Tempi 9 agosto 2021
Senza chiarezza riguardo alla posizione umana che si assume, alla compagnia con cui si vuole procedere, non c’è lealtà di proposta e verifica
di Giancarlo Cesana
«La politica è la più alta forma di carità». Questa affermazione, attribuita abitualmente a Paolo VI, è stata in effetti pronunciata per la prima volta da Pio XI nell’udienza del 18 dicembre 1927 ai dirigenti della Federazione universitaria cattolica (Fuci). La frase o il concetto sono stati poi ripetuti da tutti i papi successivi, fino a Francesco, e con loro da vescovi e preti di ogni ordine e grado per incitare i laici all’impegno sociale.
I risultati, a mio parere, non sono gran che, nel senso che la politica, anche nell’ambiente cattolico, è guardata con un certo sospetto e, se è carità, la fede che la sostiene si fa vedere poco. Per esempio, nonostante la politica sia la più alta forma di carità, i preti e religiosi sono fortemente sconsigliati dal praticarla – non possono praticarla senza permesso – e quando la praticano sono non infrequentemente sospesi dal loro ministero.
Molti ricorderanno il caso di don Gianni Baget Bozzo, eletto al Parlamento europeo nelle file del Partito socialista nel 1985 e per questo sospeso a divinis dal suo vescovo e cardinale, Giuseppe Siri, che era stato suo insegnante al liceo e l’aveva ordinato prete, stimandolo molto. La sospensione a divinis venne ritirata nel 1994, non appena Baget Bozzo lasciò il Parlamento europeo e la militanza nel Partito socialista. Non aveva mai lasciato il suo abito, vestito e comportamento, da prete. Io ebbi occasione di frequentare don Gianni e gli fui amico.
Ogni tanto ci vedevamo e lui mi telefonava domandandomi cosa pensavo di quanto accadeva nella società e nella Chiesa. Gli chiesi incontri di testimonianza sulla sua esperienza di impegno; con la comunità di Cl di Carate una volta lo invitammo alle nostre vacanze estive. Si dichiarava “tomista”, seguace di san Tommaso d’Aquino, l’architrave teologica e filosofica della Chiesa cattolica; sapeva tutto della storia politica del nostro paese ed era seriamente preoccupato per il futuro prevedendo quello che sarebbe successo negli anni a venire.
Morì nel 2009 e all’Italia del decennio successivo si può senza grande sforzo applicare l’invettiva di Dante nel VI canto del Purgatorio: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!» (vv. 76-78).
Poi, per fortuna, è venuto Mario Draghi, e a conferma del disordine degli anni precedenti, la sua sola presenza, prima di ogni atto di governo, ha determinato una discesa dello spread sotto i 100 punti dopo che per mesi e anni era stazionato su livelli significativamente superiori con picchi oltre i 300. (Spread, che in inglese significa oscillazione o scarto, indica la differenza di rendimento tra i titoli italiani a 10 anni, Btp, e gli equivalenti titoli tedeschi, espressione di una economia più stabile della nostra. Se i titoli rendono meno lo Stato deve pagare maggiori interessi per invogliare all’acquisto, con aumento del debito pubblico. Pare che l’avvento di Draghi abbia fatto risparmiare un miliardo e mezzo di euro).
Ho ricordato don Gianni Baget Bozzo perché, nonostante non fossi molto d’accordo con le sue scelte, esse erano provocatorie e costringevano a pensare all’impegno del cristiano nel mondo, per riprendere il titolo di un bel libro che ha come autori Balthasar e Giussani e che è stato rieditato nel 2017 da Jaca Book (il consiglio è ovviamente di leggerlo).
Impegno che, data la sua umanità, non è certamente scevro da difetti, ma non può essere definito da questi, come ogni atto positivo. Ciò che qualifica il gesto umano è la sua ragionevolezza, la sua capacità di affrontare la realtà e quindi la fede che lo sostiene.
Perché dovrebbero amare la Chiesa?
Sì, la fede, che non è solo un problema cristiano, né religioso, ma di tutti, che, per vivere devono affidarsi e rischiare, tanto più se si espongono pubblicamente, come chi fa politica. Anche coloro che si appoggiano solo su se stessi compiono un atto di fede, in se stessi per l’appunto. È la scommessa più azzardata, tanto è vero che chi la fa difficilmente la confessa in modo esplicito. Non si tratta solo di aver fiducia nelle proprie forze per il compimento di un’impresa, ma di porre sé come scopo risolutore dell’esistenza.
Tutti sanno che per quanto possano essere bravi in un’attività le circostanze possono fortemente opporsi, se non in quella attività specifica, in altre essenziali per la vita, che con il tempo si indebolisce e termina. Credendoci o meno, optano per l’umile professione di fede negli ideali della cultura, del partito, della patria, dell’onestà, della giustizia, della rettitudine morale, dello sport – tra campionato europeo e Olimpiadi molto presente al momento – e chi più ne ha, più ne metta. Sono dichiarazioni di principio, di fronte alle quali, soprattutto noi italiani siamo alquanto scettici, perché nella nostra storia ne abbiamo viste di tutti i colori.
Come diceva Leo Longanesi: «Attenzione ad appoggiarsi troppo sui princìpi, perché poi si piegano». E forse il principio che si piega di più è quello dell’indipendenza, del tipo “apolitico e apartitico”, affermazione di schiena dritta, non influenzabile. Quanto sopra è per dire che in politica, se è comune la proclamazione della fede in princìpi genericamente riconosciuti, non è per nulla comune la proclamazione della fede cristiana come fondamento del pensiero e dell’azione.
Senza giudicare delle intenzioni buone o cattive, i motivi sono diversi. La fede cristiana è divisiva, non va bene per tutti, che, anzi, in stragrande maggioranza non la comprendono in un mondo sempre più secolarizzato. In “tempi di dialogo” come quelli odierni è meglio valorizzare ciò che unisce, ciò che mette d’accordo perché persone e gruppi hanno diritto indiscutibile alla propria opinione. Inoltre le “opinioni” cristiane sono alquanto impopolari, allontanano invece di avvicinare.
Come dice T. S. Eliot: «Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare le sue leggi?/ Essa ricorda loro la Vita e la Morte, e tutto ciò che vorrebbero scordare./ È gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi vorrebbero essere teneri./ Ricorda loro il Male e il Peccato, e altri fatti spiacevoli» (Cori da “La Rocca”).
Un fatto tutt’altro che personale
La fede cristiana non va sporcata con il perseguimento del potere, inevitabile in politica. Quando, come è successo recentemente nel caso di Matteo Salvini – un solo caso –, un politico ha manifestato atteggiamenti e gesti devozionali, la deprecazione, anche tra popolo credente e clero, è stata grande. La posizione salviniana è stata ritenuta strumentale, tesa ad accalappiare voti tra quelli che – come si sa, sono tantissimi! – ancora recitano il Rosario e venerano la Madonna.
La fede deve essere pura, distaccata, inusabile da quelli che sono evidentemente compromessi con l’ambiguità delle cose del mondo. Infine la fede cristiana è un fatto assolutamente personale e intimo, non può avere legami preferenziali, né obbedienza. In questi casi è scandalo e tendenzialmente crimine, come è stato scritto in diversi procedimenti giudiziari.
Secondo questi magistrati e pensatori analoghi la fede cristiana non deve avere efficacia politica, perché la prossimità e la dipendenza sono potenziali fattori di corruzione. Non si riflette che così si abolisce il valore sociale dell’amicizia, della solidarietà, della dedizione, del sostegno reciproco, che sono gli elementi costitutivi e più ricercati nell’esistenza personale e nella formazione della società.
La fede è propriamente legame, fiducia e affidamento; meglio è la ragione di questi atteggiamenti. È decisione di seguire e di essere fedele riconoscendo una verità e un destino in cui la propria vita è data, compresa e giustificata. «Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (san Paolo 1 Cor 10,31).
Se in atti banali come il mangiare e il bere bisogna perseguire la gloria di Dio, quanto più lo si deve in iniziative e gesti che riguardano il significato e l’impostazione della convivenza civile, come la politica e il voto. Altro che non mischiare questi con la fede! Non solo è inevitabile se si vuole essere ragionevoli, è doveroso se si vuole essere morali.
Senza chiarezza sulla posizione umana che si assume, sul cammino che si intende percorrere, sulla compagnia con cui si vuole procedere non c’è lealtà di proposta e verifica. È fondamentalmente per questa debolezza ondivaga che i politici vengono guardati in genere con scetticismo, magari dopo averli sostenuti con entusiasmo acritico, come dimostra il sali e scendi della loro attuale popolarità.
Il lavoro di cui c’è bisogno
Per tornare alla raccomandazione paolina, che cosa è la “gloria di Dio”? Come disse Benedetto XVI, citando sant’Ireneo a Venezia il 8 maggio 2011: «“Gloria Dei vivens homo, vita autem hominis visio Dei [est]” (Adv. haer. IV, 20, 7). Che si potrebbe parafrasare così: gloria di Dio è la piena salute dell’uomo, e questa consiste nello stare in relazione profonda con Dio». La gloria di Dio è in una esperienza vera, corrispondente al desiderio profondo del cuore che si realizza nella sequela di Cristo, il Dio che si è fatto uomo, per essere visibilmente amico degli uomini e con il suo esempio incoraggiare gli uomini a essere amici fra di loro.
A questo proposito c’è molto da fare, a cominciare dalla necessità, in questo tempo di disordinata e superficiale negazione di concezioni secolari, di riconciliare gli uomini con la loro natura di esseri creati, non autonomi ma bisognosi di senso e rapporti che da soli non si possono dare. L’impegno politico e la fede che lo giustifica sono soprattutto per questo scopo.
Non tutto è uguale, bisogna decidere e scegliere per responsabilità verso se stessi e il futuro. Non possiamo essere la generazione che, in un periodo di pace e di benessere quale mai c’è stato, fa la guerra alle conquiste e all’eredità più importanti delle generazioni precedenti. Sempre Eliot: «C’è un lavoro comune/ Una Chiesa per tutti/ E un impiego per ciascuno/ Ognuno al suo lavoro» (Cori da “La Rocca”).