di noi appartenenti alla prima generazione cresciuta in un’epoca di divorzio generalizzato, essa coglie perfettamente la devastazione emotiva che si abbatte sui figli quando i loro genitori si convincono che se riescono a risolvere i dettagli del divorzio – chi deve andare dove e in quali giorni – senza rancore, essi possono ridurre la sofferenza dei figli e inseguire la loro felicità senza grandi sensi di colpa.
Prima che la percentuale di divorzi iniziasse la sua inesorabile crescita alla fine degli anni 60, l’opinione comune era che, laddove c’erano dei figli, il divorzio in sé era un problema. Ma quando i divorzi hanno cominciato a diffondersi, raggiungendo il picco massimo di quasi un matrimonio su due nella metà degli anni 80, l’opinione comune è mutata in una nuova idea favorevole agli adulti: non è il fatto di divorziare che costituisce un problema, ma semplicemente il modo in cui i genitori gestiscono il divorzio.
Gli esperti cominciarono ad rassicurare i genitori che se fossero riusciti a fare un “buon” divorzio, se avessero continuato a rimanere vicini ai loro figli riducendo al minimo il conflitto, i bambini sarebbero stati bene.
Ebbe l’effetto di una pillola calmante e fu ingoiata ansiosamente da molti genitori tormentati. Ma fu anche, come si vede, un mito. Non importa quanto è felice la maschera che indossiamo, dicono ora i figli del divorzio, ci stiamo prendendo in giro. Un divorzio amichevole è migliore di uno conflittuale, ma non una esiste una cosa chiamata “divorzio buono”.
Mi rendo conto che è un messaggio martellante. Oggigiorno abbondano gli elogi del buon divorzio. Non si contano gli articoli di giornale, i servizi televisivi e i libri che citano terapeuti e professori che dibattono su questo tema. Un articolo uscito l’anno scorso sotto Natale su Newsweek intitolato “Divorzio felice”, presentava famiglie divorziate che mettevano da parte i loro conflitti per trascorrere il Natale insieme. I ricercatori, recitava l’articolo, “sanno da anni che conta di più il modo in cui si divorzia del divorzio in sé stesso”.
Molti genitori hanno acquistato la rivista. Nel 2002 The Washington Post Magazine presentò una storia di copertina su Eli e Debbie, una bella e sorridente coppia divorziata con tre figlie pre-adolescenti. Sebbene il loro matrimonio fosse, secondo Debbie, “un matrimonio tutto sommato incredibilmente funzionante”, essi avevano divorziato quando lei cominciò a risentire della loro “mancanza di relazione”.
Dopo tre anni, Eli continua ad andare tutte le mattine a casa di Debbie per preparare le bambine per la scuola e per rassicurarle che “anche se babbo e mamma non sono sposati, siamo sempre i vostri genitori, siamo sempre qui per voi e vi amiamo ancora.” Eli e Debbie sono convinti che il loro “buon” divorzio preserverà le loro figlie da una sofferenza inutile.
Ma probabilmente si sbagliano.
Molte persone pensano a torto che la maggior parte dei matrimoni finisca quando i genitori arrivano alle mani. Ma i motivi spesso possono essere molto meno gravi, come ad esempio la noia.. Le ricerche mostrano che attualmente i due terzi dei divorzi riguardano matrimoni a bassa conflittualità, in cui non ci sono abusi, violenze o gravi litigi.
Dopo la fine di questi matrimoni i figli all’improvviso lottano contro una serie di sintomi come ansia, depressione, problemi scolastici che prima non avevano. I cicli altalenanti dell’infelicità degli adulti che caratterizzano molti matrimoni spesso non sono così ovvi agli occhi dei figli. Per i figli dei matrimoni a basa conflittualità, il divorzio è una botta enorme che cade inaspettata.
Ovviamente a volte il divorzio è necessario, e quando questo succede è certamente meglio per i figli non perdere del tutto le relazioni significative, nè essere coinvolti in interminabili litigi. Ma quando parliamo con gli stessi bambini, scopriamo che il dilagante discorso del “buon divorzio” riflette perlopiù i desideri degli adulti, mentre mette a tacere le voci dei figli. Il dibattito sul divorzio viene da tempo condotto dagli adulti, per gli adulti , partendo dal punto di vista degli adulti, ma ora i figli del divorzio ormai cresciuti stanno raccontando le loro storie diversamente.
Da trentacinquenne che ha visto i propri genitori divorziare all’età di due anni, so che quando si va ad indagare su come il divorzio modella l’identità e la vita interiore dei figli, a stento si scalfisce il problema. Così, insieme al professore di sociologia Norval Glenn della University of Texas, ho recentemente condotto il primo studio rappresentativo a livello nazionale dei figli del divorzio cresciuti. Abbiamo intervistato 1550 giovani adulti dai 18 ai 35 anni di età, metà provenienti da famiglie divorziate a l’altra metà provenienti da famiglie intatte. Ho intervistato di persona anche altri 71 giovani adulti in quattro aree del paese.
Abbiamo scoperto che i figli dei cosiddetti divorzi “buoni” spesso vanno peggio anche dei figli dei matrimoni infelici a bassa conflittualità – essi riportano più spesso, ad esempio, che la vita famigliare era stressante, che sono dovuti crescere troppo in fretta e che vanno molto peggio dei figli cresciuti in matrimoni felici; loro stessi sono più portati al divorzio. Mandando in mille pezzi il mito del “buon” divorzio, essi ci hanno raccontato che il divorzio ha seminato durevoli conflitti interiori nella loro vita anche quando i loro genitori non erano litigiosi. Non conta quanto fosse buono il divorzio dei loro genitori, i figli del divorzio viaggiavano tra due mondi molto differenti, negoziando spesso regole e ruoli massimamente diversi.
Sebbene solo un quinto ci abbia detto che i suoi genitori avevano un grande conflitto dopo la separazione, i figli del divorzio hanno detto ripetutamente che la separazione stessa ha fatto sì che i mondi dei loro genitori sembrassero cristallizzati in un perdurante conflitto. I due terzi hanno sostenuto che i loro genitori sembravano due poli opposti dopo il divorzio, contro solo un terzo dei giovani adulti con genitori sposati.
Quasi la metà ha riportato di essersi sentita dopo il divorzio come una persona diversa con ciascuno dei genitori – contro un quarto dei figli di famiglie intatte. La metà degli intervistati ha riferito che le versioni della verità dei propri genitori divorziati erano differenti, contro un quinto di coloro con genitori sposati. Più del doppio dei figli del divorzio rispetto a quelli di famiglie intatte ha detto di essere stato costretto a mantenere degli importanti segreti – e molti di più hanno pensato di farlo anche se non era stato loro chiesto.
I figli del divorzio si sentono divisi interiormente, specialmente quando i loro genitori si incontrano amichevolmente in occasioni speciali – così come consigliato dagli esperti che difendono il “buon divorzio”. Come mi ha raccontato un amico: “Quando ero un ragazzino era veramente uno stress quando i miei genitori erano insieme nella stessa stanza… perché non sapevo chi essere.”
Quando crescono, i figli del divorzio lottano per una loro identità. Scrivendo in un libro di saggistica, la poetessa della Generazione X Jen Robinson ricordava di aver dovuto essere una persona diversa con ciascuno dei suoi genitori – che avevano avuto un “buon” divorzio – al punto che quando se ne andò al college scoprì di fare amicizia facilmente, “ma sempre in gruppi distinti che raramente interagivano.
Quando questo si verificava, io mi sentivo interiormente spinta a compiacere entrambi i gruppi e allo stesso tempo a negoziare l’interazione fra essi.” Infine si rese conto che “avevo bisogno di reintegrare me stessa, per poter essere interamente quella che ero con chiunque mi conoscesse.”
Quelli di noi cresciuti nella prima epoca di dilagante divorzio hanno una nuova sensibilità riguardo al problema.
Certo, a volte il divorzio è necessario, ma la verità scomoda che la nostra cultura ha cercato di nascondere per troppo tempo è che spesso non lo è, e che non esiste una cosa chiamata “divorzio buono”. Se i genitori devono divorziare è bene trovare un accordo in seguito. Ma le persone in matrimoni altamente conflittuali generalmente non riescono a fare un “buon divorzio” (è noto che il divorzio non accresce la capacità di comunicare e cooperare).
Le coppie in matrimoni a basso livello di conflittualità possono gestire un cosiddetto “divorzio buono”, ma molte di loro potrebbero anche gestire altrettanto bene la continuazione del matrimonio e risparmiare a sé stesse e ai loro figli molta sofferenza.
Questa sensibilità sta emergendo al cinema, negli studi, sui blogs. Sono convinta che sia solo l’inizio. La storia della nostra generazione deve essere raccontata, perché la nostra società vuole ancora negare caparbiamente quanto sia realmente devastante il divorzio. Troppe persone pensano che il divorzio moderno sia una variante della vita famigliare ordinaria. Certo, può esserci qualche problema, ma l’infanzia non rimane fondamentalmente la stessa?
La risposta è no. Le prove si accumulano e il messaggio della nostra generazione è chiaro: il divorzio divide interiormente i bambini e li fa diventare dei giovani adulti. Libera gli adulti costringendo i loro figli a crescere troppo in fretta. Ha conseguenze a lungo termine anche quando i genitori divorziati non litigano.