Per il quarantesimo anniversario della rivolta ungherese

Ungheria 56Articolo pubblicato su Cristianità

Traduzione della relazione di Pierre Faillant de Villemarest, direttore del Centre Européen d’Information

Non si tratta, a mio giudizio, di rifare la storia conosciuta da tutti o quasi. Sarebbe troppo facile fare appello all’emozione, evocando i cadaveri di uomini, donne e bambini che sono caduti sotto i colpi di tre divisioni aeree e delle unità del KGB, non soltanto dal 23 ottobre al 18 dicembre 1956, ma oltre, nei boschi di tre regioni, fino al marzo del 1957.

Il mio scopo è semplicemente quello di ricordare o di sottolineare alcuni dettagli che dovrebbero essere noti alle generazioni nate dopo quarant’anni, affinché possano giudicare la Storia tale quale è stata e non come la si racconta, ancora oggi, anche nei nostri ambienti… Prima di tutto il bilancio: 46.000 morti in cinque mesi, 75.000 deportati in Russia, di cui 8.000 non sono mai ritornati. 228 esecuzioni a cura del governo Kadar, tornato a bordo dei furgoni dei sovietici e imposto da loro. 25.000 ungheresi si erano dati alla macchia dal novembre del 1956. E un numero imprecisato è scomparso, mentre dal 1960 al 1963 c’erano ancora circa 36.000 ungheresi deportati in Unione Sovietica…

Mi domando cosa ne pensi, nel suo foro interno, Gyula Horn, attualmente Primo Ministro, che a partire dal 4 novembre 1956 e fino al maggio 1957, fu uno degli agenti delle forze speciali incaricate da Kadar di compiere la repressione. Alto quadro del comitato Centrale durante gli anni 70, ministro degli Esteri dell’ultimo governo comunista fino al 1989, Gyula Horn è ritornato al potere perché nel 1989 apparteneva segretamente alla Rivoluzione nella Rivoluzione che i pretesi “riformisti” di Mosca avevano preparato in tutti gli Stati satelliti, sperando che, con la sostituzione dei vecchi quadri troppo utilizzati e compromessi da parte di una seconda generazione più giovane, avrebbero salvato il comunismo.

È troppo facile dire, come fa lui, che quei “nuovi quadri” “non potevano fare altro” che obbedire! In questo caso, perché rimproverare ai tedeschi, che non sono stati obbligatoriamente nazisti, né nazisti zelanti, di avere essi stessi obbedito e con questo colpevolizzare, ancora oggi, la Germania intera?

Ma ecco alcuni fatti: se migliaia di manifestanti riempiono le strade di Budapest il 23 ottobre 1956 è in segno di solidarietà con l’immensa protesta del mese precedente, degli operai e degli studenti di Polonia. Protesta che fu così massiccia e con tante vittime nelle fabbriche di Poznan, che Mosca dovette combinare con Varsavia un mutamento di uomini alla testa della sua colonia polacca.

Dei giovani in quei giorni a Budapest, rovesciano la statua gigante di Stalin nel parco municipale. È la prima volta che un simbolo simile viene abbattuto! L’apparato del Partito è preso dal panico. La polizia manifestamente non vuole sparare. I soldati sovietici del settore discutono. Non vogliono sparare sulla folla che, d’altra parte, in ragione di 300.000 persone nella capitale, non è aggressiva, ma partecipa a una specie di festa, tanto che crede di potersi esprimere finalmente in pubblico, come mai prima dal 1945.

Ma il numero uno del Pc, il sinistro Geroe, prende la parola alle ore 20.00 con un discorso radiodiffuso. Respinge le domande di allargamento delle maglie della censura, dei diritti degli operai e degli studenti e urla persino contro di essi degli epiteti volgari e spregiativi. Alle 21.00, l’AVH – la Gestapo ungherese – abbatte all’improvviso 12 persone, sparando sulla folla che si ammassava davanti al palazzo della radio. Allora inizia il dramma.

Per vendicare i propri, alcuni manifestanti si impadroniscono delle armi di decine di poliziotti molti dei quali non oppongono resistenza. I subordinati di Mosca fanno appello alla 92ma divisione blindata, che staziona nei pressi di Budapest. Alcuni insorti si impadroniscono dell’immobile della radio, ma ne vengono espulsi quando, verso le 2 del mattino, quei blindati sovietici si schierano. È l’inizio di cinque giorni di combattimenti nelle strade.

In un primo tempo, il 24 ottobre alle 8 e 13, Andreas Hegedus viene sostituito come Primo Ministro da Imre Nagy. Ma il 25 una decina di città vede a sua volta la stessa sollevazione. I blindati sovietici nella capitale sparano contro ogni assembramento. Quel 25 ottobre, Geroe cede il posto a Janos Kadar.

Per diversi giorni Hegedus e Kadar fanno credere ad una nuova era: dei non-comunisti entrano al governo. Ciò non impedisce che, ancora il 27 ottobre, le truppe russe rimangano attorno ai palazzi ufficiali. Alcuni insorti attaccano in diverse strade. Cinque radio clandestine trasmettono nel paese.

Vengono distribuiti giornali clandestini. In provincia nascono alcuni consigli di fabbrica. Il 29 ottobre, viene annunciato lo scioglimento dell’AVH. Il 31 ottobre il cardinale Mindzenty esce dalla residenza sorvegliata dove veniva custodito dopo la sua prima scarcerazione, nel 1955. Quello stesso giorno i blindati si ritirano dalla capitale.

Mosca invia sul posto, apparentemente per negoziare, Michail Suslov e Anastas Mikoyan, mentre Yury Andropov, a quel tempo ambasciatore in Ungheria, assicura che le divisioni dell’URSS iniziano a lasciare il paese! In realtà, le truppe sovietiche vengono stanziate sui confini del paese mentre altre unità si preparano, dopo la Romania, la Cecoslovacchia e la Germania dell’Est, a un entrata in forze sui punti strategici del paese. Il 4 novembre, dopo quattro giorni di false trattative, per guadagnare tempo, i carri armati sovietici entrano a Budapest. Alcune unità del KGB, dal giorno 2, erano giunte all’aeroporto della capitale.

Dal 4 novembre al 9 dicembre, i combattimenti continuano in diversi quartieri della periferia di Budapest e in provincia. Il 9, gli operai delle segherie di Cespel, come quelli di Györ, di Pecs e di altri centri industriali resistono con le loro povere armi leggere o con le bottiglie molotov. Giungono sul posto dei rinforzi mongoli e Kadar assume la direzione delle operazioni. Il cardinale Mindzenty si rifugia appena in tempo nella legazione americana.

Imre Nagy si è dovuto rifugiare nei locali dell’Ambasciata di Jugoslavia. Ancora alla fine del mese di ottobre aveva creduto che il clan sovietico che lo proteggeva e lo aveva spinto avanti, avrebbe continuato a proteggerlo! Crede che jugoslavi e romeni, che gli propongono di andare a Bucarest, lo proteggeranno.

In realtà, il 26 novembre, Kadar lo ha accusato ufficialmente di essere sceso a patti con i contro-rivoluzionari. Il 12 dicembre, quando viene proclamata la legge marziale, il paese viene paralizzato da uno sciopero generale dei lavoratori, che durerà fino al 13 gennaio 1957, quando viene decisa la pena di morte contro tutti gli scioperanti… Il 20 marzo, Kadar si reca a Mosca a rendere omaggio all’intervento sovietico. Il 27 aprile firmerà accordi di “stazionamento temporaneo” (sic) delle truppe sovietiche in Ungheria. Vi rimangono per altri trentadue anni.

QUALCHE VERITÀ SU NAGY E KADAR

Di Imre Nagy è stato fatto un eroe perché è stato messo a morte (da Mosca) nel 1958 “per tradimento”. Ancora nel 1988, a Parigi, il “martire” veniva commemorato in alcune cerimonie, istigate dalle Logge e sostenute dalla sinistra socialista e comunista… Una parola sul suo vero passato: impegnato nell’inverno del 1917 in una Brigata Rossa, in Russia, dove era prigioniero di guerra, entra l’anno seguente nella Tcheka, ma gli viene affidata più tardi la missione di camuffare il proprio passato mimetizzandosi in social-democratico ungherese.

Nuovamente in Russia nel 1929, ne ritorna solo nel dicembre 1944, nei camion dell’NKVD, per partecipare ad un “governo di coalizione” destinato a neutralizzare prima e in seguito ad eliminare i non-comunisti. L’unico punto di divergenza con Mosca consiste nella collettivizzazione delle terre!

Viene ricollocato nell’ombra. Ne esce nel 1954, quando Kruscev cerca di sostituire i “moderati” agli staliniani. Due anni più tardi, medesima operazione che nel 1944 e nel 1954: viene incaricato, il 23 ottobre 1956, di parlare alla folla, per sedarne gli animi. Viene incaricato in seguito il 1° novembre di far credere alla partenza delle truppe sovietiche. Una volta utilizzati i suoi servizi, passa à la trappe. E viene messo a morte soltanto perché testimoni come lui della doppiezza del comunismo sovietico devono scomparire. Non aveva ricavato nessun insegnamento dai metodi praticati in Unione Sovietica e nel suo impero dopo il 1918.

Ha tradito i suoi compagni. Viene tradito dai suoi compagni. Bisogna piangere su di lui o su un popolo martirizzato? Janos Kadar, nato nel 1912 da madre slovacca e da padre ex-ufficiale austro-ungarico che lo ha subito abbandonato, entra nella Gioventù del Partito Comunista nel 1931. L’apparato sovietico clandestino nel paese lo aveva segnalato. I servizi segreti dell’NKVD lo utilizzano per quasi dieci anni, non come spia ma come sorvegliante dei suoi compagni, che segnalava prioritariamente coloro che in primo luogo si opponevano al patto Hitler-Stalin, quindi erano più nazionalisti che comunisti.

Questo spiega come, nell’agosto 1948, sia stato nominato Ministro dell’Interno al posto del suo amico Lazlo Rajk – il cui vero nome era Reich. Un amico deputato da sette anni, che comunque fa arrestare. Gli promette nella sua cella che avrà salva la vita se rinuncerà al suo “deviazionismo”. E una volta firmata la confessione, lo fa impiccare come “agente di Tito, della Gestapo, dell’OSS e del 2° Ufficio francese (sic).

Ho appreso questi dettagli nel 1949, quando ho aiutato il segretario-interprete di Rajk a rifugiarsi in Austria e in seguito in Svizzera. Nel 1956 la moglie di questo segretarioritornò in Ungheria per partecipare alla lotta armata. È ritornata solo per miracolo, nel marzo del 1957, dopo aver perso le gambe per il freddo nella boscaglia.

Entrambi mi hanno raccontato all’epoca come Kadar avesse spinto Nagy a sostenere gli insorti per persuaderli ad accettare delle trattative, poi, dal 12 giugno 1957, aveva redatto e firmato il dossier che avrebbe fatto condannare a morte Nagy. L’inganno, il doppio gioco, il tradimento dei compagni sono state virtù comuniste per quasi settant’anni, per coloro che volevano diventare quadri del Partito.

L’OCCIDENTE FINGE L’IMPOTENZA

A Parigi, i miei amici e io, vale a dire meno di sei persone, abbiamo organizzato una manifestazione, a partire dal 25 ottobre, per sostenere e aiutare materialmente l’insurrezione ungherese. Questo si è tradotto in cinquemila manifestanti raccolti intorno alla Sorbona, poi in più di quindicimila persone che dopo qualche comizio sono partite per la sede del Partito Comunista. In seguito, abbiamo inviato parecchi volontari al fianco degli insorti, a partire dal 31 ottobre e abbiamo condotto in Occidente un colonnello sovietico di una divisione stanziata a Gyor, che era passato dalla parte dell’insurrezione dopo aver fatto sparare sugli agenti dell’AVH.

Debbo ricordare che il Parlamento francese del 1956 taceva in ogni sua parte e che qualche deputato (meno di venti) ha accettato manifestazioni simboliche, all’Arc de Triomphe, solo all’inizio di novembre? Christian Pineau, ministro degli Affari Esteri, perfettamente al corrente del dramma che sta consumandosi a Budapest, nel momento in cui, da parecchi giorni, i blindati sparavano sulla folla, diceva: “Lasciamo che il comunismo segua la sua normale evoluzione nell’Europa dell’Est!

Aveva bazzicato troppo con i comunisti nel 1944, per osare criticarli. Trent’anni dopo, il 19 ottobre 1986, centoventi personalità di Ungheria, Germania dell’Est, Cecoslovacchia e Polonia lanciavano un “Appello al mondo”, in memoria della rivolta del 1956. In Occidente cala il silenzio su questo appello! Tra i suoi firmatari, c’erano cinquantaquattro ungheresi, sedici tedeschi dell’Est, ventotto polacchi, ventiquattro cecoslovacchi e tre romeni.

Tra questi ultimi, Corneliu Coposu, del Partito Nazionale Contadino, che aveva appena trascorso diciassette nel Gulag. È morto nel 1955, di tristezza e di esaurimento, mentre tentava vanamente di impedire che i suoi carnefici restassero saldi al potere.

Il nostro dovere, il più imperativo come scrittori e giornalisti, è di mantenere e di imporre la verità e il ricordo dei martiri degli Stati sotto l’occupazione sovietico-comunista, nel momento in cui un certo liberalismo americano e europeo d’Occidente, grazie ai mass-media, agisce per cancellare dalla storia i crimini di Mosca e dei suoi subordinati. Non è possibile alcuna “riconciliazione” con chi non rinnega e non denuncia settantacinque anni di sangue e di lacrime e la distruzione costante delle radici, delle tradizioni, dei valori cristiani, che danno vita a un paese e a una civiltà come la nostra.

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