Abstract: per gli africani meglio i golpe i gli jihadisti che la corruzione esasperati dalle ruberie dei loro governanti, dediti al sistematico saccheggio delle risorse dei rispettivi paesi una volta raggiunto il potere. Molti non condividono la preoccupazione per le “democrazie fragili” del contenente africano
Atlantico 7 Febbraio 2022
Sei colpi di stato in un anno: esasperati dalla corruzione,
gli africani si affidano a militari o jihadisti
di Anna Bono
In poco più di un anno nell’Africa sub sahariana sono stati realizzati sei colpi di stato. Sarebbero sette se non fosse fallito quello appena tentato in Guinea Bissau. La mattina del 1° febbraio uomini armati hanno fatto irruzione nel palazzo sede del governo mentre era in corso una riunione. Durante lo scontro a fuoco che ne è seguito, durato cinque ore, sono morte 11 persone, tra guardie presidenziali e golpisti. Poi la situazione è tornata sotto controllo, l’esercito adesso pattuglia le strade della capitale Bissau, dove negozi e banche hanno riaperto.
Jean-Claude Kassi Brou, presidente dell’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, di cui la Guinea Bissau è membro, ha attribuito la responsabilità del golpe all’esercito. Invece il presidente guineano Umaro Cissoko Embalò ha dichiarato che gli autori sono dei trafficanti di droga che miravano non tanto a prendere il potere, ma a uccidere lui e i ministri, in quel momento tutti presenti nel palazzo governativo, e questo a causa dell’impegno del suo governo nella lotta contro il traffico di droga.
Potrebbero essere vere entrambe le versioni. La Guinea Bissau è il principale centro africano di smistamento della cocaina proveniente dal Sudamerica e destinata ai mercati europei. Da quando nel 1974 è diventata indipendente dal Portogallo, ci sono stati quattro colpi di stato riusciti, l’ultimo nel 2012, e cinque falliti. Solo un presidente, Jose Mario Vaz, eletto nel 2014, ha concluso il mandato senza essere destituito prima del termine. All’Onu chiamano la Guinea Bissau il “narco-stato”. Alte cariche dello stato e dell’esercito risultano coinvolte nel traffico di droga. Lo scorso agosto il presidente Embalo ha rifiutato di concedere l’estradizione, chiesta dagli Stati Uniti, del generale Antonio Indjai, suo sostenitore insieme ad altri ufficiali e autore del golpe del 2012, accusato di legami con le Farc colombiane.
I sei colpi di stato riusciti nei mesi scorsi sono stati due in Mali, agosto 2020 e maggio 2021, e gli altri in Ciad, ad aprile 2021, in Guinea Conakry, a settembre, in Sudan, a ottobre, e in Burkina Faso, tra il 23 e il 24 gennaio 2022.
C’è preoccupazione per questa nuova stagione di colpi di stato in Africa che spazzano via i simulacri di democrazia di governi già definiti con un eufemismo democrazie “imperfette” o “fragili”. Ma è una preoccupazione che molti in Africa non condividono. Al contrario, che i militari subentrino ai politici e ai loro governi civili sembra persino una buona cosa: si confida che siano meno sfrontatamente corrotti, più presenti sul territorio e che un governo militare possa garantire più sicurezza e ordine. È lo stesso motivo – esasperazione per la corruzione sfrenata di politici e funzionari pubblici, l’ostentata ricchezza, il disinteresse per i bisogni e la sicurezza dei cittadini – per cui tanti africani si uniscono ai gruppi jihadisti, li sostengono nella speranza che con loro qualcosa migliori.
Può darsi che abbiano ragione. L’Iswap, la fazione di Boko Haram affiliata all’Isis, in Nigeria e nel bacino del lago Ciad ha creato una vera e propria zona di “jihad governance”. Non gli ci è voluto molto per trovare sostegno e consenso tra la popolazione abbandonata a se stessa, priva di servizi e infrastrutture e lasciata alla mercé di bande criminali che agiscono incontrastate.
Benché i metodi dell’Iswap siano spesso violenti e autoritari, offre agli abitanti della regione più di quanto ricevano dalle strutture di parentela e dai rispettivi governi. Protegge dai furti di bestiame, costruisce pozzi, garantisce quel tanto di ordine e sicurezza necessari perché la gente possa lavorare e condurre una vita sociale, assicura persino servizi sanitari di base. Le comunità che vivono attorno al lago lo apprezzano. Di recente i jihadisti hanno incominciato a riscuotere tributi in alcune aree e cercano di limitare i loro raid a scopo di razzia, per conquistare i bottini che poi vengono distribuiti tra i combattenti in sostituzione e integrazione del salario.
Succede anche altrove. I jihadisti stanno individuando specifiche zone e comunità in cui possono stabilire legami e radicarsi; e, una volta insediatisi, eliminarli diventa estremamente difficile. In Mali, ad esempio, in un villaggio vicino alla frontiera con il Niger, i combattenti hanno amputato una mano e un piede e tre uomini condannati da un tribunale islamico, colpevoli di aver derubato i passeggeri di un autobus. La punizione è stata eseguita in un giorno di mercato alla presenza di una gran folla. Fatti analoghi sono stati riportati nel nord del Burkina Faso, dove l’Isis spera di espandersi. L’Isis in questo modo dimostra di voler assicurare legalità e ordine. Alle comunità locali i metodi per riuscirci non importano.
In Sudan, dopo il golpe di ottobre, mezzo Paese si è schierato con i militari: e non solo, come qualcuno a affermato, per affinità etnica e calcolo. Nella capitale Khartoum si sono alternate manifestazioni popolari di sostegno alla giunta militare e al governo deposto, queste ultime represse brutalmente. “La gente – ha spiegato monsignor Yunan Tombe Trille, presidente della Conferenza episcopale del Sudan e del Sudan del Sud – è divisa tra chi vuole che il governo di transizione con ministri civili vada avanti (…) e quanti, invece, sostengono la totale presa del potere da parte dei militari che, secondo loro, sono gli unici a poter risolvere la profonda crisi politica e assicurare il pane. I crimini hanno raggiunto un livello mai così alto nella storia, forse proprio per la fame che tanta gente sta sperimentando”.
In Burkina Faso, invece, la popolazione ha festeggiato il golpe compatta. Il 25 gennaio migliaia di persone si sono riversate nelle vie della capitale Ouagadougou per manifestare sostegno ai militari che il giorno precedente avevano destituito il presidente Roch Kabore, sciolto governo e parlamento e sospeso la costituzione. Per ore, radunati in Piazza della Nazione hanno suonato e ballato, accompagnati dai clacson delle macchine. Alla notizia che le Nazioni Unite e l’Ecowas, di cui anche il Burkina Faso fa parte, avevano condannato il golpe e minacciavano sanzioni, la risposta dei manifestanti è stata: “la Ecowas non si interessa a noi e la comunità internazionale pensa solo a condannarci. Ma noi, questo vogliamo”.
Come in Sudan, la povertà è causa di profondo scontento. Ma a esasperare la popolazione, oltre il limite della sopportazione, è il dilagare della violenza nelle regioni settentrionali confinanti con Niger e Mali dove dal 2015 operano gruppi jihadisti affiliati ad al Qaida e all’Isis. Un indicatore del degrado economico e sociale del Paese è il numero crescente di bambini soldato arruolati dai jihadisti. L’attacco più grave dal 2015 a oggi, quello al villaggio di Solhan lo scorso giugno durante il quale sono state uccise almeno 160 persone, è stato compiuto in gran parte da ragazzini di età compresa tra 12 e 14 anni.
Quello del 24 gennaio è il sesto colpo di stato da quando il Burkina Faso è diventato indipendente nel 1960 con il nome di Alto Volta. Il nome attuale, che in lingua locale significa “terra degli uomini incorruttibili”, gli è stato dato nel 1983 da Thomas Sankara, autore di un colpo di stato e a sua volta deposto e ucciso nel 1987 con un golpe organizzato da Blaise Compaoré, rimasto poi al potere fino al 2014, quando violente proteste popolari sostenute dall’opposizione e da una parte dell’esercito lo hanno costretto a dimettersi e a lasciare il Paese. Compaoré ricopriva la carica di presidente dal 1991.
Le ultime elezioni le aveva vinte nel 2010. Durante la campagna elettorale dei giornalisti avevano svolto una indagine sulle intenzioni di voto. Molti elettori rispondevano Compaoré. Ma è corrotto – obiettavano i giornalisti – in tutti questi anni si è arricchito a spese del Paese, prelevando milioni dalle casse dello stato. Perché votarlo ancora? Un uomo anziano aveva replicato: “Lo voto proprio perché è al potere da così tanto tempo. Ormai ha accumulato una fortuna, ha meno fame di ricchezza. Se vince uno nuovo, quanto ruberà di più?”.
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