Quello che turba nei dibattiti sull’eutanasia che sentiamo da tutte le parti è la mancata comprensione dell’abisso che c’è tra giudicare un atto eutanasico e promuovere una legislazione eutanasica. Una legge sull’eutanasia è infatti la peggiore soluzione che si possa ipotizzare per dare risposta a un problema reale.
Francesco D’Agostino
Ma, una volta fatte tutte queste faticose distinzioni (ognuna delle quali tale da attivare ulteriori e a volte irresolubili questioni casistiche) sarei ancora all’inizio del mio discorso contro l’eutanasia: mi resterebbe da spiegare perché ritengo illecito sopprimere un paziente terminale, e pienamente capace di intendere e volere, anche se tale fosse il suo autentico ultimo desiderio.
Si osservi che parlo di illiceità e non genericamente di immoralità: infatti, quello che davvero mi turba nei dibattiti sull’eutanasia che sentiamo da tutte le parti è la mancata comprensione dell’abisso che c’è tra giudicare un atto eutanasico e promuovere una legislazione eutanasica. Una legge sull’eutanasia è infatti la peggiore soluzione che si possa ipotizzare per dare risposta a un problema reale.
Non c’è dubbio che esistano situazioni di fine vita tragiche, se non atroci, e non c’è nemmeno il dubbio che esse siano situazioni non solo rare, ma eccezionali, ciascuna cioè connotata da una sua irriducibile particolarità. Ma la legge non è fatta per gestire situazioni estreme ed eccezionali; è fatta per gestire la quotidianità dell’esperienza. Hard cases make bad laws, dicono gli americani e non potrebbero dire di meglio: la legge, qualsiasi legge, burocratizza l’esperienza e non potrebbe fare diversamente.
Ma situazioni estreme, come quelle di fine vita, non tollerano di essere burocratizzate. Quando la legge pretende di farlo, la morte diventa il momento conclusivo di una procedura amministrativa, fredda e anonima come inevitabilmente sono tutte le procedure. Non è un caso (l’esempio di Olanda e Belgio) che dalla proceduralizzazione dell’eutanasia, come atto giustificato dalla richiesta informata del malato, si passi – senza avvedersi dell’enormità di questo pas-saggio – all’eutanasia dei malati di mente e all’eutanasia pediatrica.
E non è un caso che in Olanda ferva il dibattito sull’eutana – sia geriatriaca (la “pillola Drill”), qualificando – non si sa quanto in buona fede – volontà manifestate da anziani in stato di abbandono e spesso in stato di confusione mentale come volontà autonome e da rispettare come assolutamente insindacabili. Mi chiedo spesso come potrebbe reagire un sacerdote in confessionale, qualora un penitente gli dicesse di aver ucciso per pietà, in una situazione estrema, un congiunto.
Nessun atto, anche se privato, singolo, irripetibile, può naturalmente pretendere di non essere assoggettato a un giudizio morale e tale giudizio può anche essere di ferma condanna. Ma quando quel medesimo atto diviene pubblico e, una volta legalizzato, si offre come esemplare e paradigmatico, il discorso cambia completamente.
Non è più la pietà per il caso singolo che viene in questione, ma la gestione legale e burocratica della fine della vita umana, attraverso l’applicazione di freddi protocolli formali. Sul resto si discute, è a questa eu-tanasia che bisogna dire no.